“MUTUAE RELATIONES” IN SENO AL POPOLO DI DIO
VERSO NUOVE RELAZIONI
A 25 anni dalle Mutuae relationes
sul rapporto vescovi e religiosi si impone oggi una revisione. Non è più
possibile ignorare la realtà dei laici, all’interno di un discorso di
comunione. Il tema affrontato dai superiori generali nell’assemblea generale di
maggio.
Uno dei testi più studiati e, forse, anche uno dei
documenti che ha avuto un maggior influsso nella vita della Chiesa in questi
ultimi 25 anni è quello delle Mutuae relationes (MR). Lo ha affermato l’ex superiore generale
dei claretiani, p. Aquilino Bocos
Merino nella sua ampia relazione introduttiva nell’ultima assemblea semestrale
dei superiori generali, svoltasi a Roma, dal 26 al 28 maggio, sul tema delle Mutuae relationes in seno al
popolo di Dio.
Il fatto nuovo di questi ultimissimi anni è sicuramente
quello di numerose “famiglie” sorte attorno al carisma di un determinato
fondatore. Ma i laici di cui si è parlato in questo convegno non erano solo
quelli potenzialmente orientati a far parte di una di queste realtà, ma tutti
quelli che semplicemente in forza del proprio battesimo sono chiamati a vivere
la loro vocazione laicale nel popolo di Dio. Anticipando uno dei temi
trasversali in tutti gli interventi, va detto subito che questa attenzione ai
laici non era puramente utilitaristica e funzionale all’inarrestabile calo
numerico e al progressivo invecchiamento dei religiosi attivi sul campo. Non
voleva essere, cioè, un accorato appello da ultima spiaggia prima di un
inevitabile ridimensionamento della propria presenza nella realtà ecclesiale
odierna da parte di tanti istituti religiosi. Era, invece, la conferma più
esplicita di una presa d’atto – per certi versi ancora tutta da costruire –
della spiritualità di comunione che dovrebbe connotare i rapporti fra tutte le
componenti della Chiesa d’oggi.
LA CHIESA
“CASA DI COMUNIONE”
Aquilino Bocos ha esordito
ricordando la proposta n. 34 del sinodo sulla vita consacrata (1994), con la
quale si auspicava la pubblicazione di un nuovo documento in cui trattare
opportunamente i rapporti fra tutti i membri del popolo di Dio. Ma, in fondo,
già tutti gli ultimi sinodi episcopali1 non hanno fatto altro che approfondire
i rapporti delle diverse vocazioni, sacerdotali, religiose e laicali.
Le premesse per una spiritualità di comunione c’erano già
tutte nei documenti conciliari. Purtroppo, fin dai primi anni dopo il concilio,
tra i religiosi, non sono mancate contraddizioni, dismissioni di opere, lacune,
inesattezze e deviazioni nella comprensione della chiesa particolare e del
ministero dei vescovi. Così come sul versante dei vescovi e del clero diocesano
non sono mancate incomprensioni della vita consacrata e anche delle sue
potenzialità di evangelizzazione all’interno della Chiesa. «Tutto ciò ha
provocato sfiducia, diffidenza, sospetti e non poche emarginazioni o semplici
“utilizzazioni”, pensando solo alla diocesi. Vi era una comprensione riduttiva
della Chiesa particolare, del presbiterio, all’interno del quale i
sacerdoti-religiosi contavano poco o nulla».
Grazie però ai vescovi e ai sacerdoti «molto attenti alla
vita consacrata», da una parte, e ai religiosi e religiose «molto sensibili nei
confronti del ministero episcopale e della Chiesa particolare», dall’altra, è
stato possibile arrivare, nel 1978, alla stesura dei «criteri pastorali sui
rapporti tra vescovi e religiosi nella Chiesa» con il documento Mutuae relationes. I fondamenti
dottrinali di questo documento non solo mantengono la loro validità, ma sono
anzi «una sintesi armoniosa del ricco insegnamento conciliare», soprattutto in
riferimento alla Chiesa come mistero e popolo di Dio. «Ciononostante – ha
osservato Bocos Merino citando anche il parere di
alcuni autorevoli autori in materia – bisognerebbe chiarire quegli eventuali
punti che potrebbero suscitare inadeguate interpretazioni». Potrebbe essere il
caso, ad esempio, di una più approfondita ricomprensione
della chiesa locale in riferimento a quella universale. L’ecclesiologia
dominante nel documento MR, infatti, è quella della Chiesa universale. Lo
conferma la mancanza, nelle MR, di un capitolo sui vicendevoli rapporti tra il
vescovo della chiesa particolare e i superiori religiosi.
Così ancora, potrebbe essere il caso del superamento di
una possibile dicotomia tutte le volte che si parla di doni gerarchici e doni
carismatici. Non sarebbe fuori luogo, inoltre, una maggiore attenzione verso la
comunione fraterna, propria della vita consacrata. I religiosi, infatti, «si
relazionano con i vescovi in quanto membri di una comunità di vita». Così,
ancora, perché non inserire nelle MR gli istituti secolari che sono stati
«espressamente trascurati» nel 1978? Perché non stabilire «criteri e
orientamenti che aiutino a instaurare adeguati rapporti con i movimenti o con
le nuove forme di vita consacrata, con i laici e con i sacerdoti secolari?».
Tutte queste osservazioni non intaccano comunque «il grande valore e il
servizio prestato dalle MR, l’esperienza di comunione che esso ha promosso e
l’auspicio che continui a contribuire al consolidamento dei rapporti reciproci
tra vescovi e religiosi».
Fare della Chiesa una “casa di comunione”, così come ne
parlano abbondantemente anche alcuni dei più recenti documenti, quali Vita consecrata, Novo millennio ineunte
e Pastores dabo vobis, non significa però azzerare tutte le diversità fra
una realtà e l’altra del popolo di Dio. I carismi e i ministeri, le diverse
forme di vita «saranno tanto più utili alla Chiesa e alla sua missione, quanto
maggiore sarà il rispetto della loro identità» (VC, 4).
UN CAMMINO
ANCORA MOLTO LUNGO
Ma come fare della Chiesa una scuola di comunione? La
risposta la troviamo nella Novo millennio ineunte:
proporre questa spiritualità «come principio educativo in tutti i luoghi dove
si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i
consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le
comunità» (n. 45). I rapporti reciproci all’interno della Chiesa sono di fatto
il risultato della formazione ricevuta sia dal clero, che dai consacrati e dai
laici. A questo riguardo, però, nei seminari e nelle università non sono stati
fatti molti passi avanti. Basta sfogliare i testi di ecclesiologia per
accorgersi di quanto poco spazio venga dato a una interazione fra le diverse
vocazioni sacerdotali, religiose, laicali. C’è ancora molto da fare per
«riconoscere la radicale unità e la ricca pluralità delle vocazioni».
Nessuno ignora la complessità dei rapporti tra i diversi
stati o forme di vita, ha concluso Bocos Merino. Ma
proprio per questo è necessario continuare ad approfondire in modo
interdisciplinare i relativi problemi teologico-pastorali.
Sono ancora numerose le questioni sulle quali sarebbe opportuno continuare
un’attenta riflessione, dal ministero ordinato alla vita consacrata, ai laici,
al matrimonio, ai movimenti, avvalendosi di tutti gli specialisti presenti in
non pochi istituti religiosi. E perché non far propria la proposta di quanti
vedrebbero con piacere un sinodo ecclesiale dedicato specificamente alle Mutuae relationes fra tutte le
componenti della realtà ecclesiale? Potrebbe essere un passo decisivo per la
costruzione di una Chiesa che sia veramente «scuola e casa di comunione».
Ma il cammino, si è più volte ripetuto durante il
convegno, è ancora molto lungo. Sia il ruolo dei religiosi che quello dei
laici, di fatto, è ancora troppo spesso più teorizzato che vissuto e
riconosciuto. Un istituto religioso, ha affermato nel suo intervento mons. Jean Bonfils, vescovo di Nizza,
può entrare a pieno titolo in una prospettiva di comunione ecclesiale a una
sola condizione, e cioè che gli siano garantite tutte le condizioni di
esercizio delle proprie libertà carismatiche. In una diocesi priva di comunità
di vita consacrata, sarebbe impossibile parlare di comunione, per il semplice
fatto che in quella chiesa particolare verrebbe a mancare «un elemento decisivo
per la sua missione», verrebbe meno «una parte integrante della Chiesa».
L’insufficiente attenzione, nella predicazione dei
sacerdoti, all’escatologia – che, anche secondo il vescovo di Nizza, appartiene
alla «dimensione più profonda» della vita consacrata – ha come conseguenza
quella di «privare il popolo cristiano della sola prospettiva che sa imprimere
una direzione e una ragion d’essere alla sua vita battesimale». Fino a quando i
religiosi sono visti solo in termini utilitaristici e funzionali all’attività
apostolica della Chiesa, sarà assolutamente impossibile parlare di «comunione
tra le diverse componenti della vita della Chiesa». Accanto ai consigli
diocesani presbiterale e pastorale, per mons. Bonfils
è importante anche quello della vita religiosa, della vita consacrata e delle
società di vita apostolica. Non solo e non tanto per tutelarne i diritti o le
esigenze, quanto piuttosto per discutere con il vescovo tutti i problemi
riguardanti la promozione della comunione ecclesiale, dalla definizione delle
convenzioni tra vescovo e istituti, alla formazione dei seminaristi alla
teologia della vita consacrata, alla promozione delle vocazioni religiose, alla
formazione permanente dei religiosi-laici e delle religiose, al sostegno e
all’accompagnamento della loro vita spirituale (compresa la scelta del proprio
confessore!), e soprattutto al coordinamento pastorale di tutte le opere di
apostolato.
Non solo il ruolo dei religiosi, ma anche quello dei laici
va ricompreso e rivalutato, non in termini puramente
funzionali, all’interno della Chiesa. Stiamo attenti, ha detto, a voler
trasformare, a tutti i costi, i laici più direttamente impegnati nelle realtà
del mondo secondo una loro specifica vocazione, in “operatori pastorali”. La
carenza di clero, l’età e le condizioni di salute di tanti sacerdoti rischiano,
anche senza volerlo, di fare dei laici più impegnati una specie di “chierici
imprestati”. Quanti laici «insufficientemente compenetrati di uno spirito
veramente ecclesiale e incapaci di dominare pienamente la loro sete di potere”
rischiano di far pesare poi sulla comunità cristiana, che sono chiamati a
servire, un neo-clericalismo che, «almeno dalle mie parti, non si trova più
neanche tra i sacerdoti». Il ruolo del vescovo allora è uno solo: saper far
dialogare sacerdoti e laici sulla base di un attento ascolto della parola di
Dio affinché «ognuno trovi il suo posto nella chiesa particolare e si
arricchisca della complementarietà l’uno dell’altro».
NON BASTA
UNA “SPLENDIDA TEORIA”
Le affermazioni più provocatorie sul ruolo dei laici
nella Chiesa i superiori generali le hanno però ascoltate dalla presidente
dell’Azione cattolica italiana, Paola Bignardi.
«L’esperienza dei laici, ha esordito, è stata ed è ancora in molti casi
un’esperienza di fatto, di marginalità e di subordinazione. I laici, abituati a
essere destinatari delle azioni della Chiesa più che soggetti corresponsabili
coinvolti nella vita di essa, hanno sviluppato nel tempo atteggiamenti di
dipendenza e di passività che è difficile far evolvere verso modalità più
partecipative e coinvolte». Affermando esplicitamente che «non c’è comunione
nella Chiesa senza laici», Paola Bignardi ha chiarito
fin dall’inizio che la sua prospettiva è quella della comunità cristiana, quale
si esprime in tutta la sua pienezza nella chiesa particolare.
Se qualche superiore generale si attendeva un qualche
riferimento particolare ai laici delle “famiglie” sorte attorno al carisma del
proprio fondatore,2 oppure ai membri all’uno o l’altro dei numerosi nuovi
movimenti ecclesiali, è forse rimasto deluso. La presidente dell’A.C. ha parlato sì di famiglia, ma solo e unicamente di
quella del popolo di Dio. «La vocazione laicale, con la sua specificità, ha
uguale valore, dignità, responsabilità rispetto a qualsiasi altra vocazione
nella Chiesa». In una famiglia, infatti, «non c’è chi vale di più e chi vale di
meno; ci sono persone diverse, che hanno compiti differenti, ma che vivono
tutte con medesimo cuore». Ora, l’originalità dell’essere dentro questa
famiglia è proprio l’appartenenza a Dio come laici. La vita quotidiana è il
loro luogo di dedizione a Dio, della ricerca di lui, dell’incontro con il suo
mistero. «La condivisione della vita concreta è per i laici la loro vocazione,
è la loro chiamata, il luogo del loro incontro con il Signore: gli impegni che
questo comporta sono volontà di Dio».
A quali condizioni, si è chiesta Paola Bignardi, «è possibile che la fede di noi laici, nella sua
concretezza esistenziale, acquisti un peso, acquisti parola, dentro la comunità
cristiana?». Si dovrebbe, anzitutto, vincere una prassi consolidata da secoli,
quella che «vedeva i laici in una posizione prevalentemente passiva, richiesti
più di obbedienza che di contributo creativo alla vita della comunità».
Convinciamoci, ha insistito, che è ormai arrivato il tempo in cui una
spiritualità di comunione chiede che pastori e laici insieme, «facciano
camminare la Chiesa nella direzione di un dialogo interno che non teme il
confronto tra differenti sensibilità, ma piuttosto teme l’uniformità, il
silenzio, l’omologazione». I pastori oggi dovrebbero avere un solo timore:
quello di un laicato «che dice sempre di sì, che non sa appassionarsi ai
problemi del proprio tempo ma solo alla gestione della “sagrestia”». Devono
temere ancora «quella piccola corte di gente corta che fa siepe attorno al
parroco», secondo la “terribile espressione”, ha detto Paola Bignardi, di don Primo Mazzolari.
I pastori non possono avere paura «di un laicato aperto, leale, in sincera
ricerca di come mostrare al mondo d’oggi la bellezza del Vangelo e l’amore
della Chiesa per ogni persona».
Angelo Arrighini
1 I sinodi sui laici (1987), sul sacerdozio ministeriale
(1990), sulla vita consacrata (1994), sui vescovi (2001).
2 Testimonianze significative a questo riguardo, in
assemblea, sono state offerte dal p. David Fleming, marianista e dal p. John Corriveau, cappuccino.
NELLA BIBBIA I VALORI CONDIVISI
IL LIBRO DEL FUTURO DELL’EUROPA
La Bibbia è il libro delle radici europee e sarà anche il libro del suo
futuro. A partire da esso la Chiesa è chiamata a contribuire alla costruzione
della società europea nella collaborazione ecumenica, nell’amicizia col popolo
ebraico, nel dialogo con l’islam e nella crescita di vocazioni al servizio del
bene comune.
L’agenda internazionale di questi ultimi cinquant’anni è stata scandita da nascita e crescita di un
nuovo e importante soggetto economico-politico, l’Unione Europea (cf. Testimoni 8/04).
I passaggi di questo processo (mercato comune, moneta
unica, dibattito sulla carta costituzionale, allargamento progressivo fino a 25
paesi membri con 455 milioni di abitanti) hanno generato alterne valutazioni,
oscillando tra gli ottimisti che vedono nell’Europa un impulso alla pace e alla
solidarietà mondiale e gli “euroscettici” delusi dal
permanere del gioco degli interessi economici e delle logiche nazionalistiche.
In occasione dell’adesione all’Unione dei 10 nuovi paesi
dell’est, il papa è tornato ribadire che «l’anima dell’Europa resta anche oggi
unita, perché fa riferimento a comuni valori umani e cristiani. La storia della
formazione delle nazioni europee cammina di pari passo con
l’evangelizzazione... La linfa vitale del Vangelo può assicurare all’Europa uno
sviluppo coerente con la sua identità, nella libertà e nella solidarietà, nella
giustizia e nella pace. Solo un’Europa che non rimuova, ma riscopra le proprie
radici cristiane potrà essere all’altezza delle grandi sfide del terzo
millennio: la pace, il dialogo tra le culture e le religioni, la salvaguardia
del creato».
Partendo da queste affermazioni il cardinal Carlo M.
Martini, arcivescovo emerito di Milano, in una recente conferenza pubblica
(9/5/04) ha tenuto a sottolineare come radici cristiane e valori condivisi sono
espressi in maniera privilegiata proprio nei libri delle sacre Scritture.
DRAMMATICI
INTERROGATIVI
L’Europa diviene sempre più grande e più forte, quindi
sempre più responsabile rispetto alla pace mondiale, mentre crescono sofferenza
pericolo e paure per il moltiplicarsi di atti di terrorismo a livello
internazionale: «Il terrorismo – ha ricordato il cardinale – non colpisce ormai
più soltanto alcuni luoghi precisi, come la terra d’Israele, nella quale vivo,
o l’Iraq, ma è capace di colpire in qualunque luogo e in qualunque momento,
come ha mostrato il terribile attentato di Madrid». Tutto ciò in un quadro
internazionale nel quale emergono nuove situazioni di incertezza e drammatiche
sfide, che egli ha riassunto in tre interrogativi.
Il primo riguarda la Chiesa: «Che cosa dice lo Spirito
alle nostre chiese sulla capacità del cristianesimo di essere ancora lievito e
fermento delle nostre società, anzitutto della società europea e della nuova
Europa che sta nascendo?» Il secondo riguarda la convivenza delle diversità: «Riusciremo
in questo nostro mondo ad abitare insieme come diversi, senza distruggerci a
vicenda, senza ghettizzarci a vicenda, e senza neppure solo tollerarci a
vicenda?... Dobbiamo divenire, gli uni verso gli altri, fermento di autenticità
e di ricerca della verità, in spirito di comprensione e di cordiale amicizia.
Non parlo di proselitismo: “tu devi credere ciò che credo io”, ma: “tu devi
seguire la tua coscienza fino in fondo e devi aiutare me a seguire la mia
coscienza fino in fondo”. Gli eventi che stiamo vivendo in questi tempi a
Gerusalemme, come pure in Iraq, ci dicono della enorme difficoltà di questa
sfida. Non siamo capaci di abitare insieme come diversi, tanto meno a vivere
una convivialità reale». Il terzo interrogativo
riguarda la promozione di un bene comune globale: «Riusciremo a superare gli
impasse, i blocchi e le tensioni che il moltiplicarsi dei conflitti di
interesse, tra i grandi possessori dei media, la politica e la finanza
internazionale stanno producendo nel mondo? Non è solo questione di una
giustizia sociale statica, di venire incontro cioè ai poveri della terra, che
sarebbe già un grande traguardo, ma insufficiente da solo. Si tratta di un modo
di vivere e di collaborare insieme a livello planetario che promuova gli
interessi del bene comune mondiale e che sembra sempre più difficile in un
intrico di interessi privati di nazioni e di gruppi, anche economici».
Partendo da queste precise domande, l’oratore ha quindi
cercato di individuare quale sia il significato della Bibbia per il futuro
dell’Europa. Si è espresso con quattro tesi successive. La prima ci dice che la
Bibbia è il libro che ha segnato la storia culturale europea. «Infatti, come
già affermava Goethe “la lingua materna dell’Europa è
il cristianesimo” e anche il filosofo Kant era
convinto che “il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà”… Il
poeta francese Paul Claudel
parla della Bibbia come del “grande lessico” da cui hanno attinto le
letterature europee, mentre il pittore Marc Chagall era convinto che, per molti secoli, i grandi
pittori si sono ispirati a quell’ “alfabeto colorato
della speranza” che sono le sacre Scritture. Senza la conoscenza delle
Scritture è infatti impossibile decifrare il senso dell’arte europea medievale
e moderna».
In secondo luogo, la Bibbia è anche il libro offerto al
nostro presente. Il cardinal Martini su questo punto si è richiamato alla sua
ventennale esperienza pastorale nella diocesi di Milano, durante la quale non
si è mai stancato di tornare all’insegnamento del concilio Vaticano II (Dei verbum), affinché la Bibbia ridiventi familiare al popolo
cristiano e sia punto di riferimento della sua preghiera e della sua vita:
«L’esperienza mi ha insegnato che tante persone, anche poco credenti o poco
praticanti, sono state scosse da questo linguaggio e hanno trovato e trovano
delle pagine della sacra Scrittura la luce per il proprio vivere quotidiano e
la forza per superare le difficoltà».
La Bibbia, è la terza tesi, è però anzitutto il libro del
futuro dell’Europa. In vista dei problemi emergenti dal contesto socio-politico
sopradescritto, «sarà sempre più necessario che vi siano in Europa uomini e
donne che rendano testimonianza della necessità della gratuità, del dono di sé,
del servizio fatto senza interesse proprio, dell’amore al bene comune al di là
del bene dei singoli e dei gruppi, della necessità del perdono concesso prima
ancora che sia accolto. È, infatti, su questi pilastri che riposa una società
giusta, capace di aiutare i più deboli… una società che possa vincere l’inimicizia,
superare il male col bene e cercare ogni giorno di costruire la pace… E
l’Europa, che ha lasciato dietro di sé le guerre dei secoli passati e ha
imparato a conoscerne la forza distruttiva, l’inutilità e l’assurda violenza,
può e deve essere per gli altri continenti promotrice e garante di pace».
Da tutto ciò nasce la necessità di «dire Dio all’uomo
contemporaneo, con un linguaggio chiaro e comprensibile, che esprima la sua
trascendenza, il suo amore per l’umanità e il bisogno dell’uomo di ogni tempo di
riposare in lui. La Bibbia contiene queste parole. E la Bibbia le contiene in
un tessuto di grande umanità, con un vivo senso della fragilità e della
debolezza dei figli di Adamo… La Bibbia non è un libro calato dal cielo: è un
libro in cui ciascuno può specchiarsi e ritrovarsi, in cui vi sono pagine per
tutte le situazioni di sofferenza e di gioia per cui passa ogni creatura umana.
Per questo è un libro che parlerà anche alle future generazioni».
NEL NUOVO MILLENNIO
CON LA SCRITTURA IN MANO
L’ultima tesi riguarda le condizioni perché la Bibbia
possa essere efficacemente il libro del futuro dell’Europa. Si deve partire da
«una collaborazione ecumenica, fraterna e convinta, tra tutte le confessioni
cristiane. Il futuro dell’Europa è strettamente legato alla testimonianza di
unità che sapranno dare i discepoli di Cristo. Ora, questo cammino inevitabile
di unità, tra le chiese in Europa, si farà a partire dalla Scrittura e mediante
una conoscenza sempre più profonda di essa».
Sulla base di questo rinnovato ecumenismo occorrerà poi
«prendere sempre più viva coscienza del rapporto che lega le chiese cristiane
al popolo ebraico e del ruolo singolare di Israele nella storia di salvezza,
storia che riguarda tutte le nazioni. L’Europa è stata la terra nella quale si
è consumata la più terribile persecuzione contro il popolo ebraico e il
tentativo di distruggerlo, con gli orrori della Shoà
e dei campi di sterminio. L’Europa del futuro dovrà essere contrassegnata da
un’amicizia sempre più profonda per il popolo ebraico, riconoscendo le radici
comuni che esistono tra il cristianesimo e l’ebraismo. Il dialogo col giudaismo
sarà dunque di importanza fondamentale per la coscienza cristiana e anche per
il superamento delle divisioni tra le chiese. Bisognerà ricordarsi sempre
“della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella
diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda
perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia
con i figli di Israele” (Ecclesia in Europa 56 ). E
questo soprattutto di un momento come il nostro in cui sembra crescere nel
mondo lo spirito antisemita e in cui il popolo di Israele sta vivendo un
momento particolarmente drammatico della sua storia. Il conflitto che contrappone
ebrei e palestinesi non potrà essere superato se non con l’aiuto e attraverso
l’assunzione di responsabilità da parte di tutte le grandi nazioni, e in
particolare dell’Unione Europea. Ma per questo l’Unione Europea dovrà ritrovare
le sue radici bibliche che la legano indissolubilmente con il popolo ebraico».
Su questo punto, il cardinal Martini, che risiede per
gran parte del tempo nella città di Gerusalemme, non ha perso l’occasione di
sottolineare il ruolo che per il futuro dell’Europa ha e avrà questa città: «La
novità che Dio prepara per il mondo intero è quella di uscire dalla condizione
di lacrime, di lutto, di afflizione e di morte, per aprirsi alla Gerusalemme
nuova. Non è indifferente per la costruzione della città dell’uomo che la
Bibbia, e in particolare il libro dell’Apocalisse utilizzi, per definire il
futuro dell’umanità, l’icona di Gerusalemme… Questa Gerusalemme celeste è un
dono di Dio, riserbato per la fine dei tempi. Ma non è un’utopia. È una realtà
che può cominciare a essere presente fin da ora, e che non può prescindere dai
problemi e dalle speranze della Gerusalemme di oggi. In ogni luogo nel quale si
cerchi di dire parole e di fare gesti di pace e di riconciliazione, anche
provvisori, in ogni forma di convivialità umana che
corrisponda ai valori presenti nel Vangelo, c’è una novità, fin da oggi, che dà
ragioni di speranza. E nella Gerusalemme di oggi – lo posso affermare come
testimone diretto – vi sono tanti di questi piccoli e semplici gesti di pace,
di amore, di riconciliazione e tante forme di convivialità
vissuta. Occorre che l’Europa sostenga e promuova questi gesti perché assumano
a un certo punto valore e peso politico e diventino premesse per un cammino di
pace».
Da queste considerazioni discende l’ulteriore condizione
rappresentata da un dialogo interreligioso coraggioso e profondo e un rapporto
fraterno e intelligente con l’islam. Mantenendo la fiducia nel disegno di
salvezza di Dio che riguarda tutti i suoi figli, «bisognerà essere coscienti
delle divergenze esistenti tra la cultura europea e la cultura araba, ma questo
non per chiudersi in una fortezza europea, ma per aprirsi a uno scambio sincero
che permetta la fiducia reciproca e sostenga le forze dialoganti all’interno
dell’islam per un cammino di pace».
Affinché questo scenario di dialogo e di interdipendenza
possa diventare casa comune, è stato infine lucidamente sottolineato che «sarà
di importanza capitale suscitare e sostenere vocazioni specifiche – politiche –
di numerosi laici al servizio del bene comune europeo e mondiale: persone che,
seguendo l’esempio di coloro che sono stati chiamati padri dell’Europa,
sappiano essere artefici della società europea dell’avvenire, facendola
riposare sulle basi solide dello spirito. E queste basi solide dello spirito
sono quelle che troviamo nella Scrittura e, in particolare, nel Vangelo».
Non sarà una formula a salvarci né un programma, ma la
persona vivente di Gesù Cristo (NMI 39). È questa persona vivente, la quale ci
parla attraverso le Scritture nella forza dello Spirito, che ci salverà. La
Chiesa entri dunque nel nuovo millennio con in mano il libro del Vangelo!
a cura di Mario
Chiaro
URBANESIMO ED EVANGELIZZAZIONE
LE CITTÀ LUOGO DELLA MISSIONE
È finita l’epoca della missione nella brousse. Il
futuro della missio ad gentes
è nelle città, in particolare nelle megalopoli del sud del mondo. Per questo
tipo di missione occorrono metodi e persone nuovi, ma la Chiesa rischia di
essereancora una volta in ritardo.
Nel 2007, secondo l’ultimo rapporto redatto dall’ONU
sullo stato della popolazione mondiale, un abitante su due vivrà in una
megalopoli, vale a dire il 50% degli abitanti del pianeta. Si parla di città,
soprattutto nell’emisfero sud, che arriveranno fino a 20 milioni di abitanti e
oltre, come Bombay (22,6), New Delhi (20,9), Città del Messico (20,6) San Paolo
(20). L’esempio più eclatante è quello di Tokyo che raggiungerà i 37 milioni.
La notizia può sembrare una delle tante proiezioni futurologiche del nostro tempo fatto di statistiche e di
inchieste, rese facili dall’informatica oggi imperante nella nostra cultura. Ma
per gli operatori della missione questa notizia dovrebbe suonare come un segno
dei tempi e, più ancora, come un campanello d’allarme che attira l’attenzione e
fa riflettere.
Il fenomeno dell’urbanesimo non è certamente nuovo. È il
logico risultato della civiltà industriale che ha modificato profondamente le
abitudini della gente in quest’ultimo secolo della
nostra storia. Ma per la pastorale queste nuove concentrazioni urbane sono
evidentemente una novità carica di incognite e di problemi sia sul piano
sociale che religioso. La gente vi vive sradicata dalla propria cultura e dal
proprio gruppo, spesso in quartieri dove prosperano la promiscuità, la
malavita, l’ingovernabilità, i gruppi fondamentalisti
e ogni altro genere di propaganda.
Lavorare oggi in città, ovunque, è diventato più
difficile. Se poi si pensa a essere pastori in uno degli agglomerati urbani del
sud del mondo dove si concentrano tutti i problemi dello sviluppo e del
sottosviluppo dell’intero paese, non è difficile immaginarne la complessità e
l’urgenza nello stesso tempo del lavoro da compiere; un lavoro non impossibile,
ma certamente molto esigente e cruciale anche e soprattutto nelle terre una
volta dette di missione. Lo diceva già una quindicina d’anni fa Giovanni Paolo
II in Redemptoris missio
(37b): «Oggi l’immagine della missione ad gentes sta
forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove
sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e
comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la “scelta
degli ultimi” deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e
isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i
piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire. un’umanità nuova
con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando
nelle città».
In Africa, in Asia e in America latina il problema
dell’urbanesimo e della concentrazione della popolazione nelle città sta
diventando una sfida pastorale inevitabile che richiede di essere urgentemente
presa in considerazione con nuovi metodi e soprattutto con persone nuove.
Quando si visitano città come Sâo Paulo del Brasile,
Città del Messico, Lagos, Nairobi, Giacarta, Manila,
Hong Kong non si può sfuggire all’impatto con la loro cruda realtà. Sono città
che riproducono l’immagine stessa del mondo della globalizzazione: un centro
luminoso, slanciato, tecnologicamente all’avanguardia, pulito e accogliente,
simboleggiato da uno skyline di grattacieli, degno
delle metropoli americane, ma poi, andando dal centro verso la periferia, si
nota un progressivo degrado sociale e logistico che costringe ad aprire gli
occhi su una realtà di disoccupazione, affollamento, povertà, insalubrità e
assenza di governo, che è esattamente e simmetricamente il contrario di quello
che si vede al centro. I quartieri periferici, in continua inarrestabile
espansione, accolgono una folla anonima, indistinta, abbandonata a se stessa,
che fornisce la manodopera alla città, ma che ne assorbe anche tutte le
tensioni e le contraddizioni.
È FINITA UN’EPOCA
DELLA MISSIONE
La gente delle periferie è necessaria e funzionale alla
crescita industriale ed economica della città, ma vive nella città in modo
sradicato. Essa sente acutamente, più acutamente degli altri, il disagio della
vita urbana e il contrasto con la zona di provenienza. Un contrasto lacerante:
là viveva ancora al ritmo delle stagioni e, pur nella povertà, conservava
ancora la sua dignità, custodiva e coltivava i valori culturali, umani e
cristiani che poteva ancora insegnare e trasmettere alle nuove generazioni.
Così è stato per molto tempo ed è ancora in tante parti del mondo legato alla
missione ad gentes. Soprattutto così è stato e continua
ad essere nella testa di tanti missionari i quali, non me ne vogliano, perché
missionario sono anch’io, vanno in missione per ritrovare, inconsciamente, quel
mondo che non trovano più nelle loro terre. Si dice che i missionari in Africa
soffrono del mal d’Africa. È vero: è difficile che i missionari si riaccasino in Europa dopo aver speso qualche anno in
Africa. Si sa quanto essi insistono per rientrare in missione, perché – dicono
– non riescono più ad adattarsi alla realtà di casa loro. Questo a ben vedere,
e salvo sempre qualche eccezione, avviene perché non riescono ad accettare la
nuova situazione della pastorale delle loro zone d’origine. Si sentono, se non
proprio stranieri in casa propria, quanto meno estranei alla nuova situazione.
Oggi nella nuova situazione urbana tutto è messo in
discussione e quindi in crisi, e tutto sembra cambiato: la gioventù è
affascinata e sedotta dalle luci della città e dagli specchietti della cultura
della globalizzazione che vede imperante al centro delle città. La saggezza
degli anziani non riesce a farsi ascoltare. Un vuoto si crea nelle nuove
generazioni riempito da valori che vengono da fuori, superficiali ed effimeri:
sono i nuovi idoli della città che per i giovani funzionano da droga alienante
e da diversivo pericoloso che sbocca quasi sempre nella violenza.
È ben comprensibile che il missionario, abituato a una
pastorale rurale, trovi difficile lavorare nell’ambiente urbano. Tra i
missionari se ne trovano pochi che accettano di lavorare in città, mentre sono
pronti per le zone interne del paese. Poco importa se all’interno non c’è né la
televisione né altre comodità ormai consuete, se il telefono non ha campo per
ricevere le comunicazioni. «Si sta così bene in brousse»
– dicono i missionari classici.
Questo genere classico di missione non solo è destinato a
finire, ma già adesso non ha più futuro, perché non ha più una grande incidenza
nella coscienza della gente. La città, pur lontana e poco amata, sta corrodendo
la cultura rurale, la gioventù non resta facilmente all’interno, cerca la città
dove, se non trova lavoro, trova tuttavia quella libertà che ha sbirciato e
sognato guardando la televisione nel bar o nella casa di qualche fortunato
compaesano. Le scuole superiori sono in città, le università e gli ospedali
pure: come è possibile costruire il futuro nella brousse?
È vero che la cultura originaria non viene cancellata dalla coscienza della
gente: per certi avvenimenti i cittadini, sia i politici che gli intellettuali,
ritorneranno sempre al villaggio! Ma ormai la generazione presente e certamente
la prossima è rivolta alla città.
LA CHIESA RISCHIA
DI ESSERE IN RITARDO
Tutto questo insieme di attrazione e di paura, proprio
delle città del terzo mondo, domanderebbe una riflessione e un impegno della
Chiesa, la quale tuttavia, per un’innata lentezza, che quasi ovunque la
caratterizza, non ha saputo né prevedere questi problemi né sembra capace di
affrontarli efficacemente. Se li trova davanti senza essere in grado di
elaborare un progetto globale e preciso d’intervento pastorale. Non è suo
compito trattenere la gente nella brousse e, anche lo
volesse, non saprebbe come fare. Ma sarebbe suo compito prevedere qualche luogo
di preghiera e di riunione per la comunità cristiane e acquistarlo a tempo. È
raro invece incontrare un vescovo africano che si preoccupi di sapere dove va
lo sviluppo della città e anticipi la tendenza urbanistica acquistando il
terreno per il futuro centro pastorale, se non proprio per una parrocchia. Così
quando la Chiesa arriva, trova che tutto è nelle mani di speculatori che hanno
approfittato della situazione o che hanno chiesto o imposto una lottizzazione
selvaggia del terreno, senza prevederne alcuno per una cappella o per un centro
pastorale, per una scuola o un dispensario. Ma anche gli istituti missionari e
religiosi non hanno finora dato prova di grande coraggio e creatività in questo
campo. Ci sono stati dei momenti in cui si è parlato molto di inserimento negli
ambienti popolari, ma sembra ormai un discorso molto lontano nel tempo,
cancellato dalla polemica sulla teologia della liberazione.
NON BASTANO QUA E LÀ
PRESENZE PROFETICHE
In queste condizioni ci sono state, e ci sono anche oggi,
delle presenze profetiche di religiosi e missionari nella linea dell’opzione
preferenziale per i poveri. Ma sono scelte troppo personali per offrire cammini
di pastorale urbana per tutti. Stabilirsi in questo modo in queste periferie è
certo un modo di presenza molto evangelico, che s’avvicina all’eroismo,
ammirato da tutti (o quasi…), ma che non risolve i problemi di una pastorale
adatta a questa nuova situazione. Perché non si dovrebbe riflettere insieme a
livello di istituto religioso e a livello di consiglio presbiterale, o meglio
pastorale, per individuare dei cammini elementari e condivisi per
l’evangelizzazione della città?
La prospettiva di un’ulteriore dilatarsi degli
agglomerati urbani del sud del mondo dovrebbe farci sentire l’urgenza di
elaborare una nuova strategia pastorale. L’improvvisazione e gli espedienti
suggeriti dalla situazione contingente non sono sempre espressione di fede e di
fiducia nella Provvidenza. Non si può rischiare di rimanere assenti da questa
nuova realtà.
Bisogna quindi prevedere non solo dei luoghi di preghiera
e di raduno per la comunità cristiana, ma soprattutto nuovi metodi per
accostare la gente che arriva in città come in un deserto e non viene subito e
sempre a presentarsi alla comunità cristiana. Bisogna pensare nuovi ministeri
non ordinati adatti alla nuova situazione, delle équipes
pastorali duttili e sciolte per entrare in queste nuove situazioni senza troppi
intralci canonici o istituzionali (confini di parrocchie e gelosie di
competenza pastorale)!
Tutto questo dovrebbe essere oggetto della programmazione
pastorale delle diocesi oggi. Purtroppo non è così. Troppo spesso gli argomenti
affrontati nei consigli presbiterali di troppe giovani chiese del terzo mondo
ruotano attorno ai soliti problemi del narcisismo clericale: il sostentamento
del clero, lo stipendio delle messe, i mezzi di trasporto, le strutture
logistiche per il clero e, quando riescono ad andare un po’ più in là, arrivano
a fissare l’età in cui dare i sacramenti ai fanciulli o a determinare il modo
di rifiutare i sacramenti… C’è da morire di asfissia!
UNA NUOVA MENTALITÀ
E UNA PASTORALE NUOVA
Assumere una nuova mentalità adatta alla pastorale dei
centri urbani non sarà un lavoro facile. Probabilmente una generazione deve
scomparire, quella che ha praticato la missione “tradizionale”. Molti operatori
pastorali che hanno sempre lavorato nel contesto rurale delle diocesi oppure
anche nelle città, ma con una pastorale centrata sulle parrocchie, una
pastorale cioè di conservazione, faranno molta fatica a riadattarsi a una nuova
pastorale urbana, ad avere delle comunità elastiche, che nascono e si
trasformano nell’arco di una generazione. Chi è abituato alla parrocchia
europea, anche urbana, ma gestita alla maniera antica, sarà bene che non
s’imbarchi in questa nuova pastorale; farebbe una fatica cane, senza riuscire a
trovare la formula adatta.
Bisogna creare una nuova mentalità, che nuova in realtà
non sarebbe, perché è quella del Vangelo, del pastore che va alla ricerca delle
sue pecore, che non le attende all’ovile, ma che non ha con sé, come nella
parabola di Luca, le novantanove, ma una sola pecora, mentre le altre sono
disperse (non necessariamente perdute!) nelle Cohabi
di una città come Sâo Paulo o nelle città satelliti
di Manila o nelle interminabili e sconosciute periferie di Lagos o di Nairobi!
La nuova pastorale sarà quella della ricerca e
dell’accoglienza, sarà quella dell’invio di laici impegnati e appositamente
preparati per accogliere e raccogliere questi nuovi membri della comunità
cristiana; sarà una pastorale che risponde ai tempi reali della gente che
lavora in città e che rientra solo per mangiare e riposare. Bisognerà praticare
spesso una pastorale traversale e quindi d’insieme per rispondere alle nuove
categorie della popolazione secondo i loro interessi e le loro condizioni.
Insomma è tempo di fantasia pastorale non di ripetizione di sistemi d’altri
tempi e d’altri luoghi.
Siamo certo di fronte a una sfida inedita per la missione
e per i suoi operatori. Sapremo raccoglierla? In questi ultimi tempi la
missione ha messo l’accento, giustamente e opportunamente, sull’opzione preferenziale
per i poveri, sull’impegno per la giustizia e la pace e sull’inculturazione.
Era necessario e continua a esserlo. Non si tratta di chiudere questi capitoli
come fossero “missione compiuta”. Oggi tuttavia la previsione dell’ONU circa
l’urbanizzazione nelle zone del sud è un invito alla Chiesa e agli istituti
religiosi e missionari a prendere in considerazione questo nuovo campo, questo
areopago dove annunciare Cristo con metodi nuovi, con contenuti appropriati e
soprattutto con personale rinnovato. Questa è la nuova evangelizzazione.
Riusciremo finalmente a mettere in campo qualche cosa di appropriato?
Gabriele Ferrari s.x.
DARFUR TRAGEDIA INIMMAGINABILE
«Si tratta della più drammatica corsa contro il tempo che
ci sia attualmente nel mondo. Se la perdiamo, centinaia di migliaia di persone,
in gran parte donne e bambini, periranno». A lanciare l’allarme è Jan Egeland, sottosegretario
generale per gli affari umanitari dell’ONU, e assieme a lei anche Clemens von Heimendahl,
responsabile della Croce Rossa tedesca il quale aggiunge: «Siamo in presenza di
una tragedia inimmaginabile. I villaggi sono distrutti e incendiati, la gente
uccisa come in un mattatoio, gli ospedali rasi al suolo e le infrastrutture in
gran parte distrutte».
Non si sta parlando dell’Iraq, il cui dramma è sotto gli
occhi del mondo intero, ma del Darfur (508.684 kmq e
con una popolazione stimata tra i 4 e i 5 milioni di abitanti), territorio
sudanese, sconosciuto alla grande maggioranza, situato a circa 800 chilometri a
ovest di Khartoum, ai confini con il Ciad, dove dal
febbraio 2003 è in atto una ribellione contro il governo centrale.
Ad attizzare la ribellione sono due fazioni: l’esercito
di liberazione sudanese (SLA) e il movimento per la giustizia e l’uguaglianza
(JEM) che rimproverano al governo di Khartoum di
disinteressarsi economicamente della loro regione. Il conflitto ha già
provocato 30.000 morti di cui 10.000 negli ultimi sedici mesi, 800.000
sfollati, mentre circa due milioni di persone sono minacciate dalla carestia.
Tutto ciò nonostante gli accordi firmati lo scorso 8 aprile per un cessate il
fuoco.
Il 26 maggio scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha
adottato una dichiarazione in cui «esprime la sua grave preoccupazione per il
deterioramento della situazione umanitaria e i diritti umani nella regione
sudanese del Darfur», e condanna gli attacchi contro
i civili, le violenze sessuali, gli sfollamenti forzati e ha stigmatizzato «gli
atti di violenza alla cui base c’è un carattere etnico».
In quindici mesi, scrive il quotidiano francese la Croix (2 giugno 2004), almeno un milione di persone
originarie del Darfur hanno abbandonato i loro
villaggi, non solo per fuggire dalle zone di guerra, ma soprattutto per cercare
di sottrarsi alle estorsioni degli “uomini a cavallo”, i cosiddetti Jenjaweed, che sono sostenuti dal governo di Khartoum. Questi sgherri bruciano, saccheggiano
sistematicamente i villaggi, violano le donne, portano via i fanciulli attuando
una politica di terrore e di terra bruciata, costringendo la gente a una fuga sconvolgente. La maggior parte di
coloro che sono riusciti a fuggire sono partiti senza niente, senza viveri,
vestiti, coperte né utensili da cucina. La grande maggioranza è costituita da
donne, bambini e anziani.
Gli uomini invece vengono uccisi mentre tentano di
coprire la fuga delle loro famiglie oppure sono tentati di raggiungere i due
movimenti della ribellione.
In base alle stime dell’ONU, attualmente il numero delle
persone che mancano di tutto sono due milioni. Secondo l’Alto Commissariato
dell’ONU per i rifugiati, da cento a duecento mila sono fuggiti nel Ciad,
75.000 dei quali raccolti in sette campi profughi.
La gente, spiega Mercedes Tatay, responsabile aggiunta delle urgenze dei “Medici
senza frontiere”, vive in uno stato di debolezza che si aggrava di giorno in
giorno.
Il tasso di denutrizione aumenta pericolosamente.
Un quarto dei bambini al di sotto dei cinque anni sono
malnutriti. Con l’arrivo delle piogge la gente va a bere agli uadi (letti
fluviali dove l’acqua scorre solo in occasione delle piogge), provocando
diarree mentre nel frattempo ha fatto la sua comparsa anche il paludismo. Afferma Mercedes Tatay: «È lo scenario più terribile che io abbia mai
visto».
Gli aiuti umanitari stentano ad arrivare. Perché tanto
ritardo? La ragione è semplice: Khartoum ha per lungo
tempo frenato la consegna dei visti e dei permessi di viaggio all’interno del
paese. Inoltre la gestione dei campi degli sfollati – persone che fuggono ma
che restano all’interno dei confini – dal punto di vista amministrativo è più
complessa di quella dei campi profughi affidati all’Alto commissariato
dell’ONU. Per gli sfollati è l’autorità del paese che deve occuparsi delle
popolazioni civili, o decidere di delegare a delle grandi organizzazioni
dell’ONU o alle Ong la gestione dei campi.
Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati alla
frontiera con il Ciad, almeno 125.000 sono senza assistenza. La maggior parte
dei campi affidati all’Alto commissariato dell’ONU sono sovraffollati e decine
di migliaia di altri rifugiati si insediano nelle vicinanze nella speranza di
essere registrati e di ricevere i kits necessari per
l’installazione e la razione di nutrimento. Ma la mancanza di acqua e di viveri
si fa sentire. Inoltre, con l’arrivo delle piogge, alcuni campi, come Goz Amer o Esterna non saranno
più raggiungibili. Solo gli elicotteri o gli aerei potranno assicurare i
rifornimenti.
L’accordo del cessate il fuoco, firmato l’8 aprile
scorso, rimane molto fragile e precario. Il conflitto in questa regione sta già
attirando gruppi di ribelli provenienti dal sud. Nel frattempo, a est presso la
frontiera con l’Eritrea si sta accendendo un’altra rivolta dei ribelli Beja che anch’essi rimproverano a Khartoum
di non sostenere economicamente la loro regione.
Osservatori internazionale intanto sono stati inviati nel
Darfur per verificare da vicino la situazione e
cercare possibili vie di uscita. È un piccolo segno di speranza che si accende
anche se tutto rimane per ora nell’incerto.
Un altro segno di speranza è legato alle sorti delle
regioni meridionali del Sudan dove dal 1983 infuria ininterrottamente una
guerra con il governo centrale dal 1983 che ha provocato un milione e mezzo di
vittime e più di quattro milioni di sfollati.
Il 26 maggio scorso infatti sono stati firmati tre
protocolli di accordo tra il governo centrale e il movimento armato popolare di
liberazione del Sudan (SPLA), riguardanti la divisione dei poteri e il
controllo delle tre regioni disputate al centro del paese: quella dei monti Nuba, del Nilo blu occidentale e dell’Abyei,
ricca di petrolio.
Il compromesso raggiunto prevede il passaggio del 55% di
questi territori alle autorità di Khartoum e il 45%
ai ribelli del sud. Da parte sua l’SPLA ottiene la garanzia che la legge
islamica, in vigore nel nord musulmano non si applicherà ai non musulmani. Gli
aspetti tecnici del cessate il fuoco dovrebbero essere perfezionati entro la
fine di giugno e l’inizio di luglio. Si sa tuttavia per lunga esperienza che
gli accordi che vengono firmati in queste regioni del mondo, come anche nella
zona dei Grandi Laghi, sono molto precari e tutto potrebbe ben presto tornare
come prima.
LA VITA CONSACRATA OGGI
SPUNTI DI RINNOVAMENTO
Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e questa nostra
gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la speranza. Anzi
leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso, dando una forma al
loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti e dalle delusioni.
Più volte si è parlato in questi ultimi tempi, in
coincidenza con la nuova configurazione che il nostro continente europeo sta
assumendo, del ruolo che la vita consacrata è chiamata a esercitare. Qualche
accenno su questo argomento si trova anche nell’esortazione postsinodale
Ecclesia in Europa (28 giugno 2003) dove si parla
appunto della “testimonianza dei consacrati” (37-38), ma il testo non va oltre
ad alcuni semplici vaghi enunciati. Il discorso quindi va ripreso e
approfondito.
Affrontando questo argomento, p. Bruno Secondin, in un recente intervento, osserva che «di grandi
e mirabili teorie la vita consacrata non manca oggi: mancano piuttosto i
percorsi reali e credibili di una nuova prassi, in grado di garantire una ortoprassi feconda alle magnifiche ortodossie. Per questo
forse servono meno le grandi schematizzazioni, e giovano piuttosto certi spunti
biblici che aprono squarci imprevisti e significativi».
E lo spunto biblico da cui parte è l’episodio narrato
dagli Atti degli Apostoli al capitolo 16 dove è descritta la prima avventura
europea di Paolo, e trova qui la fonte per sviluppare alcune indicazioni circa
una significativa presenza della vita consacrata nel nuovo contesto europeo.
Si domanda: «cosa insegna l’episodio di Filippi?».
Un rischio e una incognita, osserva, erano per Paolo evidenti:
la cultura europea e latina erano a lui sconosciute. Ma quando si rende conto
che è la mano misteriosa di Dio che gli taglia le altre strade, accetta il
rischio e si mette in gioco con intelligenza. Indica per tutti noi che certe
situazioni difficili e rischiose possono farci paura, ma se sappiamo leggerle
come segni di chiara volontà di Dio, bisogna aderire e mettersi in gioco da
protagonisti, senza remore. Anche un sogno può essere un segnale, se siamo
disponibili e intuitivi.
La mancanza di sinagoga pubblica costringe Paolo e
compagni a escogitare soluzioni più fragili, in alternativa. E di fatto proprio
lungo il fiume incontrano delle donne riunite per onorare Dio di sabato. Fuori
dai segni sacri, in un ambiente povero e quasi generico, sanno mettersi in
gioco come annunciatori della parola del Signore. Seminano con disponibilità e
semplicità: e nasce la prima comunità cristiana.
Anche il Signore semina di sabato con loro: egli “apre il
cuore di Lidia per aderire alle parole di Paolo”. Non sono tanto le parole di
Paolo a far aderire alla fede, ma la grazia del Signore. L’affermazione non
solo segnala il buon esito, ma anche insegna che in ogni caso solo se il
Signore accompagna le nostre attività di annuncio e di dialogo, esse hanno
l’effetto giusto.
È coinvolta l’intera famiglia: ciò indica familiari e
parentela, servi e domestici. Segnala il radicarsi della comunità cristiana in
un contesto dalle basi familiari solide. Sono proprio queste “famiglie” locali
uno strumento fondamentale dell’ evangelizzazione e del rafforzamento della
comunità dei credenti nell’Europa di allora.
ALLA RICERCA
DI MOTIVAZIONI
Proviamo ad applicare, con un po’ d’ immaginazione e
qualche sapore di provocazione, scrive Bruno Secondin,
questa storia alla nostra stessa ricerca di motivazioni sostanziose e
stimolanti. Sarà una teologia narrativa, non puramente una lista di
affermazioni teoriche, anche se ci esprimeremo in modo sintetico e con qualche
battuta pungente. Ma lo facciamo per passione e amore per questa vocazione.
Non fare esercizi di sopravvivenza
Come succedeva per Paolo che voleva semplicemente
ritornare a visitare le comunità fondate nel primo giro missionario.
L’intenzione era buona, ma forse copriva la mancanza di coraggio e di nuova
iniziativa: e per questo lo Spirito intralciava la fuga per la tangente. Come
anche sembra intralciare tante nostre iniziative di apostolato e di animazione
vocazionale: ci mettiamo tutte le forze, ma vediamo che i risultati sono
scarsi, che finiamo sempre in sabbie mobili.
Ammodernare giudiziosamente le case, studiare il carisma
fin nei minimi dettagli, elaborare testi di programmazione sempre più
distillati, entrare nel web per diffondere il nostro marchio, rincorrere
beatificazioni con sforzi immani (anche economici), riciclare ad ogni costo con
stages culturali anche le zucche di chi ha voglia
solo di defilarsi e star tranquillo, ecc. Sono tutti segnali di un girovagare
per una strada che porta fuori, che va a chiudersi in una specie di cul de sac, senza uscita.
Il carisma una risorsa da non sprecare
Il carisma appartiene alla ragione simbolica, parabolica
e carismatica, e la sua routinizzazione strumentale e
funzionale è sicura via di sterilità e di confusione. Bisogna reinventare queste qualità preziose – simbolica, parabolica,
carismatica – radicando nella fede il senso della nostra vita. Qui è il nucleo
del problema: lo smottamento della fede come ragione vitale e fuoco divorante,
per farla diventare quasi pura affermazione dottrinale o consumo rapido e bulimico di gesti sacri confezionati e standardizzati.
Abbiamo smarrito l’intelligenza del cuore, il soffio
vitale che è quell’appello amoroso che ci aveva fatto
partire: la nostra vocazione deve ritrovare la bellezza interiore di una
vocazione ecclesiale che non si rigira su se stessa ossessivamente. Ci mancano
cuori pensanti e cuori amanti che sappiano superare la tentazione dell’hybris esibita spudoratamente: le attività frenetiche, gli
slogan taumaturgici per incidere in una società dai messaggi ingorgati e
fosforescenti, il presenzialismo fine a se stesso e non orientato ai valori
centrali del Vangelo e della chiesa.
Ritrovare la funzione simbolica, critica, trasformatrice
Così aveva definito la funzione della vita consacrata l’
Instrumentum laboris (n. 9) del sinodo del 1994. Non
possiamo limitarci a pizzicare là dove le sporgenze di fragilità rendono
ricattabile la nostra società e la cultura, specie quella giovanile. Ma
dobbiamo immergerci con tutte le risorse nella navigazione incerta e agitata
verso altre rive. Le derive contemporanee abbondano, non è lasciandoci anche
noi portare alla deriva che facciamo compagnia e comunione con i naufraghi.
Dobbiamo saper passare dalla frammentarietà alla
convergenza, dalla preoccupazione per la nostra organizzazione alla re-invenzione
di una contestazione evangelica che sembra smarrita e diluita; dalla golosità
diffusa e trend per ogni brillio di esperienza sopra il normale e luccicante,
alla luminosità di una vita trasformata e trasfigurata da una presenza
misteriosa ma personale e non vaga. Se la nostra stessa vita non è icona ed
esegesi di una trasformazione liberatrice e guaritrice, se noi stessi siamo
schiavi delle idolatrie del pantheon postmoderno, come potremo proporci agli
altri per un progetto di vita che non risponde al bisogno così marcato di
trasparenza e di luminosità?
Ritrovare l’intelligenza del cuore
Il testo degli Atti dice che è stato il Signore ad aprire
il cuore a Lidia per aderire alle parole di Paolo La fede non è un fai-da-te da
acquistare al supermarket del politeismo contemporaneo: è un rischio e una
avventura, una notte stellata e un travaglio doloroso, è logos e pathos,
conoscenza logica e conoscenza simbolica in armonia. “Con ogni cura vigila sul
tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (Pr 4,23). Questo
vuol dire dare il primato alla persona e non alla struttura, suscitare passione
e avventura e non sottomissione e dipendenza, liberare la fedeltà creativa e
non imbalsamare gli ardori in sofisticati congegni spersonalizzanti, come sono
tante volte le cariche e le responsabilità negli istituti.
Senza una fede pensante e amante, audace e paziente,
intuitiva e non intimorita della vulnerabilità, nulla ha senso nella nostra
vita. Io ho l’impressione che proprio il debilitamento della nostra fede –
opacizzata dalle frustrazioni e dalle delusioni in molti campi, quello della
chiesa e delle sue priorità compreso – sia un grave problema oggi. Diciamo di
avere fede, proclamiamo la fede, ma non la si vede voi operativa nell’audacia e
nella semplicità dei mezzi e dei risultati, nella parresia
di andare contro corrente, nella disponibilità a vivere anche le vertigini di
relazioni che esigono maturità ma anche rischio, libertà ma anche passione,
bende per le ferite ma anche profumi odorosi.
Potenziare il tasso di profezia della nostra missione
Come sappiamo, la profezia nasce dall’ascolto orante e
disponibile della Parola, ma anche dal confronto fra la Parola e le sfide e le
angosce dei contemporanei (VC 94). Far dialogare questi due ambiti, in modo da
assumere davvero i sentimenti di Cristo nel senso più intimo e conformativo; ma anche imparare “l’arte di cercare i segni
di Dio nella realtà del mondo” (VC 68). Oggi profezia può avere molti percorsi
pratici, al di là dei variegati discorsi teorici.
È profezia credere che da qualche parte ci sono segni di
incontro e di fede, anche se all’apparenza non se ne vedono, come succedeva per
Paolo a Filippi. È profezia intuire i cuori assetati
di verità e di novità anche se non sono i nostri normali interlocutori, anche
se parliamo sedendoci a cerchio e non ex cathedra. È profezia e intuizione da
sviluppare una nuova vicinanza con i laici non in maniera accomodatizia,
ma investendo sulla loro fede matura, la loro capacità di fare “convocazione”,
di rivitalizzare valori e stili di vita che noi
abbiamo devitalizzato dentro un sistema sacro. Tante volte manchiamo di questa
“presa a terra” nei nostri sistemi e progetti: tiriamo i fili di una
elettricità ad alto voltaggio, ma puramente aerea: poi scendendo al pratico
facciamo corto circuito, s’inceppa tutto. Black out!
Lasciarci costringere a cambiare schema
Siamo ancora troppo paurosi di lasciare la via nota e sacralizzata per nuove forme di convivenza e di servizio,
di linguaggi e di orizzonti. Eppure proprio in VC noi troviamo nel terzo
capitolo una dozzina di paragrafi dedicati al tema a “una testimonianza
profetica di fronte alle grandi sfide” (84-95). In essi appaiono con sorpresa,
non del tutto ancora esplicitata dai commentari, i temi classici della vita
consacrata: i voti, la vita comunitaria, la preghiera, la meditazione della
Parola. E sono preceduti da quattro paragrafi ancor più provocatori: due
dedicati alla dimensione profetica, uno al martirio e uno al significato
antropologico e terapeutico della vita consacrata. Il papa completa in questa
parte una (forse) eccessiva concentrazione teologale della prima parte:
indicando come anche settori così classicamente intimistici e spirituali,
devono invece avere una stretta correlazione con la storia e le sue sfide, con
le idolatrie e le angustie dei contemporanei.
Finché non riusciamo a dare forma vera e sistematica a
queste suggestioni, i nostri grandi valori di vita e di identità resteranno
sopratemporali, vaghi ideali, oppure ossessiva e nevrotica miniaturizzazione
dell’anima. Non possiamo essere i bonsai del Vangelo; non possiamo
semplicemente fare i venditori di pane già confezionato. Dobbiamo essere il
lievito che davvero fermenta la pasta e rende il pane “sollevato”. Ma per
riuscirci bisogna cambiare schema di priorità e di prospettive: quello che in
fondo vuole imprimere nella nostra mente e nelle nostre prassi il documento di
base del prossimo congresso sulla vita consacrata (2004).
Leggere e organizzare i segni di speranza
L’avventura europea di Paolo era cominciata bene ma
presto è finita male, tanto che lui stesso qualche tempo dopo la ricorderà come
un «aver sofferto e subito oltraggi a Filippi» (1Tes
2,1). Eppure non si è scoraggiato, ha proseguito verso altre città ancor più
difficili sul piano religioso e culturale, fino ad arrivare all’areopago di
Atene, dove pure non ebbe gran fortuna. Ma di Filippi
Paolo conserverà, come ho detto, una grande nostalgia e verso quella fragile
comunità rivolgerà spesso consigli e preoccupazioni. Egli non ha identificato
il fallimento iniziale con tutto ciò che poteva essere Filippi.
Ha creduto in altre risorse, ha incoraggiato altre stagioni meno dolorose: ha
dato consigli ma anche ha donato col suo affetto un segno altissimo della fede
comune: l’inno cristologico.
Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e
questa nostra gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la
speranza. Anzi leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso (NMI
58), dando una forma al loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti
e dalle delusioni. La vita religiosa sembra troppo ripiegata su se stessa,
sulle sue ferite e scottature, e avere perso la fantasia e l’immaginazione.
Proprio ora che le nuove situazioni sociali alla deriva globale avrebbero bisogno
di interpreti intelligenti e di compagni affidabili nel passare il guado così
turbolento. Di solito non ci muoviamo se non con i piedi di piombo, se non là
dove tocchiamo il fondo, guardinghi e pavidi. Lo statuto della profezia e della
sapienza che alimentava la vita nostra sembra svanito: non ci sarà alcuna
grande storia (cf. VC 110) se continuiamo a
nasconderci nei nostri cespugli.
Dobbiamo abitare gli orizzonti, senza pretendere di
muoverci solo quando avremo in mano una topografia dettagliata e garantita. Non
hanno preteso questo i nostri fondatori: hanno vissuto la libertà con slancio,
la immaginazione istituzionale fuori dagli schemi, la passione per l’umanità
con immediatezza e quasi istintività.
Quella istintività che VC chiama una sorta di istinto
soprannaturale (VC 94): frutto di una adesione di fede al Signore con cuore
docile e orante, ma anche con la passione del Signore stesso per nuovi cieli e
nuova terra. Bisogna saper assecondare quella “novità assoluta” che Dio stesso
offre e impone con la sua presenza, come canta l’Apocalisse letta nelle
domeniche del tempo pasquale.
B. S.
AL CROCEVIA DEL TERZO MILLENNIO
LA NUOVA VITA COMUNITARIA
A 40 anni dal concilio è possibile cogliere le novità dello stile di vita
che è andato affermandosi. Esso poggia su tre colonne fondamentali: le
relazioni personali di “amicizia nel Signore” (koinonia,
carisma, diaconia) in vista della missione evangelizzatrice o servizio
apostolico (kerigma) e la vicinanza ai poveri.
La comunità è il volto interiore della vita religiosa.
Entrando in una di esse si percepisce subito il tipo di rapporti che esiste tra
i membri: se sono cordiali, di amicizia e fiducia, di spontaneità e gioia
oppure solo di rispetto, cortesia e circospezione. I giovani sono
particolarmente sensibili a questo. Molte case di formazione sono il luogo dove
si trova un ambiente sereno e accogliente e chi vi entra si sente “a casa”,
senza bisogno di protocolli né formalismi. E si trovano anche numerose le
comunità di religiosi/e adulti che sono già entrate nel nuovo stile e hanno
saputo conservare gli elementi essenziali e nello stesso tempo sono state
capaci di adattarsi alle esigenze del nostro tempo.
Facendo il paragone tra lo stile di vita comunitaria
precedente al concilio con quello nuovo che si cerca ovunque di promuovere si
nota un forte contrasto: da un tipo di comunità basato sull’osservanza regolare
si è passati a comunità centrate sui rapporti personali di amicizia nel
Signore, anche se i valori essenziali sono rimasti i medesimi.
Padre Carlos Palmés, parlando di questo problema, ossia della nuova vita
comunitaria, nel contesto di un discorso più ampio riguardante la vita
religiosa al crocevia del terzo millennio,1 ha cura di descrivere
dettagliatamente questi elementi essenziali, in se stessi irrinunciabili, al di
là dello scorrere dei tempi, per giungere poi a delineare il nuovo stile di
vita comunitaria che deve caratterizzare oggi la vita religiosa.
ELEMENTI
ESSENZIALI IRRINUNCIABILI
Gli elementi essenziali comuni che si trovano alla base
delle varie forme di comunità, riscontrabili a partire dal secolo IV fino ai
nostri giorni sono: l’amore a Cristo come centro e motivazione dello stare
insieme, il radicalismo, il distacco e l’amore fraterno.
Anzitutto la scelta di Cristo come centro e motivazione
della vita comune. I cenobiti furono affascinati dalla vita di Cristo e
sentirono il bisogno di giungere a una vita che assomigliasse il più possibile
alla sua. Volevano vivere l’obbedienza perfetta ai comandamenti di Dio e in
particolare il grande comandamento dell’amore a Dio e al prossimo… la preghiera
continua e l’incessante studio della parola di Dio, ciò che connota
profondamente la loro koinonia è il teocentrismo, il culto dell’assoluto di Dio. La ricerca di
Dio come l’”unico necessario”.
La comunità religiosa è un evento di fede; senza di essa
sarebbe una follia. Naturalmente oltre alla fede entrano in gioco anche altri
elementi umani come l’affinità dei caratteri e delle idee, i costumi e le
culture che cooperano a rendere più facile e gradevole la convivenza; ma,
osserva p. Palmés, non sono la motivazione
definitiva. Ciò che sta più in profondità è la vocazione a cui il Signore ci ha
chiamato, fondata sulla comunione di uno stesso ideale evangelico.
Per il resto il monaco non ha alcuna pretesa di essere
diverso dal resto dei cristiani. Desidera solo vivere più intensamente e in
maniera più continua e percepibile questa koinonia. È
una comunione che viene da Dio (cf. 2Cor 5,19),
poiché è lui la fonte e la pietra angolare della comunione.
Il secondo aspetto è il radicalismo delle sequela,
anch’esso costante e irrinunciabile. Esso esige come presupposto il distacco da
tutto. L’evangelista Luca mette chiaramente in luce la stretta unione che
esiste tra l’adesione incondizionata alla persona di Cristo e il fatto di
“lasciare tutto”(Lc 5,11-28; 14,33) per farne dono ai
poveri. È un radicalismo che si esprime in modo evidente nel lasciare tutti i
propri beni e nel mettere tutto in comune.
Ora, la rinuncia alla proprietà privata per mettere tutto
in comune si è sempre conservata come un elemento insostituibile della vita
consacrata. Ciò evita le divisioni e i confronti tipici della società per
realizzare invece un modo di vivere evangelico in cui non c’è nessuno escluso,
dove tutti hanno i medesimi diritti e gli stessi doveri, in cui non ci sono né
ricchi né poveri.
Questo ideale sfocia poi nel terzo aspetto caratteristico
della vita religiosa che è l’amore fraterno, secondo il comandamento di Gesù:
“Amatevi gli uni gli altri”. Da una vita comune di fede e di donazione a Dio,
come unico assoluto, dal distacco da ogni cosa e da se stessi, scaturisce
spontaneamente l’amore al fratello. Il rapporto con l’altro stabilisce una
reciprocità affettiva. Siamo in presenza di una specie di miracolo morale che
mostra chiaramente il vero discepolo di Cristo. In un mondo di guerre, di
discordie, di odio, di divisioni, di materialismo, di postmodernismo
e neoliberalismo… basati su un grossolano egoismo, è una testimonianza
spettacolare trovare gruppi di uomini e di donne che, uscendo dai propri
interessi, vivono per gli altri e fanno esclamare a coloro che li conoscono
“vedete come si amano”.
Si tratta comunque di un distacco più difficile che non
quello dai beni materiali poiché tocca gli aspetti più profondi della persona:
i suoi criteri, gli atteggiamenti e i sentimenti… e suppone un amore più
limpido e profondo.
Tutti e tre questi elementi, sottolinea p. Palmés, sono stati vissuti a partire dal momento in cui
nacque il cenobitismo fino ai nostri giorni. A soffrirne
di più tuttavia è stato il terzo, quello dell’amore fraterno, poiché la koinonia è molto influenzata dalle circostanze dei tempi,
dalla cultura, dal luogo, società e costumi, ecc. Stili di comunità che in
altri tempi erano espressione di amore fraterno, forse oggi non lo sono più. Ai
nostri giorni ci vogliono dei segni più chiari e autentici espressi in un
linguaggio comprensibile alla nostra società. Non basta infatti ripetere le
forme che erano in vigore in un altro tempo.
Sarebbe ora lungo e persino superfluo ripercorrere le
varie fasi della storia, a partire da Pacomio,
Basilio, Agostino, Benedetto attraverso gli ordini mendicanti, e
successivamente i cambiamenti intervenuti nel secolo XVI quando viene posto al
centro non più l’osservanza regolare ma la missione, fino alla prima metà del
secolo scorso appena finito. Alla vigilia del concilio Vaticano II quando il
modello vigente in tutti gli istituti era quello dell’uniformità. Nella società
stava intanto avanzando una realtà nuova: democrazia, mezzi di comunicazione
sociale, neoliberalismo, postmodernismo, rapporti
umani più liberi e di vicinanza, movimenti popolari, affermazione dei diritti
umani, ecc. Contemporaneamente nella Chiesa, “popolo di Dio”, si è andato
affermando il valore della persona, si sono sviluppate nuove forme di comunità,
è cresciuto il desiderio di una maggior partecipazione, assieme ad altri
fenomeni come una liturgia più aperta, la coscienza attiva dei laici, la
perdita allarmante delle vocazioni religiose e la diminuzione di quelle nuove…
Tutti questi cambiamenti hanno sconcertato i religiosi/e
provocando una crisi di identità. Era necessario un cambiamento, che non poteva
essere solo di superficie e di abbellimento. Nasce e si afferma così un nuovo
stile di vita comunitaria. Furono compiute numerose esperienze, a volte anche
fuori strada o esagerate. La grande novità fu la comparsa di “piccole comunità”
che si diffusero un po’ dovunque, caratterizzate dallo spostamento dalla
centralità dell’osservanza alle relazioni personali come nuovo asse della vita
comunitaria.
TRE NUOVE
COLONNE
A distanza di 40 anni dal concilio è ora possibile
cogliere le novità dello stile di vita che è andato affermandosi. Si è tornati
a guardare alla comunità di Gerusalemme di cui parlano gli Atti e alla prima
intuizione espressa da san Basilio: «amarsi veramente gli uni gli altri». Ma
come realizzare oggi concretamente questo ideale?
Secondo padre Palmés, questo
stile di vita comunitaria poggia su tre colonne fondamentali: le relazioni
personali di “amicizia nel Signore” (koinonia,
carisma, diaconia) in vista della missione evangelizzatrice o servizio
apostolico (kerigma) e la vicinanza ai poveri.
I primi due aspetti sono essenziali e non è lecito
rinunciare a uno per enfatizzare l’altro. Esaltare il primo e dimenticare il
secondo vorrebbe dire trasformare la comunità in una specie di “nido” dove si
sta bene al caldo, ma chiusi alla realtà del mondo. Accentuare il secondo,
dimenticando il primo, vuol dire trasformare la comunità in una “piazza” dove passa
chiunque e dove manca l’indispensabile privacy. Oppure significherebbe cadere
nell’”attivismo” e in una vita superficiale. La terza caratteristica si
realizza invece in grado diverso in base al luogo in cui si vive e il contatto
concreto con i poveri.
Delle tre caratteristiche la principale e più
rivoluzionaria è comunque la prima, da cui derivano serie conseguenze nella
configurazione della comunità. Anzitutto non è indifferente il numero dei
membri che deve essere limitato: al massimo 12/13, ma non è certo ideale che si
riduca a 2/3 individui, per di più pressati dalle urgenze apostoliche.
Altrettanto importante è la base umana di educazione,
maturazione affettiva, tolleranza, capacità di comunicazione… doti che sono
sempre state necessarie, ma oggi più che mai poiché i rapporti sono più vicini
e lo stato d’animo e il comportamento di ciascuno si riflette sugli altri.
Decisiva è poi la dimensione di fede se si vuole essere
realmente “amici nel Signore”. Certamente, osserva p. Palmés,
possono essere di aiuto anche l’affinità dei temperamenti, la coincidenza delle
mentalità, ecc., ma la ragione dello stare insieme è il Signore: è lui che ci
ha chiamato alla stessa vocazione religiosa e apostolica ed è lui che dà
significato e consistenza alla nostra amicizia.
La spiritualità da vivere è quella dell’amore, per
giungere a essere una “famiglia di fratelli” dove ci sia «l’unione dei vostri
spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti» (Fil
2,1-2). Lo sforzo principale perciò non consisterà nel mettere in pratica delle
norme, ma nel mantenersi attenti e disponibili a rendere felici gli altri, in
modo che caratteristica che maggiormente interpella sia il «come si amano».
I MEZZI
CONCRETI
Ciò che è stato detto fin qui, sottolinea p. Palmés, corrisponde sostanzialmente a quello che è
contenuto nelle costituzioni di tutti gli istituti. Ma nelle dichiarazioni di
principio siamo tutti bravi e brillanti. Quello che invece distingue coloro che
vivono un’autentica vita di comunità da coloro che non la vivono sono i mezzi
concreti impiegati per tradurre gli ideali in realtà.
Tenuto presente che oggi l’essenziale sono le relazioni
personali, la strada da seguire deve svilupparsi su questo itinerario:
conoscersi gli uni gli altri, accettarsi vicendevolmente per giungere ad amarsi
come amici del Signore.
Conoscersi gli uni gli altri, non solo esteriormente per
il carattere, le qualità, i difetti e il successo apostolico, ma in profondità
e in modo personale. Per questo è necessario aprirsi, comunicare. «Credo, scrive
p. Palmés, che questo sia uno degli aspetti che
maggiormente difettano in molte comunità. Capita anche il caso deplorevole di
individui che convivono anni e anni, rimanendo estranei gli uni gli altri. E
non conoscendosi rimangono indifferenti l’un l’altro. Anche a questo proposito
vale il detto che ci viene dal medioevo: “non è possibile amare ciò che non si
conosce”».
In secondo luogo, accettarsi. Accettare gli altri come
sono, non “come dovrebbero essere”. Tre sono i campi dove le differenze di
mentalità sono più tangibili ed esigono perciò in modo particolare l’esercizio
del dialogo: il rapporto tra conservatori e progressisti; tra giovani e anziani
e tra nativi e stranieri. Altre fonti di discordia possono essere la diversità
di carattere, origine, classe sociale, ferite affettive: «in tutto ciò la
chiave per risolverle è amare la persona perché è mia sorella, è mio fratello;
allora le differenze si traducono in una ricchezza e non in una barriera».
In terzo luogo, amarsi gli uni gli altri: bisogna giungere
a una vera amicizia in modo che ciascuno possa dire in tutta verità dell’altro
“è un mio amico”.
Concludendo le riflessione, p. Palmés
attira l’attenzione su due realtà che insidiano oggi la vita di comunità: la
prima è il rischio di essere un arcipelago di isole solitarie, nonostante che
tutti si sforzino di vivere l’ “osservanza regolare”. Ognuno però poi tende a
vivere per conto suo: In secondo luogo, l’ossessione per il lavoro. Senza
dubbio il lavoro apostolico deve occupare la maggior parte del tempo: la
comunità è infatti in funzione dell’apostolato e non viceversa. Ma capita che
«l’azione apostolica assorba tutto il tempo e le energie così che non si ha più
voglia di starsene in silenzio in cappella o di “perdere del tempo” in riunioni
comunitarie o conversazioni personali. Si è caduti nell’attivismo e in una vera
disintegrazione della vita». L’impressione che offrono queste comunità è quella
di una “équipe di impresari apostolici” o di “onorati professionisti” o di una
“pensione di pie signorine”. Forse da punto di vista professionale o
organizzativo sono persone eccellenti, ma come religiosi/e sono mediocri.
L’esperienza di Dio e la vita comunitaria sono passati in secondo piano.
Inviare dei giovani in questo genere di comunità vuol dire esporli a qualsiasi
genere di crisi.
Sono molte tuttavia, conclude p. Palmés,
le comunità che hanno intrapreso un cammino concreto e vivono una vita che
riproduce l’ideale della prima comunità di Gerusalemme e il sogno e
l’intuizione dei fondatori dei primi cenobi. Oggi, ciò che essi hanno vissuto,
dobbiamo viverlo noi in modo diverso, ma, come è avvenuto per loro, facendo sì
che quanti ci vedono possano esclamare in piena verità “guardate come si
amano”.
A.D.
1 Di questo contesto delineato da p. Palmés
abbiamo parlato nel n. 5 di Testimoni, p. 7, nell’articolo intitolato La vita cosacrata nel terzo millennio. Unire mistica e azione
profetica.
COMUNITÀ E ANIMAZIONE
Scrive: «Chiedo: questo nuovo modello vi trova
disponibili? Oppure l’animazione della vigna che il Signore vi affida (casa,
parrocchia, scuola…) è in certo modo condizionata dalla preoccupazione del
fare, dal funzionamento concreto dell’opera, dall’immobilismo dell’ambiente,
dal crescente scoraggiamento?
Cerchiamo di fare qualcosa di nuovo con le persone
(ospiti, operatori, professionisti, genitori, fedeli…) che il Signore ci affida
o siamo semplici amministratori, senza nessun afflato spirituale-evangelico,
senza “mozione spirituale” direbbe sant’Ignazio di Loyola, poco sensibili a ciò che sta nascendo nella Chiesa
e nel mondo, e che esige da parte nostra iniziativa e creatività?
Per aiutarvi a dare una risposta, mi permetto di
suggerirvi alcune considerazioni che possono metterci in cammino.
Animare è infondere un’anima evangelica
L’animazione, per essere tale, deve nascere dal desiderio
di servire il Vangelo e di fare delle nostre presenze una forte esperienza di
Chiesa. La vera animazione va avanti solo con questa mistica, con questa
disponibilità a giocarsi, altrimenti è un fare, fare anche molte cose, ma che
non danno qualità evangelica a ciò che si fa.
Animare è infondere anima: l’idea che anima sia una
figura decorativa dispensatrice di
benedizioni o di belle parole e basta, nelle nostre case sarebbe inaccettabile.
Le nostre case sono a pieno titolo oasi di fede e di carità, come voleva il
fondatore: “Devono essere luce del mondo con il loro buon criterio di sapienza
cristiana. Devono essere città poste in alto per vedere ovunque ed essere
vedute” (Massime di spirito e metodo d’azione, 51). In effetti la testimonianza
che la gente capisce e da cui si lascia coinvolgere è una fede viva e autentica
nutrita dalla parola di Dio, dai sacramenti e dalla coerenza della vita,
espressa nella carità.
Animare è “farsi servi”, perché l’animatore è uno che
crede in un progetto di liberazione dell’uomo, di cui si pone al servizio, è un
militante della causa del
l’uomo. Egli sa che la persona oggi rischia di essere
sopraffatta dalla trama intricata delle relazioni politiche, economiche,
culturali. Perciò egli si gioca nella scommessa che, attraverso l’animazione, è
possibile far crescere e sviluppare le forze che possono rigenerare l’uomo e la
società in cui vive e quindi agire, anche qui come indicava il fondatore, in
modo preventivo. In pratica l’animatore valorizza, moltiplica le risorse delle
persone, a partire dalla concretezza dei loro limiti e ricchezze, dalla loro
età ed esperienza dei loro compiti e loro sogni.
Animare è “mettersi in relazione con”
Del tutto inutile sarebbe la riflessione sul futuro della
comunità religiosa se pretendesse di essere la titolare di tutte le attività di
cui si compone la sua missione. Oggi la convivenza in qualsiasi realtà socio- religiosa è fatta
di molteplici settori, e questi sono costituiti da più soggetti. In casa nostra
per esempio vi è la comunità educativa locale a ricordarci che non si può più
essere battitori liberi, ma che occorre coinvolgere, prima di agire. Il
problema si fa urgente perché con noi sono coinvolti i laici, con i quali
collaborare non è più aleatorio, è necessario.
È dunque inevitabile che la comunità perda molto della sua
autonomia e si arricchisca di collaborazione, partecipazione, collegamenti,
coordinazione, scambio di energie e mezzi. E naturalmente viene di necessità
una figura di religioso capace di entrare in relazione, animatore che sappia
collegare insieme le parti e le persone, perché non perdano vigore nel loro
isolamento, ma convergano verso un progetto d’insieme a vantaggio dei
destinatari.
Nel concreto si tratta di far crescere in comunità uno
stile di accoglienza, di ascolto, di relazioni personali, di fiducia, di
impegno, di lavoro in vista di una comunione che renda reciprocamente
interattivi tutti coloro che vi operano. Il confratello solleciti più che può
la responsabilità e l’azione dei collaboratori. Oggi è in questa capacità di
coordinare e di coinvolgere che viene valutata l’idoneità del religioso
animatore. Tanto più se questo religioso è anche sacerdote. Qual è infatti il
compito specifico, proprio del sacerdote in una comunità tutta responsabile
della sua edificazione nella comunione e del servizio dell’uomo nel bisogno? Il
sacerdote, in tale soggetto educativo-pastorale, deve
svolgere il suo compito senza mortificare quello degli altri componenti, anzi
valorizzandoli e coordinandoli; e ciò perché cresca la comunione e l’incidenza
della missione. Il presbitero deve sempre ricordare che non può presumere di
riunire in sé tutta la ministerialità della Chiesa.
Egli piuttosto è chiamato a esercitare il carisma del discernimento, della
promozione, dell’animazione, dell’armonizzazione dei diversi doni dello
Spirito. È aiutato quindi dalla grazia dell’ordine sacro a superare la figura
dell’amministratore, del manager della comunità, per sostituirla con quella del
sacerdote donato alla causa del Vangelo.
Chiudo con l’augurio che questo quadro di valori serva a
farci valutare la situazione e ci inquieti continuamente per la sua
trasformazione».
GLI ESERCIZI SPIRITUALI
È LO SPIRITO CHE GUIDA E GOVERNA
Non bisogna guardare tanto alla pietà di chi frequenta gli esercizi ma ai
valori evangelici che spesso già possiedono e praticano, pur senza saperlo.
Gli esercizi devono essere soprattutto un ministero di misericordia e di
collaborazione con lo Spirito “autore e donatore di vita”.
Gli esercizi spirituali non sono fatti solo per le
persone devote e spiritualmente avanti nella via della perfezione, ma per
tutti. Chiunque può esserne un potenziale soggetto. Per questo si può dire che
gli esercizi si caratterizzano per la loro dimensione “missionaria”. Non
bisogna pertanto guardare alle persone che desiderano parteciparvi solo dal
punto di vista della loro vita di preghiera o del loro cammino spirituale. Ciò
che invece va cercato in primo luogo è di scorgere in esse Dio che è all’opera,
individuarne gli aspetti positivi per infiammarli poi con il Vangelo. Ma per riuscirvi
è indispensabile che colui che guida gli esercizi trovi prima Dio in se stesso
e si lasci convertire dalla grazia che viene poi donata a coloro a cui si
rivolge.
Punto di partenza è pertanto è l’oggi così come è vissuto
da coloro che partecipano agli esercizi. Un oggi in cui ciò che a volte risalta
non è tanto una vita di fede saldamente vissuta e professata, ma forse un
insieme di valori che sono evangelici anche se chi li vive spesso non se ne
rende conto.
Il gesuita Ignacio Iglesias,
scrivendo su questo argomento, osserva che conoscere questo oggi delle persone,
i ritmi, i livelli di crescita e di maturazione, o anche gli scoraggiamenti e
le paure presenti nella coscienza di ciascuno, compresi coloro che predicano, è
un presupposto importante, per non dire decisivo.1
QUATTRO
PRINCIPALI TENDENZE
In quanto gesuita, p. Ignacio
si riferisce naturalmente all’apostolato degli Esercizi di sant’Ignazio,
ma le sue osservazioni valgono per chiunque svolga oggi questo genere di
missione nella Chiesa.
Punto di partenza quindi è cercare di conoscere le
persone a cui ci si rivolge. In linea generale queste si caratterizzano per
quattro tendenze principali. La prima è quella di una religiosità diffusa, a
volte effervescente, ma ansiosa, spesso angosciata ed eclettica, espressione di
una ricerca di salvezza al di fuori di se stessi e del desiderio di aggrapparsi
a qualsiasi tavola di salvezza, oppure di fabbricarsela, creando così i
presupposti di un sicuro naufragio, di confusione o di catastrofe. Giovanni
Paolo II ha descritto così questo fenomeno ambiguo e insieme bisognoso di
discernimento: «Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità
materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall’altro si
manifestano l’angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il
desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera.
Non solo nelle culture impregnate di religiosità, ma anche nelle società
secolarizzate è ricercata la dimensione spirituale della vita come antidoto
alla disumanizzazione. Questo cosiddetto fenomeno del
“ritorno religioso” non è privo di ambiguità, ma contiene anche un invito» (Redemptoris missio 38).
La seconda tendenza si colloca all’estremo opposto:
consiste in una certo scollamento o presa di distanza dalla cosiddetta Chiesa
“ufficiale”. Nella esortazione apostolica Ecclesia in
Europa, il papa definisce questo fenomeno come «uno smarrimento della memoria e
dell’eredità cristiana, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno
l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che
hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia» (7).
La terza tendenza, presente in una grande quantità di persone
buone, ma facilmente influenzabili e manipolabili, è quella di un entusiasmo
che, osserva p. Ignacio, «si manifesta puntualmente
in tante occasioni puntuali», in cui la fede si alimenta con una religiosità
fatta di riti in parallelo e a volte anche in contraddizione con un’esistenza i
cui “valori” si oppongono al Vangelo.
C’è infine un quarta tendenza che si può definire del
“resto d’Israele che rimane fedele all’alleanza”, giorno per giorno, attraverso
una fede impegnata, “che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6).
Fatte le proporzioni, questo insieme di atteggiamenti,
rileva il padre, si trovano in tutti, anche tra i consacrati. Si tratta di
realtà che aiutano chi guida gli esercizi a percepire ciò che Dio lo invita a
fare per riuscire a trasformare gli esercizi in uno strumento di eccezionale
efficacia.
A questo scopo occorre anzitutto che il predicatore si
metta egli stesso in questione, o come osserva p. Ignacio,
che compia quattro “esercizi” (una ginnastica interiore personale). Il primo si
riferisce alle tendenze presenti nelle persone descritte nei primi tre punti –
una religiosità diffusa, ma angosciata; la presa di distanza dalla Chiesa
ufficiale; una religiosità fatta di riti oppure vissuta in contrasto con i
valori del Vangelo – alla cui base sta spesso un’ignoranza non colpevole. «Essi
non sanno quello che fanno», continua a ripetere oggi per noi Cristo al Padre.
Da parte del predicatore si richiede un esercizio di kenosis,
bene espresso nella formula paolina “farsi tutto a
tutti” (1 Cor 9,19-23), assumendo cioè l’atteggiamento del servo. In altre
parole, bisogna liberarsi da se stessi per diventare dei testimoni, mettendosi
al servizio di una relazione: Dio-esercitante,
esercitante-Dio. È un “un modo di essere” che proietta il predicatore all’esterno
di se stesso, verso l’altro; e il suo “modo di procedere” consisterà allora
nell’aiutare gli altri sapendo di essere nello stesso tempo da loro aiutati,
come scrive Paolo: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe
con loro». Predicare gli esercizi è pertanto un modo consapevole di “farli e
lasciarsi fare”.
Il secondo esercizio consiste nel rivolgere uno sguardo
misericordioso sul mondo attuale dentro il quale vi sono individui che cercano
Dio e sono da lui cercati e progressivamente incontrati. Voler fare gli
esercizi è la prova che Dio è già entrato nel loro orizzonte di vita.
A imitazione di Gesù, colui che guida gli esercizi non
deve pertanto stare a chiedersi se nell’eserciziante
manca una coscienza di Dio; egli deve piuttosto saper percepire che Dio è già
presente e attivo in lui. Nella società d’oggi – e anche nella Chiesa – scrive
il padre, spesso i segni di questa presenza non sono quelli di una religiosità
manifesta, ma di una vita onesta. Come osserva il papa nell’enciclica Dives in misericordia: «Il significato vero e proprio della
misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante
e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la
misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta,
promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e
nell’uomo» (6).
Le conseguenze pratiche di questa affermazione sono molto
importanti. Chi predica gli esercizi è sottratto alla tentazione di guardare soprattutto
all’esperienza di preghiera, al fatto se uno è animato da un vero desiderio
oppure alla sua capacità di impegnarsi in una disciplina di preghiera, di esame
e confronto. In realtà, l’espressione più autentica di questo desiderio non
consiste necessariamente nella pratica religiosa o nei segni che l’accompagnano
e ancor meno nel volontarismo ascetico; si rivelano invece nelle beatitudini
già sbocciate o hanno cominciato a fiorire nella sua vita. Dietro agli
atteggiamenti apparentemente a-religiosi o agnostici e alle numerose ambiguità
e incoerenze descritte, l’onestà della persona può nascondere un desiderio vivo
ed effettivo che il predicatore degli esercizi, deve sforzarsi di mettere in
luce e di far emergere, poiché, come scrive sant’Ignazio,
«è acceso da Dio».
È così che Gesù agiva. Perché del resto egli avrebbe
detto che molti “non praticanti” «vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31)?
Ignacio Iglesias si chiede: «Perché lamentarci oggi se un certo tipo di persone,
soprattutto tra gli uomini, non si pone la domanda se fare o no gli esercizi,
oppure lo fanno con riluttanza e con un certo pudore imbarazzato? Perché
ostinarci a esigere tutta una serie di pratiche e osservanze “religiose” da
parte di coloro che, nel loro modo “secolare” di dedicarsi agli altri, hanno
già cominciato ad applicare l’ideale ignaziano
consistente “nell’uscire dall’amor proprio, dalla propria volontà e dai loro
interessi»? Non rischiamo forse di voler troppo qualificare gli esercizi, di
farne una specie di operazione di chirurgia estetica per élites
molto speciali? Non ci troviamo già davanti alla necessità di impedire che essi
non abbiamo a deviare verso una specie di “devozione” che sarebbe un po’ come
una medicina per prevenire o curare un’influenza o una forte febbre? Se gli
esercizi sono una via che deve aprire alla conversione, non dobbiamo allora
sforzarci di identificare come base gruppi di persone che, spesso senza
saperlo, vivono già delle pagine, a volte difficili, del Vangelo? Non dobbiamo
forse ravvivare la forza “missionaria” degli esercizi stando attenti più a ciò
che c’è già di “vita” nel possibile eserciziante che
non alla sua religiosità?
NON METTERSI
DAVANTI ALLO SPIRITO
In questo dimensione “missionaria” , il terzo
atteggiamento da assumere da parte di chi guida gli esercizi, è di coltivare un
rapporto con le persone e compiere un percorso di prossimità, di ascolto, di
pazienza, di attesa, di riconoscimento e di sostegno dei valori evangelici
autentici, smascherando quelli non veri. In questo esercizio la guida deve
essere molto attenta a non “mettersi davanti allo Spirito”, ma a “lasciarsi
condurre e moderare da lui”, a discernerne la presenza, segnalando dove egli è,
e quali ne sono le manifestazioni. La persona che gli sta davanti dovrà essere
perciò trattata con sommo rispetto; un rispetto fondato sull’immenso valore che
ciascuno possiede per il semplice fatto di esistere. È così che Dio ci
considera.
Aiutare quindi non vuol dire far passare negli altri la
propria esperienza, ma fare affiorare quella di ciascuno. E quando questo
processo è iniziato, bisogna saper camminare a fianco, ammirando, ringraziando,
in un atteggiamento di scambio.
Niente mai si ripete, niente è mai lo stesso nell’opera
di Dio. I nostri schemi, le nostre formule, le nostre ricette non sostituiranno
mai le sue iniziative; sia chi la guida degli esercizi sia chi li fa devono
scoprirle ogni giorno, senza mai forzare o rallentare il ritmo.
È LO SPIRITO
CHE GUIIDA E GOVERNA
Il quarto e ultimo esercizio consiste nel credere che tra
Cristo, nostro Signore, e la Chiesa sua sposa è lo stesso Spirito che ci
governa e guida per la salvezza delle anime; occorre ricordare che nella
costruzione della Chiesa non possiamo lasciar da parte le “pietre vive” che lo
Spirito Santo sta scolpendo e preparando silenziosamente, per utilizzare magari
quelle che noi crediamo di poter scolpire secondo i nostri criteri di
costruzione.
Costruire un’umanità che ama Dio, costruendo la Chiesa
che Gesù ha fondato nella storia per edificare questa umanità: ciò non può
farsi con delle pietre artificiali, opera della mani dell’uomo. Noi non abbiamo
il diritto di scartare – per la difficoltà di adattarle secondo i nostri piani
e modelli di costruzione – persone che lo Spirito Santo riempie misteriosamente
del suo Vangelo, spesso senza che esse lo sappiano e senza che gli altri se ne
accorgano.
Rivolgendosi alle religiose, a Madrid, nel novembre 1982,
Giovanni Paolo II descrisse la “costruzione” del Regno in questi termini:
«Vivete come Maria, ricevendo lo Spirito Santo e trasmettendolo ai vostri
fratelli così da costruire la Chiesa». Se lo Spirito è dato a tutti (Rm 5,5), ci sono alcuni che non lo ricevono e altri che lo
ricevono appropriandosene, e ciò equivale a non riceverlo, e coloro infine che
lo ricevono, spesso senza accorgersene e cominciano a pensare agli altri e a
donarlo loro giorno dopo giorno. È così che si costruisce.
“Ricevere – trasmettere”: in questo esercizio
respiratorio dell’anima – che è la fede – gli esercizi hanno un posto che è
loro proprio. Il punto di arrivo non consiste, come lascia intendere anche sant’Ignazio, nella fedeltà a un metodo o alle sue
varianti, ma nella fedeltà alle persone che sono uniche, nella loro pluralità,
quelle in cui lo Spirito agisce e vive.
A conclusione di tutte queste considerazioni, scrive p. Ignacio, si potrebbe dire che «predicare gli esercizi è un
ministero di misericordia e di collaborazione con lo Spirito “autore e donatore
di vita”. La regola che deve orientare questa collaborazione è di osservare ciò
che egli compie, senza idee preconcette, senza programmi prestabiliti,
conservando tutta la nostra capacità di sorpresa. L’eserciziante
si trasforma così “in colui che ci precede” di fatto col Vangelo che ha in sé,
e ci libererà dalla tentazione di pretendere di guidarlo a partire dal Vangelo
che noi crediamo di possedere».
A.D.
1 Revue de Spiritualité Ignatienne, n. 1/2004, pp. 47-55
NEL MONDO ISLAMICO E IN QUELLO OCCIDENTALE
IDEOLOGIE OGGI EMERGENTI
Il fenomeno del radicalismo islamico attuale ha come punti di riferimento
vari personaggi, ma ha dietro di sé una lunga storia. Come si è generato questo
stato di cose? Ma non c’è solo il fondamentalismo islamico e la sua ideologia:
ci sono altre ideologie ben vive e radicate anche qui in Occidente.
Si legge nel comunicato rilasciato da Hamas
il 22 marzo 20041 in occasione dell’assassinio del suo leader spirituale, lo
sceicco Ahmed Yassin:
«1. Chi ha deciso di uccidere lo sceicco Ahmed Yassin ha deciso di
uccidere centinaia di sionisti. 2. I sionisti non hanno intrapreso questo passo
senza l’approvazione dell’amministrazione terrorista degli Stati Uniti. Essa
perciò dovrebbe assumersi la responsabilità di tale atto. 3. I sionisti non
udranno, ma vedranno presto, la nostra risposta, la volontà di Dio. 4. La risposta
all’assassinio dello sceicco Ahmed Yassin non verrà solo a livello di tutte le fazioni di
combattenti (mujahidin) del popolo palestinese, ma
tutti i musulmani nell’intero mondo islamico avranno l’onore di rispondere a
questo crimine. Ti chiederanno quando ciò avverrà: potrebbe essere assai presto
(verso coranico)».
In questa rivendicazione dell’organizzazione terroristica
Hamas, ritroviamo alcune costanti del pensiero che ha
segnato una parte del radicalismo islamico degli ultimi secoli, ma in particolare
di questo ultimo trentennio.
I LEADER ISLAMISTI
DEGLI ULTIMI 40 ANNI
Sono soprattutto quattro le grandi figure che
rappresentano o sono punti di riferimento per il mondo islamico radicale negli
ultimi anni: Sayyd Qutb, al-Mawdudi, Khomeini e negli ultimi
anni Osama Bin Laden.2
Sayyid Qutb
Sayyd Qutb (1906-1966) è stato colui che in Egitto,
partito dall’esperienza del movimento dei Fratelli musulmani (al-ikhwân al-muslimûn) fondati a Ismayliyyah da Hasan al-Banna nel 1929, è diventato il teorico non solo del
movimento dei fratelli musulmani, succedendo così al suo fondatore ucciso nel
1949, ma di una nuova interpretazione a sfondo religioso della situazione
politica egiziana dopo che il movimento subì una grande battuta di arresto
nonché di arresti con l’avvento di Nasser al potere.
Nella sua interpretazione, influenzata anche da un suo
soggiorno in terra americana verso la fine degli anni quaranta, torna
prepotente il concetto chiave di jahiliyyah
(«ignoranza») che nella tradizione islamica è stato applicato alla storia
precedente l’avvento dell’islam. Come il mondo precedentemente alla discesa del
Corano era nella jahiliyyah dell’islâm,
non conoscendo il Corano, e si può parlare del peccato di kufr,
cioè di «empietà», così il mondo attuale è sommerso nel kufr
e nella jahiliyyah. La particolarità della sua
concezione è che non solo il mondo e i popoli che vivono fuori dai paesi
islamici sono nell’ignoranza della verità, cioè hanno trasferito ad altre
persone o ad altre cose l’attributo della sovranità che deve essere
riconosciuto solo a Dio, ma anche gli stessi paesi islamici non possono più
essere considerati come tali. Qutb compì così quello
che giuridicamente viene chiamato takfîr (appellativo
attualmente usato da una organizzazione terroristica islamica tra le più
pericolose) cioè una «dichiarazione di empietà» rivolta nei confronti degli
stessi paesi musulmani. Che questo atteggiamento politico-religioso abbia avuto
fortuna nel mondo islamico contemporaneo, lo dimostrano le dichiarazioni di Bin Laden dopo l’attentato
dell’11 settembre 2001.
Abû al-Alâ al-Mawdûdî
Al-Mawdûdî invece (1903-1979) che operò nell’estremo oriente, in Pakistan per la
precisione, e scrisse i suoi libri in lingua Urdu,
influenzò con la propria visione del mondo sia Sayyid
Qutb, sia il mondo musulmano moderno. Nella sua opera
culturale a tutto campo egli arrivò a formulare l’idea che solo uno stato
islamico nel quale si applichi la legge islamica, la sharîah,
è uno stato che detiene una vera e propria sovranità. Infatti nella sua visione
del mondo la politica è parte integrante ed essenziale della fede islamica.
Egli perciò critica sia il capitalismo che il socialismo – che tanta parte
ebbe negli insorgenti stati islamici del XX secolo – ma trancia i ponti
anche con i nazionalismi che si configuravano su basi non propriamente
islamiche. Egli tuttavia, fondatore nel 1941 della jamaat
e-islami, proporrà sempre al proprio movimento
soluzioni di militanza politica, ma non in modo radicale e di dissidenza
armata.
Sia Qutb che Mawdudi però, entrambi sunniti,
non riuscirono a trovare credito su base popolare e a intaccare seriamente il
governo dei rispettivi paesi perché non riuscirono ad avere l’appoggio della
classe religiosa degli ulamâ’ ai quali non avevano
risparmiato le loro critiche.
Khomeini
Khomeini (1902-1989) invece, da uomo religioso qual era, è perciò riuscito
nell’intento nel quale sia Qutb che Mawdudi avevano fallito. Egli pertanto elaborò durante la
sua permanenza a Najaf (Iraq) e infine in Francia
prima della rivoluzione islamica del 1979 le sue idee politiche che hanno
potuto far breccia sia nel mondo del clero sciita che nel mondo del ceto medio
e istruito. Grazie all’appoggio e ad elaborazioni dottrinali di figure
intellettuali come Ali Shari’ati (1933-1977) che reinterpreta la dottrina sciita tradizionale
– tradizionalmente critica verso la gestione del potere e volta più ad una
visione religiosa del mondo in attesa del ritorno del Mahdi –
in chiave di militanza politica e di continuazione della lotta che condusse Husayn al martirio, Khomeini è
riuscito a trovare un sempre maggior numero di sostenitori della propria azione
politica di opposizione al regime dello Scià del quale criticava proprio gli
aspetti che agli occhi occidentali appaiono di democratizzazione e civilizzazione:
il voto alle donne, giuramenti su testi diversi dal Corano.
Bin Laden
Bin Laden invece fa parte ancora della nostra
storia, ma del suo pensiero che trapela dalle dichiarazioni e dalle
rivendicazioni fatte in seguito alla guerra in Afghanistan, si devono mettere
in luce alcuni aspetti. Innanzitutto il fatto che egli consideri, a motivo del
principio democratico, i popoli occidentali responsabili della politica dei
propri governi nei confronti degli stati islamici: nessuna meraviglia dunque
che ci sia il tentativo di fare invertire la politica ai governi occidentali
facendo pressione sulle masse popolari o facendo incrinare l’economia a suon di
attentati. In secondo luogo egli ribadisce la divisione del mondo su base
religiosa, tra «paesi islamici» dâr al-islâm (letteralmente “casa dell’islam”) e «paesi non
islamici», dâr al-harb
(letteralmente “casa della guerra”): fu, questa, una delle operazioni
intellettuali che ha contraddistinto l’ascesa dei movimenti del risveglio
islamico nel XVIII secolo ma che nel mondo islamico militante viene riproposta
attualmente con grande vigore. In sostanza si ribadisce che l’islam è attaccato
dall’America e dall’Occidente. Inoltre si condannano le autorità religiose dei
paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto per il fatto di essere acquiescenti
verso questo stato di cose, cioè la presenza in queste nazioni di governi non
islamici (a suo dire).
LA STORIA
PIÙ REMOTA
Questo ideologie emergenti non sono certo le uniche voci
del variegato mondo islamico anche se, da parte occidentale, sono quelle che
vengono udite di più perché oggi si accompagnano con la strategia del terrore.
Ma come si è generato questo stato di cose? E queste idee
che vengono sbandierate da queste frange del mondo islamico, quando sono nate?
In un suo recente volume Youssef M. Choueiri sintetizza l’evoluzione e le matrici del
fondamentalismo in tre fasi diverse: quella del risveglio iniziato nel XVIII
secolo, quella del riformismo nel XIX e quella del radicalismo nel XX.
Il risveglio
Sotto questa denominazione possiamo comprendere l’ascesa
del Wahhabismo in Arabia Saudita, con l’insegnamento
di Abd al-Wahhâb
(1703-1752) e la sua saldatura con Ibn Saûd (†1765); la guerra scatenata da Ahmad
Shahid (†1831) e Ismail Shahid (†1831) nell’impero Mogol in India sulla base degli
insegnamenti dello Shah Wali
Allah (†1762), che propugnava la restaurazione dell’islam delle origini di
fronte a un islam che si era lasciato influenzare da costumi e usanze indu e sick; la costituzione del
califfato di Sokoto nel centrafrica
da parte di Dan Fodio
(†1817) e altre correnti apparse a Sumatra con il
movimento puritano dei Padri, nell’Africa del nord con i sanussi
e il movimento del mahdismo sudanese.
Caratteristica del risveglio fu ribadire la necessità
della hijrah (migrazione) dai territori sotto il
potere straniero verso i territori islamici per limitare i contatti con gli
infedeli e, naturalmente, la necessità del jihâd nei
confronti dei nemici dell’islam: è a questi movimenti che si deve la
distinzione tra dâr al-islâm
(la «casa dell’islam», cioè i territori islamici) e la dâr
al-harb (la «casa della guerra», cioè i territori
non-islamici). Ma essi proponevano anche una rivisitazione dell’islam invocando
una ormai persa libertà interpretativa (ijtihâd) del
Corano e della sunnah («tradizione»).
Il riformismo
Un tema caratterizzante all’interno dell’impero ottomano
furono appunto le riforme che si erano rese necessarie ancora di più dopo che
Napoleone aveva compiuto e concluso la sua campagna militare in Egitto, che, anche
se di breve durata, aveva portato agli occhi del mondo musulmano il divario di
sviluppo culturale, scientifico e tecnico tra i due mondi.
Cominciarono perciò le riforme amministrative guidate da
analisi «islamiche» del successo e del progresso occidentale. Ci si concentrò
più sui presupposti intellettuali che sui presupposti sociali od economici
dello sviluppo industriale. Jamal al-Dîn
al-Afghânî, Muhammad Abduh, Sayyid Ahmad
Kan, sono solo tra i principali pensatori che si
fermarono a considerare la storia del pensiero occidentale con occhi islamici:
Lutero divenne paradigma di un musulmano ansioso di portare la religione alla
sua purezza originaria, la rivalutazione data dall’illuminismo alla ragione
veniva visto come il segreto dello sviluppo occidentale che non aveva oscurato,
come nella civiltà islamica, il ruolo dell’aql
(«razionalità») nella progettazione della società e nell’interpretazione della
legge; la consultazione popolare e la democrazia venivano lette nell’esperienza
stessa di Maometto alle origini della comunità islamica medinese...
e potremmo continuare.
Questo pensiero riformista condusse a una riappropriazione e a una rivalutazione dell’islam, ma non
quello dei contemporanei (vista la situazione nella quale si era pervenuti
storicamente), ma all’islam delle origini. Si arrivò dunque a mitizzare il
periodo dell’Islam delle origini come a un periodo ideale. Proprio per questo
la tendenza di certo mondo islamico, e ancor più dei portavoce di questo islam
ideale, è quella di vivere nel perenne ricordo di una società perfetta già
esistita, che è solo da restaurare nuovamente. Si potrebbe dire che per essi
l’unico progresso è il ritorno alle origini.
SCONTRO
DI RELIGIONI?
Ci troviamo dunque di fronte a uno scontro di religioni?
Oppure a uno scontro di civiltà? Il problema è proprio questo.
Una visione semplicistica e dualistica della realtà
Cedere a questa visione semplicistica delle cose è
saltare a piè pari la storia senza vedere una vicenda più complessa di quanto
la si immagini e la si pensi. Per non parlare poi di un pensiero (questa volta
occidentale) che vorrebbe fregiare la propria potenza militare della
qualificazione di «bene» radicalmente opposto ai nemici schierati sull’«asse
del male». Questo modo di intendere la politica è uno sconfinamento in campo
religioso improprio, è violazione del principio di laicità: non è certo un
governo o uno stato che può indicare che cosa è bene e che cosa è male.
Soprattutto, ed è ancora più grave, non è suo compito dirci chi è nel bene e
chi è nel male: nessuno può pensare di sostituirsi alla coscienza individuale
come se niente fosse: non è suo compito.
L’impressione che potrebbe essere anche più di una
impressione, è che dietro ai discorsi di principio in realtà si nascondano
problemi e interessi economici e politici, non altro.
L’ideologia del laicismo, appannamento del principio
della laicità
Ma in occidente, grazie all’apporto di diverse matrici
culturali e religiose, compresa quella cristiana, e grazie a 1600 anni di
storia con rapporti tra potere politico e potere religioso che si sono andati
evolvendo, acuendo, dissociando, si è maturata l’idea della laicità. In base a
particolari teologie cristiane e ad apporti filosofici particolari si è
proceduto nella ricerca e nello sviluppo scientifico ed economico. Ma il fatto
che il mondo occidentale non si sia ancora riconciliato con la religione e con
il sistema di valori religioso dal quale ha preso le mosse e si è storicamente
sviluppato sta facendo sì, come avviene in Francia,3 che il valore della
laicità non abbia più un quadro di valori di riferimento all’interno del quale
essere difeso.
Inoltre i valori o sono vissuti o non sono tali, e la
laicità non fa eccezione. La laicità ha senso se esiste un mondo religioso come
tale con una sua forte identità radicata nella vita e nel cuore delle persone.
La laicità in un mondo che ha perso esistenzialmente
i suoi riferimenti cristiani e la dimensione religiosa in genere, finisce così
per diventare non la doverosa separazione tra ambito religioso (profondamente
personale e contemporaneamente coinvolgente le comunità nelle quali si vive e
si professa la fede) e ambito politico-civile (nella dimensione sociale della
vita), ma l’affermazione dell’ambito politico-civile come unico spazio
incontestato e incontestabile.
La questione dei diritti
Inoltre si deve tenere presente che il mondo occidentale
si ammanta e si vanta della promozione dei diritti dell’uomo, ma talvolta lo fa
solo nominalmente. I diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo non sempre
sono difesi anzi, in certi casi, vengono apertamente violati, e proprio qui in
occidente. La legalizzazione dell’aborto, l’introduzione dell’eutanasia, la
sperimentazione sugli embrioni, le torture, sono solo alcuni degli ambiti dove
i diritti dell’uomo in questo nostro «mondo occidentale» sono apertamente
violati e dove qualcuno decide della vita e della morte di qualcun altro, con
fiumi di denaro di potenze economiche sopranazionali e con il sostegno della
legge, per di più. Come può il mondo occidentale ritenersi più progredito di
altre culture e difensore dei diritti dell’uomo se è un mondo dove ci si
scandalizza della guerra, e, contemporaneamente, dove tacitamente sono state
soppresse milioni di vite?
Insomma, non c’è solo il fondamentalismo e la sua ideologia,
ma ci sono anche altre ideologie ben vive e radicate anche qui in occidente,
ideologie che sono sopravvissute al crollo del muro di Berlino e che stanno
seminando, dopo ingiustizie e morti, altre premesse di ingiustizia e di morte.
Davide Righi
1 Rivendicazione tradotta dall’inglese e reperita sito
http://www.jihadunspun.com.
2 Per chi volesse approfondire l’argomento, le
pubblicazioni attualmente non mancano. Cito quelle che mi sembrano le più degne
di nota. Sulle premesse storiche anche remote del fondamentalismo e il formarsi
del suo vocabolario e della sua ideologia negli ultimi 3 secoli Youssef M. Choueiri, Il
fondamentalismo islamico, Bologna 1993, ed. il Mulino. Circa invece la
situazione attuale determinatasi dopo l’ascesa al potere di Komeini
in Iran cf. Jilles Kepel, Jihad ascesa e declino,
Roma 2000, ed. Carocci.
3 Mi riferisco al rapporto consegnato il 9 dicembre 2003
al presidente della Repubblica francese da parte della Commissione di
riflessione sull’applicazione del principio di laicità nella repubblica. Recita
il testo: «La laicità, pietra angolare del patto repubblicano, riposa su tre
valori indissociabili: libertà di coscienza, eguaglianza nel diritto delle
opzioni spirituali e religiose, neutralità del potere politico (...) Essa si
riferisce alla Grecia antica, al Rinascimento, alla Riforma...». (pp 7-8). È così che, nella riflessione di questa
commissione, 1500 anni di cristianesimo non hanno dato nessun apporto in ordine
alla costruzione della laicità alla francese, e non potranno dunque dare nessun
apporto al suo mantenimento.
GLI APPUNTAMENTI DI GESÙ AMICO
L’amicizia con Gesù porta verso i luoghi nei quali, secondo la sua parola,
lo si incontra, agli appuntamenti ecclesiali e personali che egli stesso
dà.
Gesù si lascia incontrare nell’attenzione riservata alla
Chiesa, il suo corpo mistico. Essa trasmette la sua parola e chiede allo
Spirito che ne doni l’intelligenza; sostiene nel camminare nella luce che viene
da lui, nell’essere disposti a partecipare alla sua missione per le vie che
egli percorre, le uniche adeguate a renderne credibile la presenza ai
pellegrini del mistero.
Gesù non agisce al posto dei fedeli, anche se fa tutto
perché in lui, con lui e per lui si vogliano lode di gloria del Padre, portino
a compimento la missione della quale sono resi partecipi. Né Gesù senza la
cooperazione umana né l’operare umano senza Gesù, ma egli nei suoi fedeli e
questi in lui: è la via alla pienezza nell’unità.
Il rapporto amicale con Gesù è di autodono
reciproco espresso nell’ «Io in voi e voi in me».
Le persone in Cristo non sono isolate, sono membra del
suo corpo e per la grazia dello Spirito perseverano nell’ascolto, nella
solidarietà, nella realizzazione degli stessi progetti. In consenso e vigilanza
contrastano le resistenze alla testimonianza della carità.
Il “cerimoniale” dell’amicizia, quando scaturisce dalla
sorgente che ne vivifica le espressioni, la rende sincera, creativa, vigile.
Le persone a volte prendono coscienza di essere
innamorate quando l’amore è già operante nella loro vita, nella quale si è
annidato non con violenza o frode ma nel consenso ineffabile, che caratterizza
la corrispondenza alle realtà che incarnano il proprio bene e che sono
desiderate e accolte con pace.
Il risveglio dell’amicizia non è frutto di violenza, è
espressione del desiderio pacificato, libero, spontaneo. I segni premonitori di
quest’evento destano sorpresa, stupore, e le persone
sensibili al proprio bene vigilano sul loro sviluppo e orientamento.
Le espressioni di questo processo sono descritte in
alcuni testi della rivelazione neotestamentaria: l’inno alla carità di 1Cor 13,
i frutti dello Spirito di Gal 5,22 opposti alle opere della carne e al non
amore di Gal 5,19-22.
Essi permettono di discernere quando l’amore mette radici
nei cuori umani e coinvolge ogni espressione della propria esistenza, non è
limitato dal tempo o dallo spazio, è durata, è passare la vita nel passare in
Gesù.
La nascita dell’amicizia avviene nella conversione.
Si comincia a coglierne i tratti quando si persevera
nella condizione di “bambini appena nati” bramosi del latte dello Spirito di
cui hanno imparato a gustare la dolcezza (cf. 1Pt
2,2-3).
Le persone interessate a trovarlo prestano attenzione
alle sue richieste: «Chi vi ascolta, mi ascolta»(Lc
10,16), «ascolta la mia parola» (Gv 5,24), «la mette
in pratica» (Mt 7,24), «mangia la mia carne e beve il
mio sangue» (Gv 6,55-56).
Gesù si lascia incontrare nell’accoglienza riservata alle
persone, non alle loro qualità, motivata non dalla sicurezza di essere accolti
ma dalla fedeltà al bene umano.
L’amicizia con lui si sviluppa nell’ascolto della parola
di Dio, nella prassi della comunità cristiana, nella contemplazione fedele, ma
ha una particolare affinità con l’atteggiarsi verso le persone affamate,
assetate, ammalate, prigioniere, straniere, bambine.
La prerogativa di amici di Gesù è fonte di gioia per le
persone condotte dalla Parola ascoltata in docilità nella Chiesa che orienta al
Padre: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo,
e vado al Padre» (Gv 16,28).
La coerenza con la propria vocazione nell’umanità e nel
mondo, vissuta con cuore sincero, nelle circostanze prospere e nelle avverse, a
tempo e controtempo, è terreno di coltura della volontà di perseverare nella
docilità al legame tra fede e giustizia vissuto nella via dei comandamenti e
delle beatitudini, nella costruzione della pace e nella salvaguardia della
creazione.
Abituati a pensare in prospettiva individuale o tutt’al più interpersonale, disattendiamo la dimensione cristico-ecclesiale-umana, il mondo visibile e invisibile,
la comunione dei santi e la comunità peregrinante in cui l’amicizia cresce e di
cui fruisce.
Dalmazio Mongillo op
da Per lo Spirito in
Cristo al Padre,
Qiqajon/Bose 2003
DALL’IO AL TU,
DAL TU AL NOI
La fraternità sarà uno dei segnali maggiormente qualificanti della VC del
futuro. Una fraternità nuova, perché non sarà tanto luogo d’osservanza o
concentrazione di aspiranti alla perfezione, ma perché da questo incontro
nascerà il noi, una realtà di relazione nuova, a immagine della santissima
Trinità.
“Sarà la bellezza
della fraternità che salverà il mondo”.1 La parafrasi
della nota frase di Dostoevskij potrebbe fare da
sfondo alla presente riflessione. Nella quale siamo invitati a ripensare proprio
il senso della fraternità religiosa, quale luogo tradizionale della convivenza
religiosa e, al tempo stesso, profetico, che in qualche modo prefigura la nuova
immagine della vita consacrata (VC). Siamo infatti convinti che la fraternità
sarà uno dei segnali maggiormente qualificanti della VC del futuro. Ma una
fraternità nuova, soprattutto perché non solo o non tanto concentrazione di
aspiranti alla perfezione o luogo dell’osservanza, bensì spazio d’un incontro
inedito tra l’io e il tu, i protagonisti della vicenda comunitaria, perché non
semplicemente s’accolgano, magari dopo essersi scrutati e… annusati (nella
speranza di ritrovarsi simili e fatti l’un per l’altro), ma perché da questo
incontro nasca una realtà davvero nuova, il noi, la relazione con l’altro-da-sé, o quello scambio fecondo da cui nascono
assieme sia l’identità che l’alterità, cioè la
comunione a immagine della Trinità santissima, ovvero una testimonianza di
fraternità tanto inedita quanto così indispensabile e attesa oggi.
E d’una fraternità, in particolare, che da un lato non
impone lo stampo uniformizzante ai suoi membri, ma
dall’altro è comunità di persone che condividono qualcosa d’importante e
fondamentale. In un mondo sempre più globalizzato e
nel quale le differenze paradossalmente tendono sempre più ad annullarsi, per
un verso, mentre per un altro stanno sempre più diventando motivo di
contrapposizione, la VC è chiamata a dare una testimonianza d’importanza
strategica e decisiva. La VC non è forse stata uno dei primi eventi di
globalizzazione, e non ha forse in questo senso un’esperienza unica da
condividere? Non ha forse al suo centro un simbolo come la croce, nella quale
tutte le cose, della terra e nei cieli, sono state ricapitolate e ogni uomo
riconciliato, in cui tutto s’è compiuto e ha trovato senso, in cui non esiste
più né greco né giudeo, né uomo né donna?
Vedremo allora brevemente alcune caratteristiche più
salienti della situazione oggi, dal punto di vista della relazione
interpersonale, per meglio identificare il riflesso che questo può avere sul
nostro stile di vita comunitario e sul ruolo che la VC può giocare all’interno
di questo contesto. Poi cercheremo di analizzare il senso del rapporto tra
identità e alterità, particolarmente da un punto di
vista psicologico, per poi proporre, su un versante pedagogico, un cammino
comunitario che riesca a coniugare assieme identità e alterità,
identità e appartenenza, autorealizzazione e progetto
di crescita comunitario, io e tu…
CULTURA
DELL’AUTOREFERENZIALITA’
C’è chi parla, senza mezzi termini, di cultura attuale
dell’autoreferenzialità. Che affonda le sue radici,
detto in modo molto schematico, in quel terreno ov’è
stato abbondantemente seminato il seme del pensiero debole o della sfiducia
nella ragione umana. Con conseguenze rilevanti.
Da questa “coltura unica” sono nati frutti spontanei e
velenosi, quali
– l’indifferenza e il qualunquismo veritativo, dato che
non esiste più alcuna verità generale;
– la negazione della responsabilità, specie quella nei
confronti dell’altro, di qualsiasi altro;
– una certa concezione di libertà personale primitiva,
che finirebbe ove comincia quella dell’altro, per cui non si è mai liberi
insieme;
– una transizione dall’idea della vita come
pellegrinaggio a quella della vita come vagabondaggio, con perdita d’una
visione provvidenziale e unitaria dell’esistere, e conseguente impoverimento e
scarsa tenuta della relazione;
– un radicale e triste egocentrismo, e conseguente
enfatizzazione della propria autorealizzazione;
– il dominio della legge del mercato come senso della
vita, ridotto in pratica a due verbi: vendere e comprare.
Il tutto nel segno di Proteo, ovvero del flusso continuo
e del cambiamento repentino, e di Narciso, ovvero alla luce… dei riflettori,
perché oggi è qualcuno solo chi appare sulla scena ed è visibile a tutti, solo
chi fa parlare di sé e riesce a vendersi bene sul mercato.
Già questa descrizione veloce e sommaria ci fa
intravedere le conseguenze a livello della relazione interpersonale, in modo
particolare della relazione con l’altro-da-sé,
inevitabilmente indebolita e resa precaria, insignificante o conflittuale,
distruttiva o… distrutta.
I fatti recenti e spaventosi d’un terrorismo che sembra
non aver più alcun limite dinanzi a sé (dall’11 settembre 2001 di New York all’11
marzo 2004 di Madrid) sono il segno più inquietante d’una involuzione
relazionale che, se non verrà arrestata, potrà condurci alla distruzione del
rapporto, alla fine d’ogni dialogo, alla radicalizzazione
dell’homo homini lupus. Se non peggio ancora.
“Abbiamo ucciso la persona umana”, ha commentato,
infatti, qualcuno2 all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle, di questa
terribile “antropofania”, capace di rivelare in quale
(poco) conto si tenga la vita umana nella nostra società, o quanto radicata sia
la convinzione da… uomo delle caverne che la tua morte sia la mia vita (mors tua vita mea), o che il rapporto con l’altro, con chi
è dall’altra sponda, debba per forza esser conflittuale, e tendere
all’eliminazione del nemico. Dimenticando, d’altra parte, che il male, per
natura sua, tende a riprodursi, a rigenerarsi, provocando reazioni uguali e
contrarie come in una spirale impazzita.
Insomma, dal presente contesto culturale emerge un quadro
di relazioni lacerate, nel quale c’è molto “io”, ma un po’ disperato nella
ricerca della sua promozione; un “tu” conflittuale (un
tu-contro), percepito come ostile alla propria
realizzazione; poco o pochissimo “noi”, ovvero relazioni quasi inesistenti.
Paradossalmente questo quadro storico è una grossa
occasione per la VC, o può, quanto meno, costituire un’opportunità per
riaffermare il senso profetico della sua presenza nel mondo e nella chiesa, in
questo momento di rinnovamento e di ricerca di nuovi spazi o addirittura d’una
nuova identità.
Da un lato, potremmo dire, la VC risente di questo clima,
e soffre di questa lacerazione relazionale all’interno delle proprie comunità
interetniche. Dall’altro la VC, come abbiamo già sottolineato, ha una parola da
dire al riguardo, possiede un’esperienza cui fare riferimento, ha ricevuto un
dono che deve poter metter a disposizione d’altri.
Vediamo più da vicino questi due aspetti.
Il documento della Congregazione per gli istituti di vita
consacrata e le società di vita apostolica Congregavit
nos in unum Christi amor
fotografa la situazione, come s’è venuta delineando in questi ultimi anni, in
termini molto chiari:
«Il rispetto per la persona, raccomandato dal concilio e
dai documenti successivi, ha avuto un influsso positivo nella prassi
comunitaria. Contemporaneamente però si è diffuso con maggior o minor
intensità, a seconda delle varie regioni del mondo, anche l’individualismo,
sotto le più diverse forme, quali il bisogno di protagonismo e la insistenza
esagerata sul proprio benessere fisico, psichico e professionale, la preferenza
per il lavoro in proprio o per il lavoro prestigioso e firmato, la priorità
assoluta data alle proprie aspirazioni personali e al proprio cammino
individuale senza badare agli altri e senza riferimenti alla comunità.
D’altra parte è necessario perseguire il giusto
equilibrio non sempre facile da raggiungere tra il rispetto della persona e il
bene comune, tra le esigenze e le necessità dei singoli e quelle della
comunità, tra i carismi personali e il progetto apostolico della comunità. E
ciò lontano tanto dall’individualismo disgregante quanto dal comunitarismo livellante. La comunità religiosa è il luogo
ove avviene il quotidiano paziente passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio
impegno all’impegno affidato alla comunità, dalla ricerca delle “mie cose” alla
ricerca delle “cose di Cristo”».3
Il testo indica con chiarezza gli influssi positivi e
negativi della cultura odierna sulla VC: da un lato l’accentuazione della
centralità della persona singola, dall’altro il rischio dell’individualismo.
Chiede dunque il giusto equilibrio tra rispetto dell’individuo e perseguimento
del bene comune, e mette pure in guardia dai due pericoli opposti:
l’individualismo disgregante e il comunitarismo
livellante. Ma soprattutto riconosce alla comunità un ruolo specifico e prezioso,
quello d’esser luogo del «paziente passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio
impegno all’impegno affidato alla comunità,
dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose
di Cristo”».
Mi sembra molto equilibrato, realistico e pertinente
questo modo di analizzare il problema. Se nella VC è stata sempre forte, per
definizione e tradizione, l’accentuazione comunitaristica,
l’influsso d’una cultura dell’autoreferenzialità
impone nuovi equilibri, non facili da trovare.
Chi di noi, per altro, non ha sperimentato la fatica di
conciliare progetti personali con prospettive comunitarie, la fedeltà
esistenziale e vocazionale a se stessi e al gruppo?
E non si tratta, badiamo bene, d’un problema “nostro” o
d’economie intracomunitarie, con scarsa rilevanza oltre
la fraternità stessa, poiché è esattamente il contrario.
MODELLO RELAZIONALE
E SISTEMA PREVENTIVO
Di fronte a una realtà sociale che mostra le ferite che
abbiamo visto, non basta più che noi consacrati assumiamo un certo
atteggiamento distaccato, tipico di chi in qualche modo fugge dal male e si
rifugia in un ambiente decontaminato (la comunità religiosa, appunto), ma
neppure è sufficiente impegnarsi a dare il buon esempio o pregare Dio che
tocchi il cuore dei violenti, e c’è pure chi dichiara finito il tempo in cui ci
accontentavamo, credenti e consacrati in particolare, di fare “i crocerossini della storia”, andando a curare ferite e
vittime delle varie violenze, perché forse non basta più, occorre andare oltre
o intervenire prima, all’interno d’una logica davvero preventiva.
Come la cultura dell’autoreferenzialità
è penetrata nelle nostre convivenze, così è possibile e necessario che qualcosa
del nostro modello di vita “esca” dalle nostre fraternità, sia concretamente
proponibile come modello relazionale vivibile, modello di pace e convivenza con
l’altro-da-sé. D’altronde la VC è un grande fenomeno
relazionale, e se non fa questo, se non offre modelli di vita e convivenza evangelicamente ispirati ed esistenzialmente
riproducibili nei vari contesti sociali, a cosa e a chi serve?
La vita comune non ha forse questo obiettivo: fornire
modelli relazionali, a dimostrare che è concretamente possibile la relazione
con il diverso fino a condividere la vita con lui? Non c’è forse un elemento
profetico nella testimonianza della comunione fraterna? Se la VC serve solo a
chi la sceglie come suo proprio ideale di vita fallisce il suo obiettivo, che è
quello di testimoniare di fronte a tutti l’amore del Padre perché sia un bene
per tutti, divenga cultura, cultura di pace, appunto, e prassi di rapporti
finalmente pacifici.
Non è forse questo l’apporto specifico di una VC
incarnata nella storia e attenta ai segni di tempi, soprattutto a quelli
drammatici? Come dire, non abita forse qui, o non passa attraverso questa ricerca,
il futuro della VC?
Certo è una sfida, ma sfida salutare, salutarissima,
poiché non solo ci apre al futuro, ma soprattutto ci fa uscire da noi stessi e
proprio da quell’autoreferenzialità che segnerebbe la
nostra insignificanza o la nostra fine. Quante volte, infatti, forse senza
rendercene conto, abbiamo affrontato o continuiamo ad affrontare il problema
dell’autoreferenzialità con metodo autoreferenziale! Senza venirne mai fuori, evidentemente, e
continuando a chiederci se viene prima l’io o il tu, il mio progetto o quello
della comunità (l’uovo o la gallina?), e rendendo concretamente impossibile e
insoddisfacente una qualsiasi soluzione.
Ecco perché diventa importante questo sguardo
all’esterno, questa preoccupazione orientata verso il bene dell’altro, per un
esame di coscienza che continui a turbarci finché non avremo trovato un sistema
di vita che diventi davvero buona novella, cioè proposta di fraternità per
tutti, di armonia relazionale, di concordia umana.4
Ancora il documento del dicastero vaticano:
«La comunità religiosa diventa allora il luogo dove si
impara quotidianamente ad assumere quella mentalità rinnovata che permette di
vivere la comunione fraterna attraverso la ricchezza dei diversi doni e, nello
stesso tempo, sospinge questi doni a convergere verso la fraternità e verso la
corresponsabilità nel progetto apostolico».5
Come attuare questo percorso?
«Non possiamo trovare noi stessi in noi, ma solo in
altri; allo stesso tempo, prima di uscire da noi e andare agli altri dobbiamo
trovare noi stessi». Questa frase di Thomas Merton dice bene, nella sua paradossalità, il senso del
rapporto reciproco tra identità e alterità. Sarebbe
un’illusione pensare che il rapporto con l’altro faccia nascere automaticamente
il senso dell’io, così come sarebbe altrettanto illusorio dare per scontato il
passaggio dall’io al tu.
Vediamo allora come si ponga il rapporto tra i due
soggetti e le due dimensioni.
Partiamo da un principio psicopedagogico
molto importante e prezioso per la nostra analisi: secondo la psicologia ogni
essere umano ha un bisogno insopprimibile d’avere un’autoidentità
sostanzialmente e stabilmente positiva. Forse è il bisogno più profondamente
radicato nell’essere umano, più ancora del bisogno affettivo. Tale identità
positiva è al tempo stesso condizione e conseguenza del rapporto con l’altro.
Quando, al contrario, l’io non raggiunge la certezza sostanziale della propria
positività, il rapporto con l’altro potrà subire le più varie e pericolose
distorsioni (e divenire, ad es., rapporto di
dipendenza, o relazione compensativo-difensiva, o competitivo-aggressiva, o compiacente-strumentale…).
Allora diventa impossibile anche vivere in fraternità, e il proprio progetto di
vita sarà in perpetuo rapporto conflittuale (o compiacente) col progetto
comunitario.
Vediamo anzitutto come l’essere umano può costruire il
senso della propria identità e come a ogni livello corrisponda un certo senso
dell’altro.
Livello somatico: insignificanza del rapporto
La prima teorica possibilità di autoidentità,
anche in ordine di tempo, è quella di riferirsi al proprio corpo, a un dato di
fatto subito percepibile, caratterizzato da una determinata espressione
somatica. A tale livello, nella misura in cui il corpo è il referente primo e
decisivo per avere un senso positivo dell’io, l’individuo avrà bisogno di
sapere (e far vedere) che ha un corpo niente male, sano-bello-forte-giovanile,
o, quanto meno, di farlo apparire come tale.
Avremo così il religioso eccessivamente attento al suo
look, o all’apparenza esteriore, a livello di vestito, o di più o meno presunte
qualità estetiche, o troppo preoccupato di non far apparire i segni del proprio
invecchiamento o esageratamente vigile sulla propria salute. Con conseguente
rifiuto di quanto possa offuscare tutto ciò, dell’età che avanza,
dell’eventuale difetto estetico o dell’infermità fisica, soprattutto della
morte… Di solito è la vita stessa che si premura di mostrare l’incapacità di
questo modello di garantire uno stabile senso di positività.
L’altro in tale modello è sostanzialmente assente e la
relazione insignificante. Anzitutto perché nella nascita del senso dell’io il
tu non gioca alcun ruolo, e l’operazione avviene tutta all’interno dell’io, tutt’al più di fronte… allo specchio. Se poi il centro
d’attenzione è il proprio corpo l’altro servirà solo come… potenziale
ammiratore o rivale.
Livello psichico: rapporto conflittuale
Una seconda possibilità di autoidentificazione
è offerta dal riferimento alle proprie doti e talenti, a qualsiasi livello, da
quello intellettuale a quello manuale, dall’artistico al morale. È il livello
dell’avere, tipico della persona che si sente artefice di sé, che coi “suoi”
mezzi e i “suoi” sforzi crede di conquistare la propria realizzazione, quasi
avesse meritato, a suo tempo, persino d’esistere.
È un livello superiore al precedente, ma ancora con una
visione parziale dell’uomo, ristretta ad aspetti che non sono i più importanti,
e dunque anche con conseguenze contraddittorie e rischiose. Il proprio talento,
ad es., diventa fonte ma anche limite d’identità, in
un soggetto che non sarà libero di accettare proposte o prospettive di vita che
vadano al di là di quello che è sicurissimo di saper fare; oppure, altra
conseguenza, la dipendenza dal ruolo o da quell’attività
in cui riesce perfettamente e che gli regala la certezza d’esser qualcuno, o
dall’ambiente e dalle persone che gli danno stima e considerazione, al punto
che la sua immagine sociale diventa la sua vera (e nascosta) regola di vita; o
il bisogno estremo del risultato positivo, fino a identificarsi coi suoi
successi e di non saper accettare gl’insuccessi; la mania dell’autorealizzazione, impossibile da raggiungere quando troppo
centrata sull’io. Ma la conseguenza più contraddittoria è che, nonostante la
preoccupazione e la tensione, chi s’identifica a questo livello non raggiungerà
mai la certezza definitiva della propria positività, proprio perché la cerca
nel modo e nel posto sbagliato, facendone lo scopo intenzionale delle sue
azioni, mentre essa può esser solo la conseguenza non intenzionale e spontanea
d’un atteggiamento trascendente, d’un io che non cerca se stesso nelle cose.
Contraddittorio e conflittuale sarà anche il rapporto con
il tu. Da un lato l’altro diventa un giudice, uno che valuta le prestazioni del
soggetto, dall’altro diventa un rivale, uno da osservare e scrutare con lo
sguardo distorto dalla mania competitiva; sarà molto facile, allora, il
sentimento d’invidia e gelosia, o i due estremi della compiacenza o del
rifiuto. La vita, a questo punto (anche quella che si vive in comunità),
diventa un conflitto costante tra rivali, ove solo uno può vincere, e ove sarà
molto facile interpretare la diversità come una minaccia da combattere.
Ma in ogni caso, anche nel livello psichico il senso
dell’io è piuttosto autospeculare, non nasce dal
rapporto con l’altro né crea sana alterità.
Livello ontologico: chiamata e progetto
A questo terzo livello cambiano radicalmente scenario e
punti di riferimento: l’io si definisce per quello che è e per quello che è
chiamato a essere. Da un lato lo sguardo è rivolto verso le profondità dell’io
stesso (oltre l’esteriorità del corpo o delle proprie azioni e prestazioni),
dall’altro il soggetto si scopre incompleto, tende verso qualcosa che ancora
non possiede, verso un ideale ricco di verità-bellezza-bontà
e che ora rende vero-bello-buono il soggetto stesso.
E in questa tensione avverte una chiamata, più precisamente uno che lo chiama
(visto che nessuno può autochiamarsi), anzi, Uno che
lo chi-ama (chiamare è voce del verbo amare), entro un contesto dialogico che
esprime interesse, attenzione all’altro, amore (se nessuno ti chiama, vuol dire
che non conti niente per nessuno); e verso un progetto da realizzare, ma nel
quale l’io si intravede, o scopre il pieno compimento della propria identità .
A questo dialogo il credente dà un nome preciso:
vocazione. In quel progetto il consacrato riconosce il carisma che ha ricevuto
in dono. Da essi nasce il senso dell’io,
– legato all’essere, non più all’apparenza o all’avere, e
dunque stabile e profondamente radicato, anche se dinamico e sempre da
realizzare, proteso com’è verso il compimento di valori che saranno sempre
oltre l’attuazione del soggetto;
– legato ancora a un Tu, a una Volontà buona che ha
preferito il mio io alla non esistenza, e che consente all’io stesso di
stabilire un rapporto libero con qualsiasi tu, libero dalla mania del confronto
competitivo con l’altro, dal bisogno di prevalere sull’altro o di dover
ottenere a tutti i costi il suo assenso dipendendo dall’altro;
– legato infine a un corrispondente senso della vita,
quale bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato, dunque
libero da ogni mania di accumulare per sé, di cercare la propria autorealizzazione, di conquistare risultati positivi,
d’aver successo per forza, di render visibile a tutti la propria eccellenza, di
evitare accuratamente quanto possa significare fallimento, limite, sconfitta…
A questo livello diventa dunque fontale
il rapporto con un Tu, come quello con Dio, Padre e Creatore, rapporto che
ritorna quale paradigma d’ogni rapporto umano in cui un tu “chi-ama” l’io,
trasmettendogli la certezza della sua dignità.
Ma il cammino di autoidentificazione
non finisce qui.
Livello metapsichico: oltre l’avere
A questo punto l’io è libero, o progressivamente libero,
di vivere in pieno le sue doti o quanto si riferisce immediatamente o
mediatamente alla sua persona (progetti, iniziative, scelte…), poiché non le
considera più come sua proprietà indiscussa, qualcosa che parte da lui per
tornare a lui, possibilmente con gl’interessi, ma come parte del dono della
vita ricevuta da un Altro, e che, come abbiamo accennato, tende per natura sua
a divenire bene donato ad altri. Al tempo stesso, però, la sua positività non
dipende più primariamente dalle sue doti. Insomma, cambia radicalmente la
prospettiva: ne guadagna il senso d’identità e pure d’alterità.
Ed è proprio questo cambio che permette alla persona di
interpretare al meglio le sue stesse qualità, poiché le libera dal legame
asfissiante e riduttivo col proprio io, le svincola da una dipendenza che le
soffocherebbe, le può mettere finalmente a disposizione della vita, e di tutti.
Potrà addirittura arrivare al punto di sacrificare l’esercizio di qualcuna
delle sue potenzialità o di rinunciare a un suo punto di vista senza sentirsi
particolarmente offeso, quando ciò sia richiesto da un bene maggiore. Libero di
sacrificare il figlio…
Livello metasomatico: oltre
l’apparenza
Anche il corpo prende parte a questo… rito liberatorio,
perché anche il corpo viene visto come parte del dono della vita, dono che –
pure esso – tende per natura a sua a divenire bene donato.
Non più, dunque, la preoccupazione eccessiva per la
propria immagine o per i giorni dell’esistere terreno, per il riposo, la
salute, il proprio benessere…, ma la convinzione serena che tutto ciò vada
necessariamente messo a servizio degli altri, divenga dono per tutti, ogni
giorno di più. Fino a celebrare nella propria morte il dono totale di sé, il
punto finale d’una esistenza che s’è sempre più espropriata per la vita degli
altri. E assieme, la “celebrazione” d’una positività indistruttibile che si
protende oltre la morte.
In conclusione: proprio questa positività è la condizione
fondamentale per stabilire un autentico rapporto con l’altro, e al tempo stesso
proprio il rapporto con l’altro promuove la positività dell’io. Ovvero
dall’identità all’alterità e viceversa.
Il principio del terzo
Ma è necessaria un’altra precisazione per stabilire un
rapporto autentico con l’altro, e incontrarlo nella sua verità e nel mistero
d’essa, e non con le nostre illusioni o distorsioni percettive proiettate sulla
sua persona.
Il desiderio dell’uomo è, infatti, nonostante tutto e
nonostante le sue molte contraddizioni, incontrare il tu, ed è bello che sia
così; la pretesa è quella di render l’altro come lo vorremmo, più o meno
omologato ai nostri gusti e in funzione dei nostri bisogni; la tentazione,
infine, è quella di poter accedere direttamente al suo mistero, senza
mediazione alcuna.
La psicologia della comunicazione ci offre al riguardo un
principio estremamente prezioso e chiarificatore: il principio del terzov. Che in parole semplici significa:
non basta desiderare d’incontrare il tu,
né sono sufficienti rispetto e accettazione della sua
persona;
occorre accoglierlo incondizionatamente,
ma sempre mediatamente.
Sono due condizioni fondamentali per la vita relazionale
comunitaria:
– l’accettazione totale dell’altro senza condizioni,
– il contatto mediato con la sua verità e il suo mistero.
Le due condizioni sono legate tra di loro, ma entrambe
sono dettate dall’amore per l’altro, per la sua persona, non da un semplice
desiderio di rapporto. E da un amore che, quando è vero, è capace di stima,
d’un giudizio limpidamente positivo dell’altro, ovvero è libero di percepire l’altro
nella sua amabilità radicale e ontologica, quella che permane al di là di
qualsiasi comportamento più o meno corretto.
Il Terzo divino
In realtà, è capace di fare questo solo chi ha risolto
prima il problema della stima di sé, ed è riuscito a cogliere dentro di sé
quella realtà ontologica che è come una certezza indistruttibile. Lì, in quel
livello ontologico, come abbiamo prima ricordato, il soggetto si sente
chiamato, da una voce che gli svela il suo io, da una voce che in qualche modo
fa da mediazione tra una parte dell’io (l’io attuale) e un’altra parte (l’io
ideale). Una voce che per il credente corrisponde a un volto, a un gesto
d’amore, a un Terzo che entra provvidenzialmente nel suo mondo intrapsichico e
gli consente di accedere al mistero dell’io.
Ora, come questo Terzo divino è stato mediazione preziosa
per scoprire la propria identità e positività, così potrà fare da mediatore per
incontrare l’altro nella sua alterità e apprezzarlo
nella sua verità e bellezza, oltre ogni apparenza. In tal
senso e in forza di tale logica Francesco è attratto dal volto del lebbroso,
Teresa di Calcutta abbraccia il moribondo, il fratello lava i piedi al fratello
senza sentirsi un eroe, ognuno si sente responsabile dell’altro, caricandosi
sulle spalle il peso del suo peccato, anche correggendolo con forza, se
necessario. Insomma, ogni legame
tra due persone credenti deve avere un Terzo che lo
garantisce, lo motiva, lo illumina, lo dirige, lo purifica.
Anzi, il rapporto così stabilito con l’altro consente un
ritorno arricchito su di sé, che rivela aspetti nuovi del proprio io, come ben
dice Florenskij parlando dell’amicizia: “l’amicizia
sta nel contemplare se stesso attraverso l’amico in Dio, vedersi con gli occhi
dell’altro al cospetto d’un Terzo”.
Il terzo umano
Ma anche il rapporto con Dio non può pretendere di essere
immediato e ha bisogno d’un terzo, in questo caso d’un terzo umano. Rimanere
‘soli’ con Dio senza un terzo è pericolosissimo,6 vorrebbe dire la presunzione
d’interpretare da soli la sua volontà e la sua parola, o la pretesa d’una
intimità con lui astratta e velleitaria, che non passa attraverso il simile da
amare e soccorrere in modo molto concreto, o l’incapacità di cogliere le tante
tracce di Dio disseminate nell’umano, specie in quell’umano
che è debole. Poiché Dio, quel Dio che spesso noi pretendiamo incontrare
direttamente, è colui «che si cela nella sua traccia, lascia il tu e si fa
terza persona, perché appaia l’altro, gli altri; il Desiderabile sfugge al
desiderio e rinvia agli altri, specie se indesiderabili».7
Come dire: se la mistica non è intrisa di storia non
raggiunge Dio, certamente non quello di Gesù Cristo.
E come Dio è il necessario passaggio trascendente nel
rapporto dell’uomo col suo simile, così l’essere umano è l’altrettanto inevitabile
passaggio trascendente nella relazione dell’uomo con Dio.
“Il tu è più importante dell’io”8
Risultato congiunto di questo principio del terzo, come
un percorso a doppio senso, è ancora una volta il senso del legame tra identità
e alterità all’interno, in particolare, della
fraternità religiosa. Vivere in fraternità vuol dire accettare che sia proprio
con questi fratelli e sorelle, che io non ho scelto e dai quali non sono stato
scelto, che posso scoprire chi sono e chi sono chiamato a essere.
Come dice p. Radcliffe con
provocante chiarezza: «mettersi nelle mani dei fratelli nella professione
religiosa è accettare che la propria identità non si trovi più nelle proprie
mani. La fraternità è una identità indeterminata», che è l’autentica identità
del credente.
E forse proprio questo è anche il senso dell’obbedienza,
dell’obbedienza fraterna. Per questo stesso motivo lo stesso Radcliffe afferma d’essere stato sempre contrario, ad es., alla tendenza di chiedere ai fratelli prima
d’un’elezione se accetterebbero di essere superiori: “non spetta a me dire se
penso di essere in grado di svolgere questo ruolo. Tocca ai miei fratelli fare
il discernimento”. Anzi, “l’identità indefinita del voto di obbedienza è un
segno di quel cammino verso la conoscenza di sé che noi facciamo con gli
estranei sulla strada del Regno. Significa che noi non conosciamo chi siamo
senza il povero, l’anonimo e il silenzioso”,9 poiché questa è la storia
cristiana: “storia del continuo ed esigente impegno con gli estranei, abbandonando
il diritto di decidere chi sono. Nessuno saprà mai chi è senza ognuno degli
altri”.10
Dall’io al noi (e viceversa): identità e appartenenza
Il cerchio s’allarga. Non può restare chiuso all’ambito
dei due, della coppia io-tu, ma deve necessariamente estendersi al “noi”, alla
comunità, non solo intesa quale molteplicità di relazioni, come abbiamo visto
nel punto precedente, ma quale realtà nuova e inedita, che non viene dalla
carne e dal sangue, ma che nondimeno deve rispettare certe leggi e dinamiche
evolutive se vuol davvero crescere e far crescere.
Vedremo solo un paio di questi principi in modo
schematico, come itinerari pedagogici d’integrazione tra il senso d’identità e
il senso d’appartenenza, in un cammino di realizzazione personale e comunitaria.11
TRIPLICE CAMMINO
DI COMUNIONE
Il senso d’appartenenza è il riflesso, sul piano
relazionale, del senso d’identità: ognuno si definisce a partire da ciò che è e
in cui si riconosce, ma ciò determina per natura sua un’uscita da sé per
decidere d’appartenere a qualcos’altro, a dei valori e ideali, e pure a chi,
persone e gruppi, l’incarnano. In ogni caso più forte è il senso d’identità,
più lo sarà anche il senso d’appartenenza. Di conseguenza, la crescita
nell’appartenenza avviene, per un consacrato, lungo le componenti costitutive
del carisma, ma ben oltre un’interpretazione puramente individualistica d’esse.
Se dunque tali componenti sono, come sappiamo,
l’esperienza mistica, il cammino ascetico e la missione apostolica, questi tre
elementi diventano anche la triplice pista di maturazione del senso
d’appartenenza, ma operando un passaggio che dall’io conduca progressivamente
al noi, o che dalla prospettiva privata apra sempre più alla logica della
condivisione dello stesso cammino di santità.
Esperienza mistica da condividere
All’inizio d’un carisma c’è sempre una teofania, in cui
Dio si rivela e mostrando il suo volto svela anche all’uomo il suo volto umano.
Il consacrato nasce proprio qui, quando inizia a scoprire il suo io entro
questo rapporto con Dio e lascia che il mistero pregato diventi la fonte della
sua identità. È la spiritualità che svela l’identità, e dunque lascia
intravedere la fonte della comune appartenenza e il luogo ove matura ogni
giorno l’autentica fraternità, quella di fratelli resi tali dalla ricerca dello
stesso Dio.
E allora la preghiera non può restare un fatto privato,
poiché l’appartenenza o «la comunione nasce proprio dalla condivisione dei beni
dello Spirito, una condivisione della fede e nella fede»,12 entro una logica di
santità comunitaria.
Progetto ascetico come norma comune
Il processo d‘identificazione dell’io iniziato con
l’esperienza mistica continua nel momento ascetico: il mistero dell’io,
infatti, è decifrabile solo a condizione che diventi anche realtà operativa e
vivente, e il “volto” rivelato nell’esperienza mistica divenga realmente il
modo d’essere e agire, d’amare e donarsi del singolo.
La forma proposta dalla teofania diventa così anche
norma, regola di vita, punto di riferimento abituale e centrale, cui si deve
obbedienza da parte di tutti e da cui sgorga uno stile vitale comune che
consente a ciascuno di riconoscersi nell’altro. Il progetto ascetico così
concepito non è disciplina, ma segno distintivo che crea senso d’appartenenza
all’istituto, mentre la fedeltà di uno sorregge quella di tutti.
Missione apostolica comunitaria
Si completa qui la rivelazione dell’io, con quell’opera di misericordia corporale o spirituale che
caratterizza ogni istituto e che è strettissimamente
legata all’esperienza mistica, ove trova le sue radici, e al progetto ascetico,
che prepara l’apostolo per un servizio specifico, con un obiettivo, dei
destinatari, uno stile… del tutto originali. Appartenere a un istituto vuol
dire identificarsi con tutto ciò, non solo compiere un servizio.
Diventa allora importante agire nella missione con stile
comunitario. Ovvero con la consapevolezza di operare sempre in nome della
comunità e grazie a essa, mai dunque con spirito individualistico-esibizionistico,
come se l’apostolato fosse cosa propria, ma camminando assieme, aspettando chi
procede più lentamente, condividendo il più possibile fatiche e gioie, nella
certezza che per quanto l’apostolo donerà alla comunità sarà sempre molto più
quel che da essa ha ricevuto. Allora l’apostolato nutre il senso d’appartenenza
e ne è al tempo stesso alimentato; mentre il carisma risplende nella ricchezza
complementare dei doni di tutti.
DOPPIA
CONSEGNA
Il senso d’appartenenza è vero quando è a doppio senso e
determina una duplice “consegna”. Quando infatti un religioso si consacra
attraverso la professione, si affida all’istituto e l’istituto s’affida a lui.
È accolto, ma deve a sua volta accogliere; è figlio, ma dovrà divenire anche
padre. Da quel momento la vita della famiglia religiosa s’identifica con la
sua, e lui non potrà più pensarsi fuori d’essa. Con questa consegna s’è messo
nelle sue mani perché essa lo conduca a Dio; s’affida così alla sua santità e
alla sua debolezza, non pretende che sia senza macchia, gli basta sapere che
rappresenta la sua via di santità e che lì e solo lì lo raggiungerà la grazia
che lo salva, anzi, è già grazia che lui stesso possa esservi accolto con tutto
il suo peccato.
Ma anche l’istituto si mette nelle mani del singolo; da
quel momento la santità dell’istituto dipenderà anche da lui, e lui sarà
responsabile della crescita d’ogni fratello e chiamato a farsi carico della
debolezza d’ognuno, anzi, a riconoscere che quella debolezza è la via
misteriosa lungo la quale Dio gli viene incontro.
Esser membro d’una comunità è celebrare assieme la
comunione dei santi e dei peccatori, e imparare a condividere sempre più il
bene, i doni dello Spirito, ma anche il male, ovvero l’inevitabile esperienza
del limite personale e comunitario. Quando, infatti, s’impara a riconoscere assieme
dinanzi alla stessa misericordia divina infermità e povertà personali, in quel
momento è come se il male perdesse la sua carica diabolica dirompente e
lacerante, e, invece di riprodursi, si trasformasse misteriosamente in dono
divino, in esperienza di grazia che s’effonde come rugiada su tutti, in
coscienza della propria debolezza e dello stesso comune bisogno di perdono, in
coraggio di rispondere al male con il bene, con la voglia di costruire insieme,
con la beatitudine della mitezza, in momento di coesione, in gioia rinnovata di
stare insieme, in senso d’appartenenza sempre più intenso…
Soprattutto in modello di fraternità e di riconciliazione
che possiamo e dobbiamo offrire come buona novella al mondo d’oggi, perché il
male non si riproduca uccidendo tutti, ma sia vinto dal bene, per il bene di
tutti.
Amedeo Cencini
1 P.G. Cabra, Per una vita fraterna. Breve guida pratica,
Brescia 1998, p.17.
2 Cf F.
Scalia, Dopo l’undici settembre, in “Presbiteri”
35(2001), 643.
3 Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le
società di vita apostolica, La vita fraterna in comunità 39.
4 Ho approfondito questo punto in A.Cencini,
Dalla relazione alla condivisione. Verso il futuro…, Bologna 2001.
5 La vita fraterna 39.
6 Cf. Cencini,
Dalla relazione, 48-56.
7 Cf. P. Sequeri,
Obbedienza come consegna alla volontà de “il Terzo”, in AA.VV.,
L’obbedienza torna virtù, Fossano 2000, p.142.
8 P. Giannoni, Monaco e prete
diocesano, in Il Regno/Attualità, 10(1997), 320.
9 T. Radcliffe,
Forti nella debolezza, in Testimoni, 20(2004), 28.
10 Ibidem. Simpatico e ricco di senso quanto si racconta
di H.Camara, il quale, quando sentiva che la polizia
aveva preso e messo in galera un pover’uomo,
telefonava ai poliziotti per dir loro: “Ho sentito che avete arrestato mio
fratello”, e i poliziotti, chiedendo scusa: “Eccellenza, che sbaglio! Non
sapevamo che fosse suo fratello. Sarà subito rilasciato!”. E quando
l’arcivescovo si recava alla stazione di polizia per prendere l’uomo, trovava i
poliziotti un po’ sorpresi e disorientati: “Ma, Eccellenza, quello là non ha il
suo stesso cognome”. E Camara rispondeva allora che
ogni persona era suo fratello e sorella, anche i poliziotti…
11 R.Williams (arcivescovo
anglicano di Canterbury), cit. da Radcliffe, Forti,
29.
12 Cf. su questo punto A.Cencini, Fraternità in cammino. Verso l’alterità, Bologna 2000, 78-87.
BREVE CORSO
SULLA VITA CONSACRATA
Nonostante il titolo,1 che può far pensare a qualche cosa
di arido, siamo in presenza di pagine godibili e invitanti, dove la lunga
esperienza di vita e di insegnamento permettono all’autore di dire l’essenziale
in forma chiara e piacevole. «Per entrare nel mistero della vita consacrata, un
mistero che nasconde intense vicende interiori, sarebbe necessario ripercorrere
la sua lunga storia – iniziata con il fascino di Cristo e continuata dall’opera
dello Spirito – [...] Questo non solo perché la vita consacrata è vita vissuta,
prima di essere teologia o spiritualità o regolamentazione canonica, ma
soprattutto perché non esiste una forma unica o ideale di vita consacrata» (p.
5).
TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ
NELLA STORIA
La prima parte del libro è dedicata alla storia, per
presentare tutta la ricchezza teologica e spirituale sviluppata e trasmessa
dalla vita religiosa. La rivisitazione storica tuttavia non è centrata sui
fatti o sui personaggi, ma è una presentazione ragionata delle teologie e delle
spiritualità accumulate nei secoli.
E se da una parte viene messo in risalto l’enorme
patrimonio di esperienze spirituali della vita consacrata, dall’altra,
ancorando appunto la riflessione alla vita, viene evitato il pericolo sempre in
agguato di fare una trattazione ideologica della vita consacrata.
Possono così essere passate in rassegna le teologie e le
spiritualità del monachesimo nel primo millennio, quali ad esempio quelle del
deserto, del martirio, dell’imitazione degli apostoli, della vita angelica, del
segno escatologico, delle due vie.
Entrando nel secondo millennio emergono le teologie e
spiritualità dei tre consigli evangelici, dello stato di perfezione, della vita
mista. Mentre dopo la riforma vengono elaborate le teologie e le spiritualità
della missione, della vita diaconale, del fondatore
e, più vicini a noi, della laicità consacrata.
Interessante e utile ci sembra l’aggancio continuo con
l’esortazione apostolica Vita consecrata, che appare
in tal modo come il punto di arrivo e di convergenza di una corrente di santità
millenaria, dalle molteplici realizzazioni e tematizzazioni.
La lettura di queste pagine scorrevoli e agili è
arricchente, anche perché esse presentano provocazioni essenziali che stimolano
il desiderio d’ulteriore approfondimento.
CONCILIO
E POSTCONCILIO
Particolarmente nuova è la breve e densa trattazione
della vita consacrata nel concilio Vaticano II e negli anni agitati del postconcilio. Una trattazione utile anche per comprendere
molte cose del momento attuale.
La rivisitazione storica si conclude con la presentazione
della esortazione apostolica Vita consecrata, fatta
da una mano sicura che sa evidenziare i nodi essenziali e le problematiche
soggiacenti, non sempre e non da tutti colti nel giusto modo, anzi spesso
banalizzati o distorti.
La seconda parte è dedicata a una visione sintetica della
vita consacrata «quasi un catechismo elementare e una pista per ulteriori
approfondimenti».
Le pagine sull’approccio scritturistico
sono limpide e convincenti: la vita consacrata prima di formarsi su alcune
parole di Gesù, si basa su Gesù Parola, venuto a noi nella forma di vita
povera, casta e obbediente. Ma ci sono anche gli altri approcci sia quelli
tradizionali, sia quelli evidenziati dalla più attenta esegesi contemporanea.
L’approccio teologico è una esplicitazione
e un’applicazione della teologia del Vaticano II e di Vita consecrata.
Di questo documento sono messi in risalto le chiarificazioni e i progressi
teologici, frutto anche del dibattito sinodale e delle richieste e delle
sollecitazioni pervenute nel sinodo dei vescovi da tutte le realtà ecclesiali
ivi rappresentate.
L’autore si mantiene sul terreno sicuro dell’insegnamento
della Chiesa, sui punti più controversi quali l’identità della vita consacrata,
i consigli evangelici, gli stati di vita, per i quali sembra giunto il momento
di approfondire e assimilare la ricca dottrina offerta dalla Chiesa, prima di
addentrarsi in percorsi personali.
Più attenti all’attualità sono i capitoli dedicati alla
missione e ai singoli consigli evangelici, con continui riferimenti alle
difficoltà, alle sfide e alle opportunità che vengono dal momento attuale. Pur
senza nascondersi i seri problemi che il presente pone alla vita consacrata,
queste pagine fondano una motivata speranza per l’oggi e per il futuro.
Conclude un agile capitolo sulla vita fraterna in comunità.
Questo in breve il contenuto. Ma il libro, che non
pretende di essere un trattato esauriente, ma una presentazione sintetica del
grandioso fenomeno della vita consacrata, verrà letto con gusto, come già
detto, anche perché si mantiene sempre aderente alla realtà. Siamo in presenza
di pagine che, una dopo l’altra, aiutano a crescere nella stima e nell’amore
alla vita consacrata, dove realismo e indicazioni delle mete sono costantemente
animate da una convincente spiritualità.
A chi può essere utile un’opera del genere?
Prima di tutto ai destinatari per cui è stata
originariamente pensata: gli alunni dei brevi corsi di vita consacrata che
alcuni seminari diocesani inseriscono nel curriculum degli studi teologici. (L’a. ha offerto questo corso proprio agli studenti di
teologia del Seminario diocesano di Brescia). Inoltre sarà di grande utilità
per la formazione permanente delle persone consacrate, qualora si volessero
riprendere gli elementi fondamentali della vita consacrata, per una revisione
d’insieme.
Formatori e persone in formazione troveranno un sussidio
completo nella sostanza senza che sia scoraggiante per mole o per verbosità.
Già le precedenti opere di P.G. Cabra avevano fornito ampiezza di dottrina e
soprattutto una rivisitazione degli aspetti più affascinanti perché più veri
della vocazione e della missione della vita consacrata. E sono ancora di grande
aiuto sia per il discernimento che per l’accompagnamento delle nuove vocazioni.
Queste pagine hanno il vantaggio di una completezza pur nella brevità,
appetibili anche per chi volesse avere una prima idea globale della vita consacrata,
vista come vita e come elemento essenziale della vita della Chiesa.
La sicura dottrina e lo stile accattivante possono
riavvicinare anche i più tiepidi estimatori di questo peculiare genere di vita,
considerato a volte e a torto, il parente povero (solo teologicamente?)
nell’attuale congiuntura ecclesiale.
Un’opera che rafforza il senso di identità e di
appartenenza nelle persone consacrate, senza coltivare sensi di superiorità o
di inferiorità. «L’insistenza sull’identità della vc
è per rendere coscienti le persone consacrate e l’intero popolo di Dio della
dignità e della missione della vc e quindi della sua
importanza nella Chiesa. La sua nobiltà è quella della croce, nobiltà a cui
tutti sono invitati e alla quale essa invita. L’esaltazione della vc appartiene all’esaltazione della croce del Signore Gesù:
nulla di più umiliante, nulla di più divinizzante!» (p. 173). P. Cabra insiste
con il consueto entusiasmo sul sentirsi responsabili di una grande storia da
continuare, storia che, appunto perché non è mai stata facile, è stata una
“folle corsa”, che ha animato e sostenuto il cammino di intere generazioni e di
persone mosse dall’amore del Signore.
C. F.
1 P.G. CABRA, Breve corso sulla vita consacrata, Queriniana, Brescia 2004, pp. 272, € 17.