“MUTUAE RELATIONES” IN SENO AL POPOLO DI DIO

VERSO NUOVE RELAZIONI

 

A 25 anni dalle Mutuae relationes sul rapporto vescovi e religiosi si impone oggi una revisione. Non è più possibile ignorare la realtà dei laici, all’interno di un discorso di comunione. Il tema affrontato dai superiori generali nell’assemblea generale di maggio.

 

Uno dei testi più studiati e, forse, anche uno dei documenti che ha avuto un maggior influsso nella vita della Chiesa in questi ultimi 25 anni è quello delle Mutuae relationes (MR). Lo ha affermato l’ex superiore generale dei claretiani, p. Aquilino Bocos Merino nella sua ampia relazione introduttiva nell’ultima assemblea semestrale dei superiori generali, svoltasi a Roma, dal 26 al 28 maggio, sul tema delle Mutuae relationes in seno al popolo di Dio.

Il fatto nuovo di questi ultimissimi anni è sicuramente quello di numerose “famiglie” sorte attorno al carisma di un determinato fondatore. Ma i laici di cui si è parlato in questo convegno non erano solo quelli potenzialmente orientati a far parte di una di queste realtà, ma tutti quelli che semplicemente in forza del proprio battesimo sono chiamati a vivere la loro vocazione laicale nel popolo di Dio. Anticipando uno dei temi trasversali in tutti gli interventi, va detto subito che questa attenzione ai laici non era puramente utilitaristica e funzionale all’inarrestabile calo numerico e al progressivo invecchiamento dei religiosi attivi sul campo. Non voleva essere, cioè, un accorato appello da ultima spiaggia prima di un inevitabile ridimensionamento della propria presenza nella realtà ecclesiale odierna da parte di tanti istituti religiosi. Era, invece, la conferma più esplicita di una presa d’atto – per certi versi ancora tutta da costruire – della spiritualità di comunione che dovrebbe connotare i rapporti fra tutte le componenti della Chiesa d’oggi.

 

LA CHIESA

“CASA DI COMUNIONE”

 

Aquilino Bocos ha esordito ricordando la proposta n. 34 del sinodo sulla vita consacrata (1994), con la quale si auspicava la pubblicazione di un nuovo documento in cui trattare opportunamente i rapporti fra tutti i membri del popolo di Dio. Ma, in fondo, già tutti gli ultimi sinodi episcopali1 non hanno fatto altro che approfondire i rapporti delle diverse vocazioni, sacerdotali, religiose e laicali.

Le premesse per una spiritualità di comunione c’erano già tutte nei documenti conciliari. Purtroppo, fin dai primi anni dopo il concilio, tra i religiosi, non sono mancate contraddizioni, dismissioni di opere, lacune, inesattezze e deviazioni nella comprensione della chiesa particolare e del ministero dei vescovi. Così come sul versante dei vescovi e del clero diocesano non sono mancate incomprensioni della vita consacrata e anche delle sue potenzialità di evangelizzazione all’interno della Chiesa. «Tutto ciò ha provocato sfiducia, diffidenza, sospetti e non poche emarginazioni o semplici “utilizzazioni”, pensando solo alla diocesi. Vi era una comprensione riduttiva della Chiesa particolare, del presbiterio, all’interno del quale i sacerdoti-religiosi contavano poco o nulla».

Grazie però ai vescovi e ai sacerdoti «molto attenti alla vita consacrata», da una parte, e ai religiosi e religiose «molto sensibili nei confronti del ministero episcopale e della Chiesa particolare», dall’altra, è stato possibile arrivare, nel 1978, alla stesura dei «criteri pastorali sui rapporti tra vescovi e religiosi nella Chiesa» con il documento Mutuae relationes. I fondamenti dottrinali di questo documento non solo mantengono la loro validità, ma sono anzi «una sintesi armoniosa del ricco insegnamento conciliare», soprattutto in riferimento alla Chiesa come mistero e popolo di Dio. «Ciononostante – ha osservato Bocos Merino citando anche il parere di alcuni autorevoli autori in materia – bisognerebbe chiarire quegli eventuali punti che potrebbero suscitare inadeguate interpretazioni». Potrebbe essere il caso, ad esempio, di una più approfondita ricomprensione della chiesa locale in riferimento a quella universale. L’ecclesiologia dominante nel documento MR, infatti, è quella della Chiesa universale. Lo conferma la mancanza, nelle MR, di un capitolo sui vicendevoli rapporti tra il vescovo della chiesa particolare e i superiori religiosi.

Così ancora, potrebbe essere il caso del superamento di una possibile dicotomia tutte le volte che si parla di doni gerarchici e doni carismatici. Non sarebbe fuori luogo, inoltre, una maggiore attenzione verso la comunione fraterna, propria della vita consacrata. I religiosi, infatti, «si relazionano con i vescovi in quanto membri di una comunità di vita». Così, ancora, perché non inserire nelle MR gli istituti secolari che sono stati «espressamente trascurati» nel 1978? Perché non stabilire «criteri e orientamenti che aiutino a instaurare adeguati rapporti con i movimenti o con le nuove forme di vita consacrata, con i laici e con i sacerdoti secolari?». Tutte queste osservazioni non intaccano comunque «il grande valore e il servizio prestato dalle MR, l’esperienza di comunione che esso ha promosso e l’auspicio che continui a contribuire al consolidamento dei rapporti reciproci tra vescovi e religiosi».

Fare della Chiesa una “casa di comunione”, così come ne parlano abbondantemente anche alcuni dei più recenti documenti, quali Vita consecrata, Novo millennio ineunte e Pastores dabo vobis, non significa però azzerare tutte le diversità fra una realtà e l’altra del popolo di Dio. I carismi e i ministeri, le diverse forme di vita «saranno tanto più utili alla Chiesa e alla sua missione, quanto maggiore sarà il rispetto della loro identità» (VC, 4).

 

UN CAMMINO

ANCORA MOLTO LUNGO

 

Ma come fare della Chiesa una scuola di comunione? La risposta la troviamo nella Novo millennio ineunte: proporre questa spiritualità «come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità» (n. 45). I rapporti reciproci all’interno della Chiesa sono di fatto il risultato della formazione ricevuta sia dal clero, che dai consacrati e dai laici. A questo riguardo, però, nei seminari e nelle università non sono stati fatti molti passi avanti. Basta sfogliare i testi di ecclesiologia per accorgersi di quanto poco spazio venga dato a una interazione fra le diverse vocazioni sacerdotali, religiose, laicali. C’è ancora molto da fare per «riconoscere la radicale unità e la ricca pluralità delle vocazioni».

Nessuno ignora la complessità dei rapporti tra i diversi stati o forme di vita, ha concluso Bocos Merino. Ma proprio per questo è necessario continuare ad approfondire in modo interdisciplinare i relativi problemi teologico-pastorali. Sono ancora numerose le questioni sulle quali sarebbe opportuno continuare un’attenta riflessione, dal ministero ordinato alla vita consacrata, ai laici, al matrimonio, ai movimenti, avvalendosi di tutti gli specialisti presenti in non pochi istituti religiosi. E perché non far propria la proposta di quanti vedrebbero con piacere un sinodo ecclesiale dedicato specificamente alle Mutuae relationes fra tutte le componenti della realtà ecclesiale? Potrebbe essere un passo decisivo per la costruzione di una Chiesa che sia veramente «scuola e casa di comunione».

Ma il cammino, si è più volte ripetuto durante il convegno, è ancora molto lungo. Sia il ruolo dei religiosi che quello dei laici, di fatto, è ancora troppo spesso più teorizzato che vissuto e riconosciuto. Un istituto religioso, ha affermato nel suo intervento mons. Jean Bonfils, vescovo di Nizza, può entrare a pieno titolo in una prospettiva di comunione ecclesiale a una sola condizione, e cioè che gli siano garantite tutte le condizioni di esercizio delle proprie libertà carismatiche. In una diocesi priva di comunità di vita consacrata, sarebbe impossibile parlare di comunione, per il semplice fatto che in quella chiesa particolare verrebbe a mancare «un elemento decisivo per la sua missione», verrebbe meno «una parte integrante della Chiesa».

L’insufficiente attenzione, nella predicazione dei sacerdoti, all’escatologia – che, anche secondo il vescovo di Nizza, appartiene alla «dimensione più profonda» della vita consacrata – ha come conseguenza quella di «privare il popolo cristiano della sola prospettiva che sa imprimere una direzione e una ragion d’essere alla sua vita battesimale». Fino a quando i religiosi sono visti solo in termini utilitaristici e funzionali all’attività apostolica della Chiesa, sarà assolutamente impossibile parlare di «comunione tra le diverse componenti della vita della Chiesa». Accanto ai consigli diocesani presbiterale e pastorale, per mons. Bonfils è importante anche quello della vita religiosa, della vita consacrata e delle società di vita apostolica. Non solo e non tanto per tutelarne i diritti o le esigenze, quanto piuttosto per discutere con il vescovo tutti i problemi riguardanti la promozione della comunione ecclesiale, dalla definizione delle convenzioni tra vescovo e istituti, alla formazione dei seminaristi alla teologia della vita consacrata, alla promozione delle vocazioni religiose, alla formazione permanente dei religiosi-laici e delle religiose, al sostegno e all’accompagnamento della loro vita spirituale (compresa la scelta del proprio confessore!), e soprattutto al coordinamento pastorale di tutte le opere di apostolato.

Non solo il ruolo dei religiosi, ma anche quello dei laici va ricompreso e rivalutato, non in termini puramente funzionali, all’interno della Chiesa. Stiamo attenti, ha detto, a voler trasformare, a tutti i costi, i laici più direttamente impegnati nelle realtà del mondo secondo una loro specifica vocazione, in “operatori pastorali”. La carenza di clero, l’età e le condizioni di salute di tanti sacerdoti rischiano, anche senza volerlo, di fare dei laici più impegnati una specie di “chierici imprestati”. Quanti laici «insufficientemente compenetrati di uno spirito veramente ecclesiale e incapaci di dominare pienamente la loro sete di potere” rischiano di far pesare poi sulla comunità cristiana, che sono chiamati a servire, un neo-clericalismo che, «almeno dalle mie parti, non si trova più neanche tra i sacerdoti». Il ruolo del vescovo allora è uno solo: saper far dialogare sacerdoti e laici sulla base di un attento ascolto della parola di Dio affinché «ognuno trovi il suo posto nella chiesa particolare e si arricchisca della complementarietà l’uno dell’altro».

 

NON BASTA

UNA “SPLENDIDA TEORIA”

 

Le affermazioni più provocatorie sul ruolo dei laici nella Chiesa i superiori generali le hanno però ascoltate dalla presidente dell’Azione cattolica italiana, Paola Bignardi. «L’esperienza dei laici, ha esordito, è stata ed è ancora in molti casi un’esperienza di fatto, di marginalità e di subordinazione. I laici, abituati a essere destinatari delle azioni della Chiesa più che soggetti corresponsabili coinvolti nella vita di essa, hanno sviluppato nel tempo atteggiamenti di dipendenza e di passività che è difficile far evolvere verso modalità più partecipative e coinvolte». Affermando esplicitamente che «non c’è comunione nella Chiesa senza laici», Paola Bignardi ha chiarito fin dall’inizio che la sua prospettiva è quella della comunità cristiana, quale si esprime in tutta la sua pienezza nella chiesa particolare.

Se qualche superiore generale si attendeva un qualche riferimento particolare ai laici delle “famiglie” sorte attorno al carisma del proprio fondatore,2 oppure ai membri all’uno o l’altro dei numerosi nuovi movimenti ecclesiali, è forse rimasto deluso. La presidente dell’A.C. ha parlato sì di famiglia, ma solo e unicamente di quella del popolo di Dio. «La vocazione laicale, con la sua specificità, ha uguale valore, dignità, responsabilità rispetto a qualsiasi altra vocazione nella Chiesa». In una famiglia, infatti, «non c’è chi vale di più e chi vale di meno; ci sono persone diverse, che hanno compiti differenti, ma che vivono tutte con medesimo cuore». Ora, l’originalità dell’essere dentro questa famiglia è proprio l’appartenenza a Dio come laici. La vita quotidiana è il loro luogo di dedizione a Dio, della ricerca di lui, dell’incontro con il suo mistero. «La condivisione della vita concreta è per i laici la loro vocazione, è la loro chiamata, il luogo del loro incontro con il Signore: gli impegni che questo comporta sono volontà di Dio».

A quali condizioni, si è chiesta Paola Bignardi, «è possibile che la fede di noi laici, nella sua concretezza esistenziale, acquisti un peso, acquisti parola, dentro la comunità cristiana?». Si dovrebbe, anzitutto, vincere una prassi consolidata da secoli, quella che «vedeva i laici in una posizione prevalentemente passiva, richiesti più di obbedienza che di contributo creativo alla vita della comunità». Convinciamoci, ha insistito, che è ormai arrivato il tempo in cui una spiritualità di comunione chiede che pastori e laici insieme, «facciano camminare la Chiesa nella direzione di un dialogo interno che non teme il confronto tra differenti sensibilità, ma piuttosto teme l’uniformità, il silenzio, l’omologazione». I pastori oggi dovrebbero avere un solo timore: quello di un laicato «che dice sempre di sì, che non sa appassionarsi ai problemi del proprio tempo ma solo alla gestione della “sagrestia”». Devono temere ancora «quella piccola corte di gente corta che fa siepe attorno al parroco», secondo la “terribile espressione”, ha detto Paola Bignardi, di don Primo Mazzolari. I pastori non possono avere paura «di un laicato aperto, leale, in sincera ricerca di come mostrare al mondo d’oggi la bellezza del Vangelo e l’amore della Chiesa per ogni persona».

 

Angelo Arrighini

 

 

1 I sinodi sui laici (1987), sul sacerdozio ministeriale (1990), sulla vita consacrata (1994), sui vescovi (2001).

2 Testimonianze significative a questo riguardo, in assemblea, sono state offerte dal p. David Fleming, marianista e dal p. John Corriveau, cappuccino.


NELLA BIBBIA I VALORI CONDIVISI

IL LIBRO DEL FUTURO DELL’EUROPA

 

La Bibbia è il libro delle radici europee e sarà anche il libro del suo futuro. A partire da esso la Chiesa è chiamata a contribuire alla costruzione della società europea nella collaborazione ecumenica, nell’amicizia col popolo ebraico, nel dialogo con l’islam e nella crescita di vocazioni al servizio del bene comune.

 

L’agenda internazionale di questi ultimi cinquant’anni è stata scandita da nascita e crescita di un nuovo e importante soggetto economico-politico, l’Unione Europea (cf. Testimoni 8/04).

I passaggi di questo processo (mercato comune, moneta unica, dibattito sulla carta costituzionale, allargamento progressivo fino a 25 paesi membri con 455 milioni di abitanti) hanno generato alterne valutazioni, oscillando tra gli ottimisti che vedono nell’Europa un impulso alla pace e alla solidarietà mondiale e gli “euroscettici” delusi dal permanere del gioco degli interessi economici e delle logiche nazionalistiche.

In occasione dell’adesione all’Unione dei 10 nuovi paesi dell’est, il papa è tornato ribadire che «l’anima dell’Europa resta anche oggi unita, perché fa riferimento a comuni valori umani e cristiani. La storia della formazione delle nazioni europee cammina di pari passo con l’evangelizzazione... La linfa vitale del Vangelo può assicurare all’Europa uno sviluppo coerente con la sua identità, nella libertà e nella solidarietà, nella giustizia e nella pace. Solo un’Europa che non rimuova, ma riscopra le proprie radici cristiane potrà essere all’altezza delle grandi sfide del terzo millennio: la pace, il dialogo tra le culture e le religioni, la salvaguardia del creato».

Partendo da queste affermazioni il cardinal Carlo M. Martini, arcivescovo emerito di Milano, in una recente conferenza pubblica (9/5/04) ha tenuto a sottolineare come radici cristiane e valori condivisi sono espressi in maniera privilegiata proprio nei libri delle sacre Scritture.

 

DRAMMATICI

INTERROGATIVI

 

L’Europa diviene sempre più grande e più forte, quindi sempre più responsabile rispetto alla pace mondiale, mentre crescono sofferenza pericolo e paure per il moltiplicarsi di atti di terrorismo a livello internazionale: «Il terrorismo – ha ricordato il cardinale – non colpisce ormai più soltanto alcuni luoghi precisi, come la terra d’Israele, nella quale vivo, o l’Iraq, ma è capace di colpire in qualunque luogo e in qualunque momento, come ha mostrato il terribile attentato di Madrid». Tutto ciò in un quadro internazionale nel quale emergono nuove situazioni di incertezza e drammatiche sfide, che egli ha riassunto in tre interrogativi.

Il primo riguarda la Chiesa: «Che cosa dice lo Spirito alle nostre chiese sulla capacità del cristianesimo di essere ancora lievito e fermento delle nostre società, anzitutto della società europea e della nuova Europa che sta nascendo?» Il secondo riguarda la convivenza delle diversità: «Riusciremo in questo nostro mondo ad abitare insieme come diversi, senza distruggerci a vicenda, senza ghettizzarci a vicenda, e senza neppure solo tollerarci a vicenda?... Dobbiamo divenire, gli uni verso gli altri, fermento di autenticità e di ricerca della verità, in spirito di comprensione e di cordiale amicizia. Non parlo di proselitismo: “tu devi credere ciò che credo io”, ma: “tu devi seguire la tua coscienza fino in fondo e devi aiutare me a seguire la mia coscienza fino in fondo”. Gli eventi che stiamo vivendo in questi tempi a Gerusalemme, come pure in Iraq, ci dicono della enorme difficoltà di questa sfida. Non siamo capaci di abitare insieme come diversi, tanto meno a vivere una convivialità reale». Il terzo interrogativo riguarda la promozione di un bene comune globale: «Riusciremo a superare gli impasse, i blocchi e le tensioni che il moltiplicarsi dei conflitti di interesse, tra i grandi possessori dei media, la politica e la finanza internazionale stanno producendo nel mondo? Non è solo questione di una giustizia sociale statica, di venire incontro cioè ai poveri della terra, che sarebbe già un grande traguardo, ma insufficiente da solo. Si tratta di un modo di vivere e di collaborare insieme a livello planetario che promuova gli interessi del bene comune mondiale e che sembra sempre più difficile in un intrico di interessi privati di nazioni e di gruppi, anche economici».

Partendo da queste precise domande, l’oratore ha quindi cercato di individuare quale sia il significato della Bibbia per il futuro dell’Europa. Si è espresso con quattro tesi successive. La prima ci dice che la Bibbia è il libro che ha segnato la storia culturale europea. «Infatti, come già affermava Goethe “la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo” e anche il filosofo Kant era convinto che “il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà”… Il poeta francese Paul Claudel parla della Bibbia come del “grande lessico” da cui hanno attinto le letterature europee, mentre il pittore Marc Chagall era convinto che, per molti secoli, i grandi pittori si sono ispirati a quell’ “alfabeto colorato della speranza” che sono le sacre Scritture. Senza la conoscenza delle Scritture è infatti impossibile decifrare il senso dell’arte europea medievale e moderna».

In secondo luogo, la Bibbia è anche il libro offerto al nostro presente. Il cardinal Martini su questo punto si è richiamato alla sua ventennale esperienza pastorale nella diocesi di Milano, durante la quale non si è mai stancato di tornare all’insegnamento del concilio Vaticano II (Dei verbum), affinché la Bibbia ridiventi familiare al popolo cristiano e sia punto di riferimento della sua preghiera e della sua vita: «L’esperienza mi ha insegnato che tante persone, anche poco credenti o poco praticanti, sono state scosse da questo linguaggio e hanno trovato e trovano delle pagine della sacra Scrittura la luce per il proprio vivere quotidiano e la forza per superare le difficoltà».

La Bibbia, è la terza tesi, è però anzitutto il libro del futuro dell’Europa. In vista dei problemi emergenti dal contesto socio-politico sopradescritto, «sarà sempre più necessario che vi siano in Europa uomini e donne che rendano testimonianza della necessità della gratuità, del dono di sé, del servizio fatto senza interesse proprio, dell’amore al bene comune al di là del bene dei singoli e dei gruppi, della necessità del perdono concesso prima ancora che sia accolto. È, infatti, su questi pilastri che riposa una società giusta, capace di aiutare i più deboli… una società che possa vincere l’inimicizia, superare il male col bene e cercare ogni giorno di costruire la pace… E l’Europa, che ha lasciato dietro di sé le guerre dei secoli passati e ha imparato a conoscerne la forza distruttiva, l’inutilità e l’assurda violenza, può e deve essere per gli altri continenti promotrice e garante di pace».

Da tutto ciò nasce la necessità di «dire Dio all’uomo contemporaneo, con un linguaggio chiaro e comprensibile, che esprima la sua trascendenza, il suo amore per l’umanità e il bisogno dell’uomo di ogni tempo di riposare in lui. La Bibbia contiene queste parole. E la Bibbia le contiene in un tessuto di grande umanità, con un vivo senso della fragilità e della debolezza dei figli di Adamo… La Bibbia non è un libro calato dal cielo: è un libro in cui ciascuno può specchiarsi e ritrovarsi, in cui vi sono pagine per tutte le situazioni di sofferenza e di gioia per cui passa ogni creatura umana. Per questo è un libro che parlerà anche alle future generazioni».

 

NEL NUOVO MILLENNIO

CON LA SCRITTURA IN MANO

 

L’ultima tesi riguarda le condizioni perché la Bibbia possa essere efficacemente il libro del futuro dell’Europa. Si deve partire da «una collaborazione ecumenica, fraterna e convinta, tra tutte le confessioni cristiane. Il futuro dell’Europa è strettamente legato alla testimonianza di unità che sapranno dare i discepoli di Cristo. Ora, questo cammino inevitabile di unità, tra le chiese in Europa, si farà a partire dalla Scrittura e mediante una conoscenza sempre più profonda di essa».

Sulla base di questo rinnovato ecumenismo occorrerà poi «prendere sempre più viva coscienza del rapporto che lega le chiese cristiane al popolo ebraico e del ruolo singolare di Israele nella storia di salvezza, storia che riguarda tutte le nazioni. L’Europa è stata la terra nella quale si è consumata la più terribile persecuzione contro il popolo ebraico e il tentativo di distruggerlo, con gli orrori della Shoà e dei campi di sterminio. L’Europa del futuro dovrà essere contrassegnata da un’amicizia sempre più profonda per il popolo ebraico, riconoscendo le radici comuni che esistono tra il cristianesimo e l’ebraismo. Il dialogo col giudaismo sarà dunque di importanza fondamentale per la coscienza cristiana e anche per il superamento delle divisioni tra le chiese. Bisognerà ricordarsi sempre “della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele” (Ecclesia in Europa 56 ). E questo soprattutto di un momento come il nostro in cui sembra crescere nel mondo lo spirito antisemita e in cui il popolo di Israele sta vivendo un momento particolarmente drammatico della sua storia. Il conflitto che contrappone ebrei e palestinesi non potrà essere superato se non con l’aiuto e attraverso l’assunzione di responsabilità da parte di tutte le grandi nazioni, e in particolare dell’Unione Europea. Ma per questo l’Unione Europea dovrà ritrovare le sue radici bibliche che la legano indissolubilmente con il popolo ebraico».

Su questo punto, il cardinal Martini, che risiede per gran parte del tempo nella città di Gerusalemme, non ha perso l’occasione di sottolineare il ruolo che per il futuro dell’Europa ha e avrà questa città: «La novità che Dio prepara per il mondo intero è quella di uscire dalla condizione di lacrime, di lutto, di afflizione e di morte, per aprirsi alla Gerusalemme nuova. Non è indifferente per la costruzione della città dell’uomo che la Bibbia, e in particolare il libro dell’Apocalisse utilizzi, per definire il futuro dell’umanità, l’icona di Gerusalemme… Questa Gerusalemme celeste è un dono di Dio, riserbato per la fine dei tempi. Ma non è un’utopia. È una realtà che può cominciare a essere presente fin da ora, e che non può prescindere dai problemi e dalle speranze della Gerusalemme di oggi. In ogni luogo nel quale si cerchi di dire parole e di fare gesti di pace e di riconciliazione, anche provvisori, in ogni forma di convivialità umana che corrisponda ai valori presenti nel Vangelo, c’è una novità, fin da oggi, che dà ragioni di speranza. E nella Gerusalemme di oggi – lo posso affermare come testimone diretto – vi sono tanti di questi piccoli e semplici gesti di pace, di amore, di riconciliazione e tante forme di convivialità vissuta. Occorre che l’Europa sostenga e promuova questi gesti perché assumano a un certo punto valore e peso politico e diventino premesse per un cammino di pace».

Da queste considerazioni discende l’ulteriore condizione rappresentata da un dialogo interreligioso coraggioso e profondo e un rapporto fraterno e intelligente con l’islam. Mantenendo la fiducia nel disegno di salvezza di Dio che riguarda tutti i suoi figli, «bisognerà essere coscienti delle divergenze esistenti tra la cultura europea e la cultura araba, ma questo non per chiudersi in una fortezza europea, ma per aprirsi a uno scambio sincero che permetta la fiducia reciproca e sostenga le forze dialoganti all’interno dell’islam per un cammino di pace».

Affinché questo scenario di dialogo e di interdipendenza possa diventare casa comune, è stato infine lucidamente sottolineato che «sarà di importanza capitale suscitare e sostenere vocazioni specifiche – politiche – di numerosi laici al servizio del bene comune europeo e mondiale: persone che, seguendo l’esempio di coloro che sono stati chiamati padri dell’Europa, sappiano essere artefici della società europea dell’avvenire, facendola riposare sulle basi solide dello spirito. E queste basi solide dello spirito sono quelle che troviamo nella Scrittura e, in particolare, nel Vangelo».

Non sarà una formula a salvarci né un programma, ma la persona vivente di Gesù Cristo (NMI 39). È questa persona vivente, la quale ci parla attraverso le Scritture nella forza dello Spirito, che ci salverà. La Chiesa entri dunque nel nuovo millennio con in mano il libro del Vangelo!

 

a cura di Mario Chiaro

 

 

 


URBANESIMO ED EVANGELIZZAZIONE

LE CITTÀ LUOGO DELLA MISSIONE

 

È finita l’epoca della missione nella brousse. Il futuro della missio ad gentes è nelle città, in particolare nelle megalopoli del sud del mondo. Per questo tipo di missione occorrono metodi e persone nuovi, ma la Chiesa rischia di essereancora una volta in ritardo.

 

Nel 2007, secondo l’ultimo rapporto redatto dall’ONU sullo stato della popolazione mondiale, un abitante su due vivrà in una megalopoli, vale a dire il 50% degli abitanti del pianeta. Si parla di città, soprattutto nell’emisfero sud, che arriveranno fino a 20 milioni di abitanti e oltre, come Bombay (22,6), New Delhi (20,9), Città del Messico (20,6) San Paolo (20). L’esempio più eclatante è quello di Tokyo che raggiungerà i 37 milioni.

La notizia può sembrare una delle tante proiezioni futurologiche del nostro tempo fatto di statistiche e di inchieste, rese facili dall’informatica oggi imperante nella nostra cultura. Ma per gli operatori della missione questa notizia dovrebbe suonare come un segno dei tempi e, più ancora, come un campanello d’allarme che attira l’attenzione e fa riflettere.

Il fenomeno dell’urbanesimo non è certamente nuovo. È il logico risultato della civiltà industriale che ha modificato profondamente le abitudini della gente in quest’ultimo secolo della nostra storia. Ma per la pastorale queste nuove concentrazioni urbane sono evidentemente una novità carica di incognite e di problemi sia sul piano sociale che religioso. La gente vi vive sradicata dalla propria cultura e dal proprio gruppo, spesso in quartieri dove prosperano la promiscuità, la malavita, l’ingovernabilità, i gruppi fondamentalisti e ogni altro genere di propaganda.

Lavorare oggi in città, ovunque, è diventato più difficile. Se poi si pensa a essere pastori in uno degli agglomerati urbani del sud del mondo dove si concentrano tutti i problemi dello sviluppo e del sottosviluppo dell’intero paese, non è difficile immaginarne la complessità e l’urgenza nello stesso tempo del lavoro da compiere; un lavoro non impossibile, ma certamente molto esigente e cruciale anche e soprattutto nelle terre una volta dette di missione. Lo diceva già una quindicina d’anni fa Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (37b): «Oggi l’immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la “scelta degli ultimi” deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire. un’umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città».

In Africa, in Asia e in America latina il problema dell’urbanesimo e della concentrazione della popolazione nelle città sta diventando una sfida pastorale inevitabile che richiede di essere urgentemente presa in considerazione con nuovi metodi e soprattutto con persone nuove. Quando si visitano città come Sâo Paulo del Brasile, Città del Messico, Lagos, Nairobi, Giacarta, Manila, Hong Kong non si può sfuggire all’impatto con la loro cruda realtà. Sono città che riproducono l’immagine stessa del mondo della globalizzazione: un centro luminoso, slanciato, tecnologicamente all’avanguardia, pulito e accogliente, simboleggiato da uno skyline di grattacieli, degno delle metropoli americane, ma poi, andando dal centro verso la periferia, si nota un progressivo degrado sociale e logistico che costringe ad aprire gli occhi su una realtà di disoccupazione, affollamento, povertà, insalubrità e assenza di governo, che è esattamente e simmetricamente il contrario di quello che si vede al centro. I quartieri periferici, in continua inarrestabile espansione, accolgono una folla anonima, indistinta, abbandonata a se stessa, che fornisce la manodopera alla città, ma che ne assorbe anche tutte le tensioni e le contraddizioni.

 

È FINITA UN’EPOCA

DELLA MISSIONE

 

La gente delle periferie è necessaria e funzionale alla crescita industriale ed economica della città, ma vive nella città in modo sradicato. Essa sente acutamente, più acutamente degli altri, il disagio della vita urbana e il contrasto con la zona di provenienza. Un contrasto lacerante: là viveva ancora al ritmo delle stagioni e, pur nella povertà, conservava ancora la sua dignità, custodiva e coltivava i valori culturali, umani e cristiani che poteva ancora insegnare e trasmettere alle nuove generazioni. Così è stato per molto tempo ed è ancora in tante parti del mondo legato alla missione ad gentes. Soprattutto così è stato e continua ad essere nella testa di tanti missionari i quali, non me ne vogliano, perché missionario sono anch’io, vanno in missione per ritrovare, inconsciamente, quel mondo che non trovano più nelle loro terre. Si dice che i missionari in Africa soffrono del mal d’Africa. È vero: è difficile che i missionari si riaccasino in Europa dopo aver speso qualche anno in Africa. Si sa quanto essi insistono per rientrare in missione, perché – dicono – non riescono più ad adattarsi alla realtà di casa loro. Questo a ben vedere, e salvo sempre qualche eccezione, avviene perché non riescono ad accettare la nuova situazione della pastorale delle loro zone d’origine. Si sentono, se non proprio stranieri in casa propria, quanto meno estranei alla nuova situazione.

Oggi nella nuova situazione urbana tutto è messo in discussione e quindi in crisi, e tutto sembra cambiato: la gioventù è affascinata e sedotta dalle luci della città e dagli specchietti della cultura della globalizzazione che vede imperante al centro delle città. La saggezza degli anziani non riesce a farsi ascoltare. Un vuoto si crea nelle nuove generazioni riempito da valori che vengono da fuori, superficiali ed effimeri: sono i nuovi idoli della città che per i giovani funzionano da droga alienante e da diversivo pericoloso che sbocca quasi sempre nella violenza.

È ben comprensibile che il missionario, abituato a una pastorale rurale, trovi difficile lavorare nell’ambiente urbano. Tra i missionari se ne trovano pochi che accettano di lavorare in città, mentre sono pronti per le zone interne del paese. Poco importa se all’interno non c’è né la televisione né altre comodità ormai consuete, se il telefono non ha campo per ricevere le comunicazioni. «Si sta così bene in brousse» – dicono i missionari classici.

Questo genere classico di missione non solo è destinato a finire, ma già adesso non ha più futuro, perché non ha più una grande incidenza nella coscienza della gente. La città, pur lontana e poco amata, sta corrodendo la cultura rurale, la gioventù non resta facilmente all’interno, cerca la città dove, se non trova lavoro, trova tuttavia quella libertà che ha sbirciato e sognato guardando la televisione nel bar o nella casa di qualche fortunato compaesano. Le scuole superiori sono in città, le università e gli ospedali pure: come è possibile costruire il futuro nella brousse? È vero che la cultura originaria non viene cancellata dalla coscienza della gente: per certi avvenimenti i cittadini, sia i politici che gli intellettuali, ritorneranno sempre al villaggio! Ma ormai la generazione presente e certamente la prossima è rivolta alla città.

 

LA CHIESA RISCHIA

DI ESSERE IN RITARDO

 

Tutto questo insieme di attrazione e di paura, proprio delle città del terzo mondo, domanderebbe una riflessione e un impegno della Chiesa, la quale tuttavia, per un’innata lentezza, che quasi ovunque la caratterizza, non ha saputo né prevedere questi problemi né sembra capace di affrontarli efficacemente. Se li trova davanti senza essere in grado di elaborare un progetto globale e preciso d’intervento pastorale. Non è suo compito trattenere la gente nella brousse e, anche lo volesse, non saprebbe come fare. Ma sarebbe suo compito prevedere qualche luogo di preghiera e di riunione per la comunità cristiane e acquistarlo a tempo. È raro invece incontrare un vescovo africano che si preoccupi di sapere dove va lo sviluppo della città e anticipi la tendenza urbanistica acquistando il terreno per il futuro centro pastorale, se non proprio per una parrocchia. Così quando la Chiesa arriva, trova che tutto è nelle mani di speculatori che hanno approfittato della situazione o che hanno chiesto o imposto una lottizzazione selvaggia del terreno, senza prevederne alcuno per una cappella o per un centro pastorale, per una scuola o un dispensario. Ma anche gli istituti missionari e religiosi non hanno finora dato prova di grande coraggio e creatività in questo campo. Ci sono stati dei momenti in cui si è parlato molto di inserimento negli ambienti popolari, ma sembra ormai un discorso molto lontano nel tempo, cancellato dalla polemica sulla teologia della liberazione.

NON BASTANO QUA E LÀ

PRESENZE PROFETICHE

In queste condizioni ci sono state, e ci sono anche oggi, delle presenze profetiche di religiosi e missionari nella linea dell’opzione preferenziale per i poveri. Ma sono scelte troppo personali per offrire cammini di pastorale urbana per tutti. Stabilirsi in questo modo in queste periferie è certo un modo di presenza molto evangelico, che s’avvicina all’eroismo, ammirato da tutti (o quasi…), ma che non risolve i problemi di una pastorale adatta a questa nuova situazione. Perché non si dovrebbe riflettere insieme a livello di istituto religioso e a livello di consiglio presbiterale, o meglio pastorale, per individuare dei cammini elementari e condivisi per l’evangelizzazione della città?

La prospettiva di un’ulteriore dilatarsi degli agglomerati urbani del sud del mondo dovrebbe farci sentire l’urgenza di elaborare una nuova strategia pastorale. L’improvvisazione e gli espedienti suggeriti dalla situazione contingente non sono sempre espressione di fede e di fiducia nella Provvidenza. Non si può rischiare di rimanere assenti da questa nuova realtà.

Bisogna quindi prevedere non solo dei luoghi di preghiera e di raduno per la comunità cristiana, ma soprattutto nuovi metodi per accostare la gente che arriva in città come in un deserto e non viene subito e sempre a presentarsi alla comunità cristiana. Bisogna pensare nuovi ministeri non ordinati adatti alla nuova situazione, delle équipes pastorali duttili e sciolte per entrare in queste nuove situazioni senza troppi intralci canonici o istituzionali (confini di parrocchie e gelosie di competenza pastorale)!

Tutto questo dovrebbe essere oggetto della programmazione pastorale delle diocesi oggi. Purtroppo non è così. Troppo spesso gli argomenti affrontati nei consigli presbiterali di troppe giovani chiese del terzo mondo ruotano attorno ai soliti problemi del narcisismo clericale: il sostentamento del clero, lo stipendio delle messe, i mezzi di trasporto, le strutture logistiche per il clero e, quando riescono ad andare un po’ più in là, arrivano a fissare l’età in cui dare i sacramenti ai fanciulli o a determinare il modo di rifiutare i sacramenti… C’è da morire di asfissia!

 

UNA NUOVA MENTALITÀ

E UNA PASTORALE NUOVA

 

Assumere una nuova mentalità adatta alla pastorale dei centri urbani non sarà un lavoro facile. Probabilmente una generazione deve scomparire, quella che ha praticato la missione “tradizionale”. Molti operatori pastorali che hanno sempre lavorato nel contesto rurale delle diocesi oppure anche nelle città, ma con una pastorale centrata sulle parrocchie, una pastorale cioè di conservazione, faranno molta fatica a riadattarsi a una nuova pastorale urbana, ad avere delle comunità elastiche, che nascono e si trasformano nell’arco di una generazione. Chi è abituato alla parrocchia europea, anche urbana, ma gestita alla maniera antica, sarà bene che non s’imbarchi in questa nuova pastorale; farebbe una fatica cane, senza riuscire a trovare la formula adatta.

Bisogna creare una nuova mentalità, che nuova in realtà non sarebbe, perché è quella del Vangelo, del pastore che va alla ricerca delle sue pecore, che non le attende all’ovile, ma che non ha con sé, come nella parabola di Luca, le novantanove, ma una sola pecora, mentre le altre sono disperse (non necessariamente perdute!) nelle Cohabi di una città come Sâo Paulo o nelle città satelliti di Manila o nelle interminabili e sconosciute periferie di Lagos o di Nairobi!

La nuova pastorale sarà quella della ricerca e dell’accoglienza, sarà quella dell’invio di laici impegnati e appositamente preparati per accogliere e raccogliere questi nuovi membri della comunità cristiana; sarà una pastorale che risponde ai tempi reali della gente che lavora in città e che rientra solo per mangiare e riposare. Bisognerà praticare spesso una pastorale traversale e quindi d’insieme per rispondere alle nuove categorie della popolazione secondo i loro interessi e le loro condizioni. Insomma è tempo di fantasia pastorale non di ripetizione di sistemi d’altri tempi e d’altri luoghi.

 

Siamo certo di fronte a una sfida inedita per la missione e per i suoi operatori. Sapremo raccoglierla? In questi ultimi tempi la missione ha messo l’accento, giustamente e opportunamente, sull’opzione preferenziale per i poveri, sull’impegno per la giustizia e la pace e sull’inculturazione. Era necessario e continua a esserlo. Non si tratta di chiudere questi capitoli come fossero “missione compiuta”. Oggi tuttavia la previsione dell’ONU circa l’urbanizzazione nelle zone del sud è un invito alla Chiesa e agli istituti religiosi e missionari a prendere in considerazione questo nuovo campo, questo areopago dove annunciare Cristo con metodi nuovi, con contenuti appropriati e soprattutto con personale rinnovato. Questa è la nuova evangelizzazione. Riusciremo finalmente a mettere in campo qualche cosa di appropriato?

 

Gabriele Ferrari s.x.


DARFUR TRAGEDIA INIMMAGINABILE

 

«Si tratta della più drammatica corsa contro il tempo che ci sia attualmente nel mondo. Se la perdiamo, centinaia di migliaia di persone, in gran parte donne e bambini, periranno». A lanciare l’allarme è Jan Egeland, sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’ONU, e assieme a lei anche Clemens von Heimendahl, responsabile della Croce Rossa tedesca il quale aggiunge: «Siamo in presenza di una tragedia inimmaginabile. I villaggi sono distrutti e incendiati, la gente uccisa come in un mattatoio, gli ospedali rasi al suolo e le infrastrutture in gran parte distrutte».

 

Non si sta parlando dell’Iraq, il cui dramma è sotto gli occhi del mondo intero, ma del Darfur (508.684 kmq e con una popolazione stimata tra i 4 e i 5 milioni di abitanti), territorio sudanese, sconosciuto alla grande maggioranza, situato a circa 800 chilometri a ovest di Khartoum, ai confini con il Ciad, dove dal febbraio 2003 è in atto una ribellione contro il governo centrale.

Ad attizzare la ribellione sono due fazioni: l’esercito di liberazione sudanese (SLA) e il movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM) che rimproverano al governo di Khartoum di disinteressarsi economicamente della loro regione. Il conflitto ha già provocato 30.000 morti di cui 10.000 negli ultimi sedici mesi, 800.000 sfollati, mentre circa due milioni di persone sono minacciate dalla carestia. Tutto ciò nonostante gli accordi firmati lo scorso 8 aprile per un cessate il fuoco.

Il 26 maggio scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato una dichiarazione in cui «esprime la sua grave preoccupazione per il deterioramento della situazione umanitaria e i diritti umani nella regione sudanese del Darfur», e condanna gli attacchi contro i civili, le violenze sessuali, gli sfollamenti forzati e ha stigmatizzato «gli atti di violenza alla cui base c’è un carattere etnico».

In quindici mesi, scrive il quotidiano francese la Croix (2 giugno 2004), almeno un milione di persone originarie del Darfur hanno abbandonato i loro villaggi, non solo per fuggire dalle zone di guerra, ma soprattutto per cercare di sottrarsi alle estorsioni degli “uomini a cavallo”, i cosiddetti Jenjaweed, che sono sostenuti dal governo di Khartoum. Questi sgherri bruciano, saccheggiano sistematicamente i villaggi, violano le donne, portano via i fanciulli attuando una politica di terrore e di terra bruciata, costringendo la gente  a una fuga sconvolgente. La maggior parte di coloro che sono riusciti a fuggire sono partiti senza niente, senza viveri, vestiti, coperte né utensili da cucina. La grande maggioranza è costituita da donne, bambini e anziani.

Gli uomini invece vengono uccisi mentre tentano di coprire la fuga delle loro famiglie oppure sono tentati di raggiungere i due movimenti della ribellione.

In base alle stime dell’ONU, attualmente il numero delle persone che mancano di tutto sono due milioni. Secondo l’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati, da cento a duecento mila sono fuggiti nel Ciad, 75.000 dei quali raccolti in sette campi profughi.

La gente, spiega Mercedes Tatay, responsabile aggiunta delle urgenze dei “Medici senza frontiere”, vive in uno stato di debolezza che si aggrava di giorno in giorno.

Il tasso di denutrizione aumenta pericolosamente.

Un quarto dei bambini al di sotto dei cinque anni sono malnutriti. Con l’arrivo delle piogge la gente va a bere agli uadi (letti fluviali dove l’acqua scorre solo in occasione delle piogge), provocando diarree mentre nel frattempo ha fatto la sua comparsa anche il paludismo. Afferma Mercedes Tatay: «È lo scenario più terribile che io abbia mai visto».

Gli aiuti umanitari stentano ad arrivare. Perché tanto ritardo? La ragione è semplice: Khartoum ha per lungo tempo frenato la consegna dei visti e dei permessi di viaggio all’interno del paese. Inoltre la gestione dei campi degli sfollati – persone che fuggono ma che restano all’interno dei confini – dal punto di vista amministrativo è più complessa di quella dei campi profughi affidati all’Alto commissariato dell’ONU. Per gli sfollati è l’autorità del paese che deve occuparsi delle popolazioni civili, o decidere di delegare a delle grandi organizzazioni dell’ONU o alle Ong la gestione dei campi.

Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati alla frontiera con il Ciad, almeno 125.000 sono senza assistenza. La maggior parte dei campi affidati all’Alto commissariato dell’ONU sono sovraffollati e decine di migliaia di altri rifugiati si insediano nelle vicinanze nella speranza di essere registrati e di ricevere i kits necessari per l’installazione e la razione di nutrimento. Ma la mancanza di acqua e di viveri si fa sentire. Inoltre, con l’arrivo delle piogge, alcuni campi, come Goz Amer o Esterna non saranno più raggiungibili. Solo gli elicotteri o gli aerei potranno assicurare i rifornimenti.

L’accordo del cessate il fuoco, firmato l’8 aprile scorso, rimane molto fragile e precario. Il conflitto in questa regione sta già attirando gruppi di ribelli provenienti dal sud. Nel frattempo, a est presso la frontiera con l’Eritrea si sta accendendo un’altra rivolta dei ribelli Beja che anch’essi rimproverano a Khartoum di non sostenere economicamente la loro regione.

Osservatori internazionale intanto sono stati inviati nel Darfur per verificare da vicino la situazione e cercare possibili vie di uscita. È un piccolo segno di speranza che si accende anche se tutto rimane per ora nell’incerto.

Un altro segno di speranza è legato alle sorti delle regioni meridionali del Sudan dove dal 1983 infuria ininterrottamente una guerra con il governo centrale dal 1983 che ha provocato un milione e mezzo di vittime e più di quattro milioni di sfollati.

Il 26 maggio scorso infatti sono stati firmati tre protocolli di accordo tra il governo centrale e il movimento armato popolare di liberazione del Sudan (SPLA), riguardanti la divisione dei poteri e il controllo delle tre regioni disputate al centro del paese: quella dei monti Nuba, del Nilo blu occidentale e dell’Abyei, ricca di petrolio.

Il compromesso raggiunto prevede il passaggio del 55% di questi territori alle autorità di Khartoum e il 45% ai ribelli del sud. Da parte sua l’SPLA ottiene la garanzia che la legge islamica, in vigore nel nord musulmano non si applicherà ai non musulmani. Gli aspetti tecnici del cessate il fuoco dovrebbero essere perfezionati entro la fine di giugno e l’inizio di luglio. Si sa tuttavia per lunga esperienza che gli accordi che vengono firmati in queste regioni del mondo, come anche nella zona dei Grandi Laghi, sono molto precari e tutto potrebbe ben presto tornare come prima.


LA VITA CONSACRATA OGGI

SPUNTI DI RINNOVAMENTO

 

Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e questa nostra gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la speranza. Anzi leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso, dando una forma al loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti e dalle delusioni.

 

Più volte si è parlato in questi ultimi tempi, in coincidenza con la nuova configurazione che il nostro continente europeo sta assumendo, del ruolo che la vita consacrata è chiamata a esercitare. Qualche accenno su questo argomento si trova anche nell’esortazione postsinodale Ecclesia in Europa (28 giugno 2003) dove si parla appunto della “testimonianza dei consacrati” (37-38), ma il testo non va oltre ad alcuni semplici vaghi enunciati. Il discorso quindi va ripreso e approfondito.

Affrontando questo argomento, p. Bruno Secondin, in un recente intervento, osserva che «di grandi e mirabili teorie la vita consacrata non manca oggi: mancano piuttosto i percorsi reali e credibili di una nuova prassi, in grado di garantire una ortoprassi feconda alle magnifiche ortodossie. Per questo forse servono meno le grandi schematizzazioni, e giovano piuttosto certi spunti biblici che aprono squarci imprevisti e significativi».

E lo spunto biblico da cui parte è l’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli al capitolo 16 dove è descritta la prima avventura europea di Paolo, e trova qui la fonte per sviluppare alcune indicazioni circa una significativa presenza della vita consacrata nel nuovo contesto europeo.

Si domanda: «cosa insegna l’episodio di Filippi?».

Un rischio e una incognita, osserva, erano per Paolo evidenti: la cultura europea e latina erano a lui sconosciute. Ma quando si rende conto che è la mano misteriosa di Dio che gli taglia le altre strade, accetta il rischio e si mette in gioco con intelligenza. Indica per tutti noi che certe situazioni difficili e rischiose possono farci paura, ma se sappiamo leggerle come segni di chiara volontà di Dio, bisogna aderire e mettersi in gioco da protagonisti, senza remore. Anche un sogno può essere un segnale, se siamo disponibili e intuitivi.

La mancanza di sinagoga pubblica costringe Paolo e compagni a escogitare soluzioni più fragili, in alternativa. E di fatto proprio lungo il fiume incontrano delle donne riunite per onorare Dio di sabato. Fuori dai segni sacri, in un ambiente povero e quasi generico, sanno mettersi in gioco come annunciatori della parola del Signore. Seminano con disponibilità e semplicità: e nasce la prima comunità cristiana.

Anche il Signore semina di sabato con loro: egli “apre il cuore di Lidia per aderire alle parole di Paolo”. Non sono tanto le parole di Paolo a far aderire alla fede, ma la grazia del Signore. L’affermazione non solo segnala il buon esito, ma anche insegna che in ogni caso solo se il Signore accompagna le nostre attività di annuncio e di dialogo, esse hanno l’effetto giusto.

È coinvolta l’intera famiglia: ciò indica familiari e parentela, servi e domestici. Segnala il radicarsi della comunità cristiana in un contesto dalle basi familiari solide. Sono proprio queste “famiglie” locali uno strumento fondamentale dell’ evangelizzazione e del rafforzamento della comunità dei credenti nell’Europa di allora.

 

ALLA RICERCA

DI MOTIVAZIONI

 

Proviamo ad applicare, con un po’ d’ immaginazione e qualche sapore di provocazione, scrive Bruno Secondin, questa storia alla nostra stessa ricerca di motivazioni sostanziose e stimolanti. Sarà una teologia narrativa, non puramente una lista di affermazioni teoriche, anche se ci esprimeremo in modo sintetico e con qualche battuta pungente. Ma lo facciamo per passione e amore per questa vocazione.

 

Non fare esercizi di sopravvivenza

 

Come succedeva per Paolo che voleva semplicemente ritornare a visitare le comunità fondate nel primo giro missionario. L’intenzione era buona, ma forse copriva la mancanza di coraggio e di nuova iniziativa: e per questo lo Spirito intralciava la fuga per la tangente. Come anche sembra intralciare tante nostre iniziative di apostolato e di animazione vocazionale: ci mettiamo tutte le forze, ma vediamo che i risultati sono scarsi, che finiamo sempre in sabbie mobili.

Ammodernare giudiziosamente le case, studiare il carisma fin nei minimi dettagli, elaborare testi di programmazione sempre più distillati, entrare nel web per diffondere il nostro marchio, rincorrere beatificazioni con sforzi immani (anche economici), riciclare ad ogni costo con stages culturali anche le zucche di chi ha voglia solo di defilarsi e star tranquillo, ecc. Sono tutti segnali di un girovagare per una strada che porta fuori, che va a chiudersi in una specie di cul de sac, senza uscita.

 

Il carisma una risorsa da non sprecare

 

Il carisma appartiene alla ragione simbolica, parabolica e carismatica, e la sua routinizzazione strumentale e funzionale è sicura via di sterilità e di confusione. Bisogna reinventare queste qualità preziose – simbolica, parabolica, carismatica – radicando nella fede il senso della nostra vita. Qui è il nucleo del problema: lo smottamento della fede come ragione vitale e fuoco divorante, per farla diventare quasi pura affermazione dottrinale o consumo rapido e bulimico di gesti sacri confezionati e standardizzati.

Abbiamo smarrito l’intelligenza del cuore, il soffio vitale che è quell’appello amoroso che ci aveva fatto partire: la nostra vocazione deve ritrovare la bellezza interiore di una vocazione ecclesiale che non si rigira su se stessa ossessivamente. Ci mancano cuori pensanti e cuori amanti che sappiano superare la tentazione dell’hybris esibita spudoratamente: le attività frenetiche, gli slogan taumaturgici per incidere in una società dai messaggi ingorgati e fosforescenti, il presenzialismo fine a se stesso e non orientato ai valori centrali del Vangelo e della chiesa.

 

Ritrovare la funzione simbolica, critica, trasformatrice

 

Così aveva definito la funzione della vita consacrata l’ Instrumentum laboris (n. 9) del sinodo del 1994. Non possiamo limitarci a pizzicare là dove le sporgenze di fragilità rendono ricattabile la nostra società e la cultura, specie quella giovanile. Ma dobbiamo immergerci con tutte le risorse nella navigazione incerta e agitata verso altre rive. Le derive contemporanee abbondano, non è lasciandoci anche noi portare alla deriva che facciamo compagnia e comunione con i naufraghi.

Dobbiamo saper passare dalla frammentarietà alla convergenza, dalla preoccupazione per la nostra organizzazione alla re-invenzione di una contestazione evangelica che sembra smarrita e diluita; dalla golosità diffusa e trend per ogni brillio di esperienza sopra il normale e luccicante, alla luminosità di una vita trasformata e trasfigurata da una presenza misteriosa ma personale e non vaga. Se la nostra stessa vita non è icona ed esegesi di una trasformazione liberatrice e guaritrice, se noi stessi siamo schiavi delle idolatrie del pantheon postmoderno, come potremo proporci agli altri per un progetto di vita che non risponde al bisogno così marcato di trasparenza e di luminosità?

 

Ritrovare l’intelligenza del cuore

 

Il testo degli Atti dice che è stato il Signore ad aprire il cuore a Lidia per aderire alle parole di Paolo La fede non è un fai-da-te da acquistare al supermarket del politeismo contemporaneo: è un rischio e una avventura, una notte stellata e un travaglio doloroso, è logos e pathos, conoscenza logica e conoscenza simbolica in armonia. “Con ogni cura vigila sul tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (Pr 4,23). Questo vuol dire dare il primato alla persona e non alla struttura, suscitare passione e avventura e non sottomissione e dipendenza, liberare la fedeltà creativa e non imbalsamare gli ardori in sofisticati congegni spersonalizzanti, come sono tante volte le cariche e le responsabilità negli istituti.

Senza una fede pensante e amante, audace e paziente, intuitiva e non intimorita della vulnerabilità, nulla ha senso nella nostra vita. Io ho l’impressione che proprio il debilitamento della nostra fede – opacizzata dalle frustrazioni e dalle delusioni in molti campi, quello della chiesa e delle sue priorità compreso – sia un grave problema oggi. Diciamo di avere fede, proclamiamo la fede, ma non la si vede voi operativa nell’audacia e nella semplicità dei mezzi e dei risultati, nella parresia di andare contro corrente, nella disponibilità a vivere anche le vertigini di relazioni che esigono maturità ma anche rischio, libertà ma anche passione, bende per le ferite ma anche profumi odorosi.

 

Potenziare il tasso di profezia della nostra missione

 

Come sappiamo, la profezia nasce dall’ascolto orante e disponibile della Parola, ma anche dal confronto fra la Parola e le sfide e le angosce dei contemporanei (VC 94). Far dialogare questi due ambiti, in modo da assumere davvero i sentimenti di Cristo nel senso più intimo e conformativo; ma anche imparare “l’arte di cercare i segni di Dio nella realtà del mondo” (VC 68). Oggi profezia può avere molti percorsi pratici, al di là dei variegati discorsi teorici.

È profezia credere che da qualche parte ci sono segni di incontro e di fede, anche se all’apparenza non se ne vedono, come succedeva per Paolo a Filippi. È profezia intuire i cuori assetati di verità e di novità anche se non sono i nostri normali interlocutori, anche se parliamo sedendoci a cerchio e non ex cathedra. È profezia e intuizione da sviluppare una nuova vicinanza con i laici non in maniera accomodatizia, ma investendo sulla loro fede matura, la loro capacità di fare “convocazione”, di rivitalizzare valori e stili di vita che noi abbiamo devitalizzato dentro un sistema sacro. Tante volte manchiamo di questa “presa a terra” nei nostri sistemi e progetti: tiriamo i fili di una elettricità ad alto voltaggio, ma puramente aerea: poi scendendo al pratico facciamo corto circuito, s’inceppa tutto. Black out!

 

Lasciarci costringere a cambiare schema

 

Siamo ancora troppo paurosi di lasciare la via nota e sacralizzata per nuove forme di convivenza e di servizio, di linguaggi e di orizzonti. Eppure proprio in VC noi troviamo nel terzo capitolo una dozzina di paragrafi dedicati al tema a “una testimonianza profetica di fronte alle grandi sfide” (84-95). In essi appaiono con sorpresa, non del tutto ancora esplicitata dai commentari, i temi classici della vita consacrata: i voti, la vita comunitaria, la preghiera, la meditazione della Parola. E sono preceduti da quattro paragrafi ancor più provocatori: due dedicati alla dimensione profetica, uno al martirio e uno al significato antropologico e terapeutico della vita consacrata. Il papa completa in questa parte una (forse) eccessiva concentrazione teologale della prima parte: indicando come anche settori così classicamente intimistici e spirituali, devono invece avere una stretta correlazione con la storia e le sue sfide, con le idolatrie e le angustie dei contemporanei.

Finché non riusciamo a dare forma vera e sistematica a queste suggestioni, i nostri grandi valori di vita e di identità resteranno sopratemporali, vaghi ideali, oppure ossessiva e nevrotica miniaturizzazione dell’anima. Non possiamo essere i bonsai del Vangelo; non possiamo semplicemente fare i venditori di pane già confezionato. Dobbiamo essere il lievito che davvero fermenta la pasta e rende il pane “sollevato”. Ma per riuscirci bisogna cambiare schema di priorità e di prospettive: quello che in fondo vuole imprimere nella nostra mente e nelle nostre prassi il documento di base del prossimo congresso sulla vita consacrata (2004).

 

Leggere e organizzare i segni di speranza

 

L’avventura europea di Paolo era cominciata bene ma presto è finita male, tanto che lui stesso qualche tempo dopo la ricorderà come un «aver sofferto e subito oltraggi a Filippi» (1Tes 2,1). Eppure non si è scoraggiato, ha proseguito verso altre città ancor più difficili sul piano religioso e culturale, fino ad arrivare all’areopago di Atene, dove pure non ebbe gran fortuna. Ma di Filippi Paolo conserverà, come ho detto, una grande nostalgia e verso quella fragile comunità rivolgerà spesso consigli e preoccupazioni. Egli non ha identificato il fallimento iniziale con tutto ciò che poteva essere Filippi. Ha creduto in altre risorse, ha incoraggiato altre stagioni meno dolorose: ha dato consigli ma anche ha donato col suo affetto un segno altissimo della fede comune: l’inno cristologico.

Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e questa nostra gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la speranza. Anzi leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso (NMI 58), dando una forma al loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti e dalle delusioni. La vita religiosa sembra troppo ripiegata su se stessa, sulle sue ferite e scottature, e avere perso la fantasia e l’immaginazione. Proprio ora che le nuove situazioni sociali alla deriva globale avrebbero bisogno di interpreti intelligenti e di compagni affidabili nel passare il guado così turbolento. Di solito non ci muoviamo se non con i piedi di piombo, se non là dove tocchiamo il fondo, guardinghi e pavidi. Lo statuto della profezia e della sapienza che alimentava la vita nostra sembra svanito: non ci sarà alcuna grande storia (cf. VC 110) se continuiamo a nasconderci nei nostri cespugli.

Dobbiamo abitare gli orizzonti, senza pretendere di muoverci solo quando avremo in mano una topografia dettagliata e garantita. Non hanno preteso questo i nostri fondatori: hanno vissuto la libertà con slancio, la immaginazione istituzionale fuori dagli schemi, la passione per l’umanità con immediatezza e quasi istintività.

Quella istintività che VC chiama una sorta di istinto soprannaturale (VC 94): frutto di una adesione di fede al Signore con cuore docile e orante, ma anche con la passione del Signore stesso per nuovi cieli e nuova terra. Bisogna saper assecondare quella “novità assoluta” che Dio stesso offre e impone con la sua presenza, come canta l’Apocalisse letta nelle domeniche del tempo pasquale.

 

B. S.

 


AL CROCEVIA DEL TERZO MILLENNIO

LA NUOVA VITA COMUNITARIA

 

A 40 anni dal concilio è possibile cogliere le novità dello stile di vita che è andato affermandosi. Esso poggia su tre colonne fondamentali: le relazioni personali di “amicizia nel Signore” (koinonia, carisma, diaconia) in vista della missione evangelizzatrice o servizio apostolico (kerigma) e la vicinanza ai poveri.

 

La comunità è il volto interiore della vita religiosa. Entrando in una di esse si percepisce subito il tipo di rapporti che esiste tra i membri: se sono cordiali, di amicizia e fiducia, di spontaneità e gioia oppure solo di rispetto, cortesia e circospezione. I giovani sono particolarmente sensibili a questo. Molte case di formazione sono il luogo dove si trova un ambiente sereno e accogliente e chi vi entra si sente “a casa”, senza bisogno di protocolli né formalismi. E si trovano anche numerose le comunità di religiosi/e adulti che sono già entrate nel nuovo stile e hanno saputo conservare gli elementi essenziali e nello stesso tempo sono state capaci di adattarsi alle esigenze del nostro tempo.

Facendo il paragone tra lo stile di vita comunitaria precedente al concilio con quello nuovo che si cerca ovunque di promuovere si nota un forte contrasto: da un tipo di comunità basato sull’osservanza regolare si è passati a comunità centrate sui rapporti personali di amicizia nel Signore, anche se i valori essenziali sono rimasti i medesimi.

Padre Carlos Palmés, parlando di questo problema, ossia della nuova vita comunitaria, nel contesto di un discorso più ampio riguardante la vita religiosa al crocevia del terzo millennio,1 ha cura di descrivere dettagliatamente questi elementi essenziali, in se stessi irrinunciabili, al di là dello scorrere dei tempi, per giungere poi a delineare il nuovo stile di vita comunitaria che deve caratterizzare oggi la vita religiosa.

 

ELEMENTI

ESSENZIALI IRRINUNCIABILI

 

Gli elementi essenziali comuni che si trovano alla base delle varie forme di comunità, riscontrabili a partire dal secolo IV fino ai nostri giorni sono: l’amore a Cristo come centro e motivazione dello stare insieme, il radicalismo, il distacco e l’amore fraterno.

Anzitutto la scelta di Cristo come centro e motivazione della vita comune. I cenobiti furono affascinati dalla vita di Cristo e sentirono il bisogno di giungere a una vita che assomigliasse il più possibile alla sua. Volevano vivere l’obbedienza perfetta ai comandamenti di Dio e in particolare il grande comandamento dell’amore a Dio e al prossimo… la preghiera continua e l’incessante studio della parola di Dio, ciò che connota profondamente la loro koinonia è il teocentrismo, il culto dell’assoluto di Dio. La ricerca di Dio come l’”unico necessario”.

La comunità religiosa è un evento di fede; senza di essa sarebbe una follia. Naturalmente oltre alla fede entrano in gioco anche altri elementi umani come l’affinità dei caratteri e delle idee, i costumi e le culture che cooperano a rendere più facile e gradevole la convivenza; ma, osserva p. Palmés, non sono la motivazione definitiva. Ciò che sta più in profondità è la vocazione a cui il Signore ci ha chiamato, fondata sulla comunione di uno stesso ideale evangelico.

Per il resto il monaco non ha alcuna pretesa di essere diverso dal resto dei cristiani. Desidera solo vivere più intensamente e in maniera più continua e percepibile questa koinonia. È una comunione che viene da Dio (cf. 2Cor 5,19), poiché è lui la fonte e la pietra angolare della comunione.

Il secondo aspetto è il radicalismo delle sequela, anch’esso costante e irrinunciabile. Esso esige come presupposto il distacco da tutto. L’evangelista Luca mette chiaramente in luce la stretta unione che esiste tra l’adesione incondizionata alla persona di Cristo e il fatto di “lasciare tutto”(Lc 5,11-28; 14,33) per farne dono ai poveri. È un radicalismo che si esprime in modo evidente nel lasciare tutti i propri beni e nel mettere tutto in comune.

Ora, la rinuncia alla proprietà privata per mettere tutto in comune si è sempre conservata come un elemento insostituibile della vita consacrata. Ciò evita le divisioni e i confronti tipici della società per realizzare invece un modo di vivere evangelico in cui non c’è nessuno escluso, dove tutti hanno i medesimi diritti e gli stessi doveri, in cui non ci sono né ricchi né poveri.

Questo ideale sfocia poi nel terzo aspetto caratteristico della vita religiosa che è l’amore fraterno, secondo il comandamento di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri”. Da una vita comune di fede e di donazione a Dio, come unico assoluto, dal distacco da ogni cosa e da se stessi, scaturisce spontaneamente l’amore al fratello. Il rapporto con l’altro stabilisce una reciprocità affettiva. Siamo in presenza di una specie di miracolo morale che mostra chiaramente il vero discepolo di Cristo. In un mondo di guerre, di discordie, di odio, di divisioni, di materialismo, di postmodernismo e neoliberalismo… basati su un grossolano egoismo, è una testimonianza spettacolare trovare gruppi di uomini e di donne che, uscendo dai propri interessi, vivono per gli altri e fanno esclamare a coloro che li conoscono “vedete come si amano”.

Si tratta comunque di un distacco più difficile che non quello dai beni materiali poiché tocca gli aspetti più profondi della persona: i suoi criteri, gli atteggiamenti e i sentimenti… e suppone un amore più limpido e profondo.

Tutti e tre questi elementi, sottolinea p. Palmés, sono stati vissuti a partire dal momento in cui nacque il cenobitismo fino ai nostri giorni. A soffrirne di più tuttavia è stato il terzo, quello dell’amore fraterno, poiché la koinonia è molto influenzata dalle circostanze dei tempi, dalla cultura, dal luogo, società e costumi, ecc. Stili di comunità che in altri tempi erano espressione di amore fraterno, forse oggi non lo sono più. Ai nostri giorni ci vogliono dei segni più chiari e autentici espressi in un linguaggio comprensibile alla nostra società. Non basta infatti ripetere le forme che erano in vigore in un altro tempo.

Sarebbe ora lungo e persino superfluo ripercorrere le varie fasi della storia, a partire da Pacomio, Basilio, Agostino, Benedetto attraverso gli ordini mendicanti, e successivamente i cambiamenti intervenuti nel secolo XVI quando viene posto al centro non più l’osservanza regolare ma la missione, fino alla prima metà del secolo scorso appena finito. Alla vigilia del concilio Vaticano II quando il modello vigente in tutti gli istituti era quello dell’uniformità. Nella società stava intanto avanzando una realtà nuova: democrazia, mezzi di comunicazione sociale, neoliberalismo, postmodernismo, rapporti umani più liberi e di vicinanza, movimenti popolari, affermazione dei diritti umani, ecc. Contemporaneamente nella Chiesa, “popolo di Dio”, si è andato affermando il valore della persona, si sono sviluppate nuove forme di comunità, è cresciuto il desiderio di una maggior partecipazione, assieme ad altri fenomeni come una liturgia più aperta, la coscienza attiva dei laici, la perdita allarmante delle vocazioni religiose e la diminuzione di quelle nuove…

Tutti questi cambiamenti hanno sconcertato i religiosi/e provocando una crisi di identità. Era necessario un cambiamento, che non poteva essere solo di superficie e di abbellimento. Nasce e si afferma così un nuovo stile di vita comunitaria. Furono compiute numerose esperienze, a volte anche fuori strada o esagerate. La grande novità fu la comparsa di “piccole comunità” che si diffusero un po’ dovunque, caratterizzate dallo spostamento dalla centralità dell’osservanza alle relazioni personali come nuovo asse della vita comunitaria.

 

TRE NUOVE

COLONNE

 

A distanza di 40 anni dal concilio è ora possibile cogliere le novità dello stile di vita che è andato affermandosi. Si è tornati a guardare alla comunità di Gerusalemme di cui parlano gli Atti e alla prima intuizione espressa da san Basilio: «amarsi veramente gli uni gli altri». Ma come realizzare oggi concretamente questo ideale?

Secondo padre Palmés, questo stile di vita comunitaria poggia su tre colonne fondamentali: le relazioni personali di “amicizia nel Signore” (koinonia, carisma, diaconia) in vista della missione evangelizzatrice o servizio apostolico (kerigma) e la vicinanza ai poveri.

I primi due aspetti sono essenziali e non è lecito rinunciare a uno per enfatizzare l’altro. Esaltare il primo e dimenticare il secondo vorrebbe dire trasformare la comunità in una specie di “nido” dove si sta bene al caldo, ma chiusi alla realtà del mondo. Accentuare il secondo, dimenticando il primo, vuol dire trasformare la comunità in una “piazza” dove passa chiunque e dove manca l’indispensabile privacy. Oppure significherebbe cadere nell’”attivismo” e in una vita superficiale. La terza caratteristica si realizza invece in grado diverso in base al luogo in cui si vive e il contatto concreto con i poveri.

Delle tre caratteristiche la principale e più rivoluzionaria è comunque la prima, da cui derivano serie conseguenze nella configurazione della comunità. Anzitutto non è indifferente il numero dei membri che deve essere limitato: al massimo 12/13, ma non è certo ideale che si riduca a 2/3 individui, per di più pressati dalle urgenze apostoliche.

Altrettanto importante è la base umana di educazione, maturazione affettiva, tolleranza, capacità di comunicazione… doti che sono sempre state necessarie, ma oggi più che mai poiché i rapporti sono più vicini e lo stato d’animo e il comportamento di ciascuno si riflette sugli altri.

Decisiva è poi la dimensione di fede se si vuole essere realmente “amici nel Signore”. Certamente, osserva p. Palmés, possono essere di aiuto anche l’affinità dei temperamenti, la coincidenza delle mentalità, ecc., ma la ragione dello stare insieme è il Signore: è lui che ci ha chiamato alla stessa vocazione religiosa e apostolica ed è lui che dà significato e consistenza alla nostra amicizia.

La spiritualità da vivere è quella dell’amore, per giungere a essere una “famiglia di fratelli” dove ci sia «l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti» (Fil 2,1-2). Lo sforzo principale perciò non consisterà nel mettere in pratica delle norme, ma nel mantenersi attenti e disponibili a rendere felici gli altri, in modo che caratteristica che maggiormente interpella sia il «come si amano».

 

I MEZZI

CONCRETI

 

Ciò che è stato detto fin qui, sottolinea p. Palmés, corrisponde sostanzialmente a quello che è contenuto nelle costituzioni di tutti gli istituti. Ma nelle dichiarazioni di principio siamo tutti bravi e brillanti. Quello che invece distingue coloro che vivono un’autentica vita di comunità da coloro che non la vivono sono i mezzi concreti impiegati per tradurre gli ideali in realtà.

Tenuto presente che oggi l’essenziale sono le relazioni personali, la strada da seguire deve svilupparsi su questo itinerario: conoscersi gli uni gli altri, accettarsi vicendevolmente per giungere ad amarsi come amici del Signore.

Conoscersi gli uni gli altri, non solo esteriormente per il carattere, le qualità, i difetti e il successo apostolico, ma in profondità e in modo personale. Per questo è necessario aprirsi, comunicare. «Credo, scrive p. Palmés, che questo sia uno degli aspetti che maggiormente difettano in molte comunità. Capita anche il caso deplorevole di individui che convivono anni e anni, rimanendo estranei gli uni gli altri. E non conoscendosi rimangono indifferenti l’un l’altro. Anche a questo proposito vale il detto che ci viene dal medioevo: “non è possibile amare ciò che non si conosce”».

In secondo luogo, accettarsi. Accettare gli altri come sono, non “come dovrebbero essere”. Tre sono i campi dove le differenze di mentalità sono più tangibili ed esigono perciò in modo particolare l’esercizio del dialogo: il rapporto tra conservatori e progressisti; tra giovani e anziani e tra nativi e stranieri. Altre fonti di discordia possono essere la diversità di carattere, origine, classe sociale, ferite affettive: «in tutto ciò la chiave per risolverle è amare la persona perché è mia sorella, è mio fratello; allora le differenze si traducono in una ricchezza e non in una barriera».

In terzo luogo, amarsi gli uni gli altri: bisogna giungere a una vera amicizia in modo che ciascuno possa dire in tutta verità dell’altro “è un mio amico”.

Concludendo le riflessione, p. Palmés attira l’attenzione su due realtà che insidiano oggi la vita di comunità: la prima è il rischio di essere un arcipelago di isole solitarie, nonostante che tutti si sforzino di vivere l’ “osservanza regolare”. Ognuno però poi tende a vivere per conto suo: In secondo luogo, l’ossessione per il lavoro. Senza dubbio il lavoro apostolico deve occupare la maggior parte del tempo: la comunità è infatti in funzione dell’apostolato e non viceversa. Ma capita che «l’azione apostolica assorba tutto il tempo e le energie così che non si ha più voglia di starsene in silenzio in cappella o di “perdere del tempo” in riunioni comunitarie o conversazioni personali. Si è caduti nell’attivismo e in una vera disintegrazione della vita». L’impressione che offrono queste comunità è quella di una “équipe di impresari apostolici” o di “onorati professionisti” o di una “pensione di pie signorine”. Forse da punto di vista professionale o organizzativo sono persone eccellenti, ma come religiosi/e sono mediocri. L’esperienza di Dio e la vita comunitaria sono passati in secondo piano. Inviare dei giovani in questo genere di comunità vuol dire esporli a qualsiasi genere di crisi.

Sono molte tuttavia, conclude p. Palmés, le comunità che hanno intrapreso un cammino concreto e vivono una vita che riproduce l’ideale della prima comunità di Gerusalemme e il sogno e l’intuizione dei fondatori dei primi cenobi. Oggi, ciò che essi hanno vissuto, dobbiamo viverlo noi in modo diverso, ma, come è avvenuto per loro, facendo sì che quanti ci vedono possano esclamare in piena verità “guardate come si amano”.

 

A.D.

1 Di questo contesto delineato da p. Palmés abbiamo parlato nel n. 5 di Testimoni, p. 7, nell’articolo intitolato La vita cosacrata nel terzo millennio. Unire mistica e azione profetica.


COMUNITÀ E ANIMAZIONE

 

Comunità-opera o comunità-nucleo animatore? È la domanda che don Nino Minetti, superiore generale dei guanelliani sottopone ai suoi religiosi in una lettera in data 8 maggio scorso.

Scrive: «Chiedo: questo nuovo modello vi trova disponibili? Oppure l’animazione della vigna che il Signore vi affida (casa, parrocchia, scuola…) è in certo modo condizionata dalla preoccupazione del fare, dal funzionamento concreto dell’opera, dall’immobilismo dell’ambiente, dal crescente scoraggiamento?

Cerchiamo di fare qualcosa di nuovo con le persone (ospiti, operatori, professionisti, genitori, fedeli…) che il Signore ci affida o siamo semplici amministratori, senza nessun afflato spirituale-evangelico, senza “mozione spirituale” direbbe sant’Ignazio di Loyola, poco sensibili a ciò che sta nascendo nella Chiesa e nel mondo, e che esige da parte nostra iniziativa e creatività?

Per aiutarvi a dare una risposta, mi permetto di suggerirvi alcune considerazioni che possono metterci in cammino.

 

Animare è infondere un’anima evangelica

 

L’animazione, per essere tale, deve nascere dal desiderio di servire il Vangelo e di fare delle nostre presenze una forte esperienza di Chiesa. La vera animazione va avanti solo con questa mistica, con questa disponibilità a giocarsi, altrimenti è un fare, fare anche molte cose, ma che non danno qualità evangelica a ciò che si fa.

Animare è infondere anima: l’idea che anima sia una figura decorativa  dispensatrice di benedizioni o di belle parole e basta, nelle nostre case sarebbe inaccettabile. Le nostre case sono a pieno titolo oasi di fede e di carità, come voleva il fondatore: “Devono essere luce del mondo con il loro buon criterio di sapienza cristiana. Devono essere città poste in alto per vedere ovunque ed essere vedute” (Massime di spirito e metodo d’azione, 51). In effetti la testimonianza che la gente capisce e da cui si lascia coinvolgere è una fede viva e autentica nutrita dalla parola di Dio, dai sacramenti e dalla coerenza della vita, espressa nella carità.

Animare è “farsi servi”, perché l’animatore è uno che crede in un progetto di liberazione dell’uomo, di cui si pone al servizio, è un militante della causa del

l’uomo. Egli sa che la persona oggi rischia di essere sopraffatta dalla trama intricata delle relazioni politiche, economiche, culturali. Perciò egli si gioca nella scommessa che, attraverso l’animazione, è possibile far crescere e sviluppare le forze che possono rigenerare l’uomo e la società in cui vive e quindi agire, anche qui come indicava il fondatore, in modo preventivo. In pratica l’animatore valorizza, moltiplica le risorse delle persone, a partire dalla concretezza dei loro limiti e ricchezze, dalla loro età ed esperienza dei loro compiti e loro sogni.

 

Animare è “mettersi in relazione con”

 

Del tutto inutile sarebbe la riflessione sul futuro della comunità religiosa se pretendesse di essere la titolare di tutte le attività di cui si compone la sua missione. Oggi la convivenza  in qualsiasi realtà socio- religiosa è fatta di molteplici settori, e questi sono costituiti da più soggetti. In casa nostra per esempio vi è la comunità educativa locale a ricordarci che non si può più essere battitori liberi, ma che occorre coinvolgere, prima di agire. Il problema si fa urgente perché con noi sono coinvolti i laici, con i quali collaborare non è più aleatorio, è necessario.

È dunque inevitabile che la comunità perda molto della sua autonomia e si arricchisca di collaborazione, partecipazione, collegamenti, coordinazione, scambio di energie e mezzi. E naturalmente viene di necessità una figura di religioso capace di entrare in relazione, animatore che sappia collegare insieme le parti e le persone, perché non perdano vigore nel loro isolamento, ma convergano verso un progetto d’insieme a vantaggio dei destinatari.

Nel concreto si tratta di far crescere in comunità uno stile di accoglienza, di ascolto, di relazioni personali, di fiducia, di impegno, di lavoro in vista di una comunione che renda reciprocamente interattivi tutti coloro che vi operano. Il confratello solleciti più che può la responsabilità e l’azione dei collaboratori. Oggi è in questa capacità di coordinare e di coinvolgere che viene valutata l’idoneità del religioso animatore. Tanto più se questo religioso è anche sacerdote. Qual è infatti il compito specifico, proprio del sacerdote in una comunità tutta responsabile della sua edificazione nella comunione e del servizio dell’uomo nel bisogno? Il sacerdote, in tale soggetto educativo-pastorale, deve svolgere il suo compito senza mortificare quello degli altri componenti, anzi valorizzandoli e coordinandoli; e ciò perché cresca la comunione e l’incidenza della missione. Il presbitero deve sempre ricordare che non può presumere di riunire in sé tutta la ministerialità della Chiesa. Egli piuttosto è chiamato a esercitare il carisma del discernimento, della promozione, dell’animazione, dell’armonizzazione dei diversi doni dello Spirito. È aiutato quindi dalla grazia dell’ordine  sacro a superare la figura dell’amministratore, del manager della comunità, per sostituirla con quella del sacerdote donato alla causa del Vangelo.

Chiudo con l’augurio che questo quadro di valori serva a farci valutare la situazione e ci inquieti continuamente per la sua trasformazione».


GLI ESERCIZI SPIRITUALI

È LO SPIRITO CHE GUIDA E GOVERNA

 

Non bisogna guardare tanto alla pietà di chi frequenta gli esercizi ma ai valori evangelici che spesso già possiedono e praticano, pur senza saperlo.

Gli esercizi devono essere soprattutto un ministero di misericordia e di collaborazione con lo Spirito “autore e donatore di vita”.

 

Gli esercizi spirituali non sono fatti solo per le persone devote e spiritualmente avanti nella via della perfezione, ma per tutti. Chiunque può esserne un potenziale soggetto. Per questo si può dire che gli esercizi si caratterizzano per la loro dimensione “missionaria”. Non bisogna pertanto guardare alle persone che desiderano parteciparvi solo dal punto di vista della loro vita di preghiera o del loro cammino spirituale. Ciò che invece va cercato in primo luogo è di scorgere in esse Dio che è all’opera, individuarne gli aspetti positivi per infiammarli poi con il Vangelo. Ma per riuscirvi è indispensabile che colui che guida gli esercizi trovi prima Dio in se stesso e si lasci convertire dalla grazia che viene poi donata a coloro a cui si rivolge.

Punto di partenza è pertanto è l’oggi così come è vissuto da coloro che partecipano agli esercizi. Un oggi in cui ciò che a volte risalta non è tanto una vita di fede saldamente vissuta e professata, ma forse un insieme di valori che sono evangelici anche se chi li vive spesso non se ne rende conto.

Il gesuita Ignacio Iglesias, scrivendo su questo argomento, osserva che conoscere questo oggi delle persone, i ritmi, i livelli di crescita e di maturazione, o anche gli scoraggiamenti e le paure presenti nella coscienza di ciascuno, compresi coloro che predicano, è un presupposto importante, per non dire decisivo.1

 

QUATTRO

PRINCIPALI TENDENZE

 

In quanto gesuita, p. Ignacio si riferisce naturalmente all’apostolato degli Esercizi di sant’Ignazio, ma le sue osservazioni valgono per chiunque svolga oggi questo genere di missione nella Chiesa.

Punto di partenza quindi è cercare di conoscere le persone a cui ci si rivolge. In linea generale queste si caratterizzano per quattro tendenze principali. La prima è quella di una religiosità diffusa, a volte effervescente, ma ansiosa, spesso angosciata ed eclettica, espressione di una ricerca di salvezza al di fuori di se stessi e del desiderio di aggrapparsi a qualsiasi tavola di salvezza, oppure di fabbricarsela, creando così i presupposti di un sicuro naufragio, di confusione o di catastrofe. Giovanni Paolo II ha descritto così questo fenomeno ambiguo e insieme bisognoso di discernimento: «Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall’altro si manifestano l’angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera. Non solo nelle culture impregnate di religiosità, ma anche nelle società secolarizzate è ricercata la dimensione spirituale della vita come antidoto alla disumanizzazione. Questo cosiddetto fenomeno del “ritorno religioso” non è privo di ambiguità, ma contiene anche un invito» (Redemptoris missio 38).

La seconda tendenza si colloca all’estremo opposto: consiste in una certo scollamento o presa di distanza dalla cosiddetta Chiesa “ufficiale”. Nella esortazione apostolica Ecclesia in Europa, il papa definisce questo fenomeno come «uno smarrimento della memoria e dell’eredità cristiana, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia» (7).

La terza tendenza, presente in una grande quantità di persone buone, ma facilmente influenzabili e manipolabili, è quella di un entusiasmo che, osserva p. Ignacio, «si manifesta puntualmente in tante occasioni puntuali», in cui la fede si alimenta con una religiosità fatta di riti in parallelo e a volte anche in contraddizione con un’esistenza i cui “valori” si oppongono al Vangelo.

C’è infine un quarta tendenza che si può definire del “resto d’Israele che rimane fedele all’alleanza”, giorno per giorno, attraverso una fede impegnata, “che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6).

Fatte le proporzioni, questo insieme di atteggiamenti, rileva il padre, si trovano in tutti, anche tra i consacrati. Si tratta di realtà che aiutano chi guida gli esercizi a percepire ciò che Dio lo invita a fare per riuscire a trasformare gli esercizi in uno strumento di eccezionale efficacia.

A questo scopo occorre anzitutto che il predicatore si metta egli stesso in questione, o come osserva p. Ignacio, che compia quattro “esercizi” (una ginnastica interiore personale). Il primo si riferisce alle tendenze presenti nelle persone descritte nei primi tre punti – una religiosità diffusa, ma angosciata; la presa di distanza dalla Chiesa ufficiale; una religiosità fatta di riti oppure vissuta in contrasto con i valori del Vangelo – alla cui base sta spesso un’ignoranza non colpevole. «Essi non sanno quello che fanno», continua a ripetere oggi per noi Cristo al Padre. Da parte del predicatore si richiede un esercizio di kenosis, bene espresso nella formula paolina “farsi tutto a tutti” (1 Cor 9,19-23), assumendo cioè l’atteggiamento del servo. In altre parole, bisogna liberarsi da se stessi per diventare dei testimoni, mettendosi al servizio di una relazione: Dio-esercitante, esercitante-Dio. È un “un modo di essere” che proietta il predicatore all’esterno di se stesso, verso l’altro; e il suo “modo di procedere” consisterà allora nell’aiutare gli altri sapendo di essere nello stesso tempo da loro aiutati, come scrive Paolo: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro». Predicare gli esercizi è pertanto un modo consapevole di “farli e lasciarsi fare”.

Il secondo esercizio consiste nel rivolgere uno sguardo misericordioso sul mondo attuale dentro il quale vi sono individui che cercano Dio e sono da lui cercati e progressivamente incontrati. Voler fare gli esercizi è la prova che Dio è già entrato nel loro orizzonte di vita.

A imitazione di Gesù, colui che guida gli esercizi non deve pertanto stare a chiedersi se nell’eserciziante manca una coscienza di Dio; egli deve piuttosto saper percepire che Dio è già presente e attivo in lui. Nella società d’oggi – e anche nella Chiesa – scrive il padre, spesso i segni di questa presenza non sono quelli di una religiosità manifesta, ma di una vita onesta. Come osserva il papa nell’enciclica Dives in misericordia: «Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell’uomo» (6).

Le conseguenze pratiche di questa affermazione sono molto importanti. Chi predica gli esercizi è sottratto alla tentazione di guardare soprattutto all’esperienza di preghiera, al fatto se uno è animato da un vero desiderio oppure alla sua capacità di impegnarsi in una disciplina di preghiera, di esame e confronto. In realtà, l’espressione più autentica di questo desiderio non consiste necessariamente nella pratica religiosa o nei segni che l’accompagnano e ancor meno nel volontarismo ascetico; si rivelano invece nelle beatitudini già sbocciate o hanno cominciato a fiorire nella sua vita. Dietro agli atteggiamenti apparentemente a-religiosi o agnostici e alle numerose ambiguità e incoerenze descritte, l’onestà della persona può nascondere un desiderio vivo ed effettivo che il predicatore degli esercizi, deve sforzarsi di mettere in luce e di far emergere, poiché, come scrive sant’Ignazio, «è acceso da Dio».

È così che Gesù agiva. Perché del resto egli avrebbe detto che molti “non praticanti” «vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31)?

Ignacio Iglesias si chiede: «Perché lamentarci oggi se un certo tipo di persone, soprattutto tra gli uomini, non si pone la domanda se fare o no gli esercizi, oppure lo fanno con riluttanza e con un certo pudore imbarazzato? Perché ostinarci a esigere tutta una serie di pratiche e osservanze “religiose” da parte di coloro che, nel loro modo “secolare” di dedicarsi agli altri, hanno già cominciato ad applicare l’ideale ignaziano consistente “nell’uscire dall’amor proprio, dalla propria volontà e dai loro interessi»? Non rischiamo forse di voler troppo qualificare gli esercizi, di farne una specie di operazione di chirurgia estetica per élites molto speciali? Non ci troviamo già davanti alla necessità di impedire che essi non abbiamo a deviare verso una specie di “devozione” che sarebbe un po’ come una medicina per prevenire o curare un’influenza o una forte febbre? Se gli esercizi sono una via che deve aprire alla conversione, non dobbiamo allora sforzarci di identificare come base gruppi di persone che, spesso senza saperlo, vivono già delle pagine, a volte difficili, del Vangelo? Non dobbiamo forse ravvivare la forza “missionaria” degli esercizi stando attenti più a ciò che c’è già di “vita” nel possibile eserciziante che non alla sua religiosità?

 

NON METTERSI

DAVANTI ALLO SPIRITO

 

In questo dimensione “missionaria” , il terzo atteggiamento da assumere da parte di chi guida gli esercizi, è di coltivare un rapporto con le persone e compiere un percorso di prossimità, di ascolto, di pazienza, di attesa, di riconoscimento e di sostegno dei valori evangelici autentici, smascherando quelli non veri. In questo esercizio la guida deve essere molto attenta a non “mettersi davanti allo Spirito”, ma a “lasciarsi condurre e moderare da lui”, a discernerne la presenza, segnalando dove egli è, e quali ne sono le manifestazioni. La persona che gli sta davanti dovrà essere perciò trattata con sommo rispetto; un rispetto fondato sull’immenso valore che ciascuno possiede per il semplice fatto di esistere. È così che Dio ci considera.

Aiutare quindi non vuol dire far passare negli altri la propria esperienza, ma fare affiorare quella di ciascuno. E quando questo processo è iniziato, bisogna saper camminare a fianco, ammirando, ringraziando, in un atteggiamento di scambio.

Niente mai si ripete, niente è mai lo stesso nell’opera di Dio. I nostri schemi, le nostre formule, le nostre ricette non sostituiranno mai le sue iniziative; sia chi la guida degli esercizi sia chi li fa devono scoprirle ogni giorno, senza mai forzare o rallentare il ritmo.

 

È LO SPIRITO

CHE GUIIDA E GOVERNA

 

Il quarto e ultimo esercizio consiste nel credere che tra Cristo, nostro Signore, e la Chiesa sua sposa è lo stesso Spirito che ci governa e guida per la salvezza delle anime; occorre ricordare che nella costruzione della Chiesa non possiamo lasciar da parte le “pietre vive” che lo Spirito Santo sta scolpendo e preparando silenziosamente, per utilizzare magari quelle che noi crediamo di poter scolpire secondo i nostri criteri di costruzione.

Costruire un’umanità che ama Dio, costruendo la Chiesa che Gesù ha fondato nella storia per edificare questa umanità: ciò non può farsi con delle pietre artificiali, opera della mani dell’uomo. Noi non abbiamo il diritto di scartare – per la difficoltà di adattarle secondo i nostri piani e modelli di costruzione – persone che lo Spirito Santo riempie misteriosamente del suo Vangelo, spesso senza che esse lo sappiano e senza che gli altri se ne accorgano.

Rivolgendosi alle religiose, a Madrid, nel novembre 1982, Giovanni Paolo II descrisse la “costruzione” del Regno in questi termini: «Vivete come Maria, ricevendo lo Spirito Santo e trasmettendolo ai vostri fratelli così da costruire la Chiesa». Se lo Spirito è dato a tutti (Rm 5,5), ci sono alcuni che non lo ricevono e altri che lo ricevono appropriandosene, e ciò equivale a non riceverlo, e coloro infine che lo ricevono, spesso senza accorgersene e cominciano a pensare agli altri e a donarlo loro giorno dopo giorno. È così che si costruisce.

“Ricevere – trasmettere”: in questo esercizio respiratorio dell’anima – che è la fede – gli esercizi hanno un posto che è loro proprio. Il punto di arrivo non consiste, come lascia intendere anche sant’Ignazio, nella fedeltà a un metodo o alle sue varianti, ma nella fedeltà alle persone che sono uniche, nella loro pluralità, quelle in cui lo Spirito agisce e vive.

A conclusione di tutte queste considerazioni, scrive p. Ignacio, si potrebbe dire che «predicare gli esercizi è un ministero di misericordia e di collaborazione con lo Spirito “autore e donatore di vita”. La regola che deve orientare questa collaborazione è di osservare ciò che egli compie, senza idee preconcette, senza programmi prestabiliti, conservando tutta la nostra capacità di sorpresa. L’eserciziante si trasforma così “in colui che ci precede” di fatto col Vangelo che ha in sé, e ci libererà dalla tentazione di pretendere di guidarlo a partire dal Vangelo che noi crediamo di possedere».

 

A.D.

1 Revue de Spiritualité Ignatienne, n. 1/2004, pp. 47-55


NEL MONDO ISLAMICO E IN QUELLO OCCIDENTALE

IDEOLOGIE OGGI EMERGENTI

 

Il fenomeno del radicalismo islamico attuale ha come punti di riferimento vari personaggi, ma ha dietro di sé una lunga storia. Come si è generato questo stato di cose? Ma non c’è solo il fondamentalismo islamico e la sua ideologia: ci sono altre ideologie ben vive e radicate anche qui in Occidente.

 

Si legge nel comunicato rilasciato da Hamas il 22 marzo 20041 in occasione dell’assassinio del suo leader spirituale, lo sceicco Ahmed Yassin:

«1. Chi ha deciso di uccidere lo sceicco Ahmed Yassin ha deciso di uccidere centinaia di sionisti. 2. I sionisti non hanno intrapreso questo passo senza l’approvazione dell’amministrazione terrorista degli Stati Uniti. Essa perciò dovrebbe assumersi la responsabilità di tale atto. 3. I sionisti non udranno, ma vedranno presto, la nostra risposta, la volontà di Dio. 4. La risposta all’assassinio dello sceicco Ahmed Yassin non verrà solo a livello di tutte le fazioni di combattenti (mujahidin) del popolo palestinese, ma tutti i musulmani nell’intero mondo islamico avranno l’onore di rispondere a questo crimine. Ti chiederanno quando ciò avverrà: potrebbe essere assai presto (verso coranico)».

In questa rivendicazione dell’organizzazione terroristica Hamas, ritroviamo alcune costanti del pensiero che ha segnato una parte del radicalismo islamico degli ultimi secoli, ma in particolare di questo ultimo trentennio.

 

I LEADER ISLAMISTI

DEGLI ULTIMI 40 ANNI

 

Sono soprattutto quattro le grandi figure che rappresentano o sono punti di riferimento per il mondo islamico radicale negli ultimi anni: Sayyd Qutb, al-Mawdudi, Khomeini e negli ultimi anni Osama Bin Laden.2

 

Sayyid Qutb

 

Sayyd Qutb (1906-1966) è stato colui che in Egitto, partito dall’esperienza del movimento dei Fratelli musulmani (al-ikhwân al-muslimûn) fondati a Ismayliyyah da Hasan al-Banna nel 1929, è diventato il teorico non solo del movimento dei fratelli musulmani, succedendo così al suo fondatore ucciso nel 1949, ma di una nuova interpretazione a sfondo religioso della situazione politica egiziana dopo che il movimento subì una grande battuta di arresto nonché di arresti con l’avvento di Nasser al potere.

Nella sua interpretazione, influenzata anche da un suo soggiorno in terra americana verso la fine degli anni quaranta, torna prepotente il concetto chiave di jahiliyyah («ignoranza») che nella tradizione islamica è stato applicato alla storia precedente l’avvento dell’islam. Come il mondo precedentemente alla discesa del Corano era nella jahiliyyah dell’islâm, non conoscendo il Corano, e si può parlare del peccato di kufr, cioè di «empietà», così il mondo attuale è sommerso nel kufr e nella jahiliyyah. La particolarità della sua concezione è che non solo il mondo e i popoli che vivono fuori dai paesi islamici sono nell’ignoranza della verità, cioè hanno trasferito ad altre persone o ad altre cose l’attributo della sovranità che deve essere riconosciuto solo a Dio, ma anche gli stessi paesi islamici non possono più essere considerati come tali. Qutb compì così quello che giuridicamente viene chiamato takfîr (appellativo attualmente usato da una organizzazione terroristica islamica tra le più pericolose) cioè una «dichiarazione di empietà» rivolta nei confronti degli stessi paesi musulmani. Che questo atteggiamento politico-religioso abbia avuto fortuna nel mondo islamico contemporaneo, lo dimostrano le dichiarazioni di Bin Laden dopo l’attentato dell’11 settembre 2001.

 

Abû al-Alâ al-Mawdûdî

 

Al-Mawdûdî invece (1903-1979) che operò nell’estremo oriente, in Pakistan per la precisione, e scrisse i suoi libri in lingua Urdu, influenzò con la propria visione del mondo sia Sayyid Qutb, sia il mondo musulmano moderno. Nella sua opera culturale a tutto campo egli arrivò a formulare l’idea che solo uno stato islamico nel quale si applichi la legge islamica, la sharîah, è uno stato che detiene una vera e propria sovranità. Infatti nella sua visione del mondo la politica è parte integrante ed essenziale della fede islamica. Egli perciò critica sia il capitalismo che il socialismo – che tanta parte ebbe negli insorgenti stati islamici del XX secolo – ma trancia i ponti anche con i nazionalismi che si configuravano su basi non propriamente islamiche. Egli tuttavia, fondatore nel 1941 della jamaat e-islami, proporrà sempre al proprio movimento soluzioni di militanza politica, ma non in modo radicale e di dissidenza armata.

Sia Qutb che Mawdudi però, entrambi sunniti, non riuscirono a trovare credito su base popolare e a intaccare seriamente il governo dei rispettivi paesi perché non riuscirono ad avere l’appoggio della classe religiosa degli ulamâ’ ai quali non avevano risparmiato le loro critiche.

 

Khomeini

 

Khomeini (1902-1989) invece, da uomo religioso qual era, è perciò riuscito nell’intento nel quale sia Qutb che Mawdudi avevano fallito. Egli pertanto elaborò durante la sua permanenza a Najaf (Iraq) e infine in Francia prima della rivoluzione islamica del 1979 le sue idee politiche che hanno potuto far breccia sia nel mondo del clero sciita che nel mondo del ceto medio e istruito. Grazie all’appoggio e ad elaborazioni dottrinali di figure intellettuali come Ali Shari’ati (1933-1977) che reinterpreta la dottrina sciita tradizionale – tradizionalmente critica verso la gestione del potere e volta più ad una visione religiosa del mondo in attesa del ritorno del Mahdi – in chiave di militanza politica e di continuazione della lotta che condusse Husayn al martirio, Khomeini è riuscito a trovare un sempre maggior numero di sostenitori della propria azione politica di opposizione al regime dello Scià del quale criticava proprio gli aspetti che agli occhi occidentali appaiono di democratizzazione e civilizzazione: il voto alle donne, giuramenti su testi diversi dal Corano.

 

Bin Laden

 

Bin Laden invece fa parte ancora della nostra storia, ma del suo pensiero che trapela dalle dichiarazioni e dalle rivendicazioni fatte in seguito alla guerra in Afghanistan, si devono mettere in luce alcuni aspetti. Innanzitutto il fatto che egli consideri, a motivo del principio democratico, i popoli occidentali responsabili della politica dei propri governi nei confronti degli stati islamici: nessuna meraviglia dunque che ci sia il tentativo di fare invertire la politica ai governi occidentali facendo pressione sulle masse popolari o facendo incrinare l’economia a suon di attentati. In secondo luogo egli ribadisce la divisione del mondo su base religiosa, tra «paesi islamici» dâr al-islâm (letteralmente “casa dell’islam”) e «paesi non islamici», dâr al-harb (letteralmente “casa della guerra”): fu, questa, una delle operazioni intellettuali che ha contraddistinto l’ascesa dei movimenti del risveglio islamico nel XVIII secolo ma che nel mondo islamico militante viene riproposta attualmente con grande vigore. In sostanza si ribadisce che l’islam è attaccato dall’America e dall’Occidente. Inoltre si condannano le autorità religiose dei paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto per il fatto di essere acquiescenti verso questo stato di cose, cioè la presenza in queste nazioni di governi non islamici (a suo dire).

 

LA STORIA

PIÙ REMOTA

 

Questo ideologie emergenti non sono certo le uniche voci del variegato mondo islamico anche se, da parte occidentale, sono quelle che vengono udite di più perché oggi si accompagnano con la strategia del terrore.

Ma come si è generato questo stato di cose? E queste idee che vengono sbandierate da queste frange del mondo islamico, quando sono nate? In un suo recente volume Youssef M. Choueiri sintetizza l’evoluzione e le matrici del fondamentalismo in tre fasi diverse: quella del risveglio iniziato nel XVIII secolo, quella del riformismo nel XIX e quella del radicalismo nel XX.

 

Il risveglio

 

Sotto questa denominazione possiamo comprendere l’ascesa del Wahhabismo in Arabia Saudita, con l’insegnamento di Abd al-Wahhâb (1703-1752) e la sua saldatura con Ibn Saûd (†1765); la guerra scatenata da Ahmad Shahid (†1831) e Ismail Shahid (†1831) nell’impero Mogol in India sulla base degli insegnamenti dello Shah Wali Allah (†1762), che propugnava la restaurazione dell’islam delle origini di fronte a un islam che si era lasciato influenzare da costumi e usanze indu e sick; la costituzione del califfato di Sokoto nel centrafrica da parte di Dan Fodio (†1817) e altre correnti apparse a Sumatra con il movimento puritano dei Padri, nell’Africa del nord con i sanussi e il movimento del mahdismo sudanese.

Caratteristica del risveglio fu ribadire la necessità della hijrah (migrazione) dai territori sotto il potere straniero verso i territori islamici per limitare i contatti con gli infedeli e, naturalmente, la necessità del jihâd nei confronti dei nemici dell’islam: è a questi movimenti che si deve la distinzione tra dâr al-islâm (la «casa dell’islam», cioè i territori islamici) e la dâr al-harb (la «casa della guerra», cioè i territori non-islamici). Ma essi proponevano anche una rivisitazione dell’islam invocando una ormai persa libertà interpretativa (ijtihâd) del Corano e della sunnah («tradizione»).

 

Il riformismo

 

Un tema caratterizzante all’interno dell’impero ottomano furono appunto le riforme che si erano rese necessarie ancora di più dopo che Napoleone aveva compiuto e concluso la sua campagna militare in Egitto, che, anche se di breve durata, aveva portato agli occhi del mondo musulmano il divario di sviluppo culturale, scientifico e tecnico tra i due mondi.

Cominciarono perciò le riforme amministrative guidate da analisi «islamiche» del successo e del progresso occidentale. Ci si concentrò più sui presupposti intellettuali che sui presupposti sociali od economici dello sviluppo industriale. Jamal al-Dîn al-Afghânî, Muhammad Abduh, Sayyid Ahmad Kan, sono solo tra i principali pensatori che si fermarono a considerare la storia del pensiero occidentale con occhi islamici: Lutero divenne paradigma di un musulmano ansioso di portare la religione alla sua purezza originaria, la rivalutazione data dall’illuminismo alla ragione veniva visto come il segreto dello sviluppo occidentale che non aveva oscurato, come nella civiltà islamica, il ruolo dell’aql («razionalità») nella progettazione della società e nell’interpretazione della legge; la consultazione popolare e la democrazia venivano lette nell’esperienza stessa di Maometto alle origini della comunità islamica medinese... e potremmo continuare.

Questo pensiero riformista condusse a una riappropriazione e a una rivalutazione dell’islam, ma non quello dei contemporanei (vista la situazione nella quale si era pervenuti storicamente), ma all’islam delle origini. Si arrivò dunque a mitizzare il periodo dell’Islam delle origini come a un periodo ideale. Proprio per questo la tendenza di certo mondo islamico, e ancor più dei portavoce di questo islam ideale, è quella di vivere nel perenne ricordo di una società perfetta già esistita, che è solo da restaurare nuovamente. Si potrebbe dire che per essi l’unico progresso è il ritorno alle origini.

 

SCONTRO

DI RELIGIONI?

 

Ci troviamo dunque di fronte a uno scontro di religioni? Oppure a uno scontro di civiltà? Il problema è proprio questo.

 

Una visione semplicistica e dualistica della realtà

 

Cedere a questa visione semplicistica delle cose è saltare a piè pari la storia senza vedere una vicenda più complessa di quanto la si immagini e la si pensi. Per non parlare poi di un pensiero (questa volta occidentale) che vorrebbe fregiare la propria potenza militare della qualificazione di «bene» radicalmente opposto ai nemici schierati sull’«asse del male». Questo modo di intendere la politica è uno sconfinamento in campo religioso improprio, è violazione del principio di laicità: non è certo un governo o uno stato che può indicare che cosa è bene e che cosa è male. Soprattutto, ed è ancora più grave, non è suo compito dirci chi è nel bene e chi è nel male: nessuno può pensare di sostituirsi alla coscienza individuale come se niente fosse: non è suo compito.

L’impressione che potrebbe essere anche più di una impressione, è che dietro ai discorsi di principio in realtà si nascondano problemi e interessi economici e politici, non altro.

 

L’ideologia del laicismo, appannamento del principio della laicità

 

Ma in occidente, grazie all’apporto di diverse matrici culturali e religiose, compresa quella cristiana, e grazie a 1600 anni di storia con rapporti tra potere politico e potere religioso che si sono andati evolvendo, acuendo, dissociando, si è maturata l’idea della laicità. In base a particolari teologie cristiane e ad apporti filosofici particolari si è proceduto nella ricerca e nello sviluppo scientifico ed economico. Ma il fatto che il mondo occidentale non si sia ancora riconciliato con la religione e con il sistema di valori religioso dal quale ha preso le mosse e si è storicamente sviluppato sta facendo sì, come avviene in Francia,3 che il valore della laicità non abbia più un quadro di valori di riferimento all’interno del quale essere difeso.

Inoltre i valori o sono vissuti o non sono tali, e la laicità non fa eccezione. La laicità ha senso se esiste un mondo religioso come tale con una sua forte identità radicata nella vita e nel cuore delle persone. La laicità in un mondo che ha perso esistenzialmente i suoi riferimenti cristiani e la dimensione religiosa in genere, finisce così per diventare non la doverosa separazione tra ambito religioso (profondamente personale e contemporaneamente coinvolgente le comunità nelle quali si vive e si professa la fede) e ambito politico-civile (nella dimensione sociale della vita), ma l’affermazione dell’ambito politico-civile come unico spazio incontestato e incontestabile.

 

La questione dei diritti

 

Inoltre si deve tenere presente che il mondo occidentale si ammanta e si vanta della promozione dei diritti dell’uomo, ma talvolta lo fa solo nominalmente. I diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo non sempre sono difesi anzi, in certi casi, vengono apertamente violati, e proprio qui in occidente. La legalizzazione dell’aborto, l’introduzione dell’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni, le torture, sono solo alcuni degli ambiti dove i diritti dell’uomo in questo nostro «mondo occidentale» sono apertamente violati e dove qualcuno decide della vita e della morte di qualcun altro, con fiumi di denaro di potenze economiche sopranazionali e con il sostegno della legge, per di più. Come può il mondo occidentale ritenersi più progredito di altre culture e difensore dei diritti dell’uomo se è un mondo dove ci si scandalizza della guerra, e, contemporaneamente, dove tacitamente sono state soppresse milioni di vite?

Insomma, non c’è solo il fondamentalismo e la sua ideologia, ma ci sono anche altre ideologie ben vive e radicate anche qui in occidente, ideologie che sono sopravvissute al crollo del muro di Berlino e che stanno seminando, dopo ingiustizie e morti, altre premesse di ingiustizia e di morte.

 

Davide Righi

 

 

1 Rivendicazione tradotta dall’inglese e reperita sito http://www.jihadunspun.com.

2 Per chi volesse approfondire l’argomento, le pubblicazioni attualmente non mancano. Cito quelle che mi sembrano le più degne di nota. Sulle premesse storiche anche remote del fondamentalismo e il formarsi del suo vocabolario e della sua ideologia negli ultimi 3 secoli Youssef M. Choueiri, Il fondamentalismo islamico, Bologna 1993, ed. il Mulino. Circa invece la situazione attuale determinatasi dopo l’ascesa al potere di Komeini in Iran cf. Jilles Kepel, Jihad ascesa e declino, Roma 2000, ed. Carocci.

3 Mi riferisco al rapporto consegnato il 9 dicembre 2003 al presidente della Repubblica francese da parte della Commissione di riflessione sull’applicazione del principio di laicità nella repubblica. Recita il testo: «La laicità, pietra angolare del patto repubblicano, riposa su tre valori indissociabili: libertà di coscienza, eguaglianza nel diritto delle opzioni spirituali e religiose, neutralità del potere politico (...) Essa si riferisce alla Grecia antica, al Rinascimento, alla Riforma...». (pp 7-8). È così che, nella riflessione di questa commissione, 1500 anni di cristianesimo non hanno dato nessun apporto in ordine alla costruzione della laicità alla francese, e non potranno dunque dare nessun apporto al suo mantenimento.

 


GLI APPUNTAMENTI DI GESÙ AMICO

 

L’amicizia con Gesù porta verso i luoghi nei quali, secondo la sua parola,

lo si incontra, agli appuntamenti ecclesiali e personali che egli stesso dà.

 

Gesù si lascia incontrare nell’attenzione riservata alla Chiesa, il suo corpo mistico. Essa trasmette la sua parola e chiede allo Spirito che ne doni l’intelligenza; sostiene nel camminare nella luce che viene da lui, nell’essere disposti a partecipare alla sua missione per le vie che egli percorre, le uniche adeguate a renderne credibile la presenza ai pellegrini del mistero.

Gesù non agisce al posto dei fedeli, anche se fa tutto perché in lui, con lui e per lui si vogliano lode di gloria del Padre, portino a compimento la missione della quale sono resi partecipi. Né Gesù senza la cooperazione umana né l’operare umano senza Gesù, ma egli nei suoi fedeli e questi in lui: è la via alla pienezza nell’unità.

Il rapporto amicale con Gesù è di autodono reciproco espresso nell’ «Io in voi e voi in me».

Le persone in Cristo non sono isolate, sono membra del suo corpo e per la grazia dello Spirito perseverano nell’ascolto, nella solidarietà, nella realizzazione degli stessi progetti. In consenso e vigilanza contrastano le resistenze alla testimonianza della carità.

Il “cerimoniale” dell’amicizia, quando scaturisce dalla sorgente che ne vivifica le espressioni, la rende sincera, creativa, vigile.

Le persone a volte prendono coscienza di essere innamorate quando l’amore è già operante nella loro vita, nella quale si è annidato non con violenza o frode ma nel consenso ineffabile, che caratterizza la corrispondenza alle realtà che incarnano il proprio bene e che sono desiderate e accolte con pace.

Il risveglio dell’amicizia non è frutto di violenza, è espressione del desiderio pacificato, libero, spontaneo. I segni premonitori di quest’evento destano sorpresa, stupore, e le persone sensibili al proprio bene vigilano sul loro sviluppo e orientamento.

Le espressioni di questo processo sono descritte in alcuni testi della rivelazione neotestamentaria: l’inno alla carità di 1Cor 13, i frutti dello Spirito di Gal 5,22 opposti alle opere della carne e al non amore di Gal 5,19-22.

Essi permettono di discernere quando l’amore mette radici nei cuori umani e coinvolge ogni espressione della propria esistenza, non è limitato dal tempo o dallo spazio, è durata, è passare la vita nel passare in Gesù.

La nascita dell’amicizia avviene nella conversione.

Si comincia a coglierne i tratti quando si persevera nella condizione di “bambini appena nati” bramosi del latte dello Spirito di cui hanno imparato a gustare la dolcezza (cf. 1Pt 2,2-3).

Le persone interessate a trovarlo prestano attenzione alle sue richieste: «Chi vi ascolta, mi ascolta»(Lc 10,16), «ascolta la mia parola» (Gv 5,24), «la mette in pratica» (Mt 7,24), «mangia la mia carne e beve il mio sangue» (Gv 6,55-56).

Gesù si lascia incontrare nell’accoglienza riservata alle persone, non alle loro qualità, motivata non dalla sicurezza di essere accolti ma dalla fedeltà al bene umano.

L’amicizia con lui si sviluppa nell’ascolto della parola di Dio, nella prassi della comunità cristiana, nella contemplazione fedele, ma ha una particolare affinità con l’atteggiarsi verso le persone affamate, assetate, ammalate, prigioniere, straniere, bambine.

La prerogativa di amici di Gesù è fonte di gioia per le persone condotte dalla Parola ascoltata in docilità nella Chiesa che orienta al Padre: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (Gv 16,28).

La coerenza con la propria vocazione nell’umanità e nel mondo, vissuta con cuore sincero, nelle circostanze prospere e nelle avverse, a tempo e controtempo, è terreno di coltura della volontà di perseverare nella docilità al legame tra fede e giustizia vissuto nella via dei comandamenti e delle beatitudini, nella costruzione della pace e nella salvaguardia della creazione.

Abituati a pensare in prospettiva individuale o tutt’al più interpersonale, disattendiamo la dimensione cristico-ecclesiale-umana, il mondo visibile e invisibile, la comunione dei santi e la comunità peregrinante in cui l’amicizia cresce e di cui fruisce.

 

Dalmazio Mongillo op

da Per lo Spirito in Cristo al Padre,

Qiqajon/Bose 2003

 


DALL’IO AL TU,

DAL TU AL NOI

 

La fraternità sarà uno dei segnali maggiormente qualificanti della VC del futuro. Una fraternità nuova, perché non sarà tanto luogo d’osservanza o concentrazione di aspiranti alla perfezione, ma perché da questo incontro nascerà il noi, una realtà di relazione nuova, a immagine della santissima Trinità.

 

 “Sarà la bellezza della fraternità che salverà il mondo”.1 La parafrasi della nota frase di Dostoevskij potrebbe fare da sfondo alla presente riflessione. Nella quale siamo invitati a ripensare proprio il senso della fraternità religiosa, quale luogo tradizionale della convivenza religiosa e, al tempo stesso, profetico, che in qualche modo prefigura la nuova immagine della vita consacrata (VC). Siamo infatti convinti che la fraternità sarà uno dei segnali maggiormente qualificanti della VC del futuro. Ma una fraternità nuova, soprattutto perché non solo o non tanto concentrazione di aspiranti alla perfezione o luogo dell’osservanza, bensì spazio d’un incontro inedito tra l’io e il tu, i protagonisti della vicenda comunitaria, perché non semplicemente s’accolgano, magari dopo essersi scrutati e… annusati (nella speranza di ritrovarsi simili e fatti l’un per l’altro), ma perché da questo incontro nasca una realtà davvero nuova, il noi, la relazione con l’altro-da-sé, o quello scambio fecondo da cui nascono assieme sia l’identità che l’alterità, cioè la comunione a immagine della Trinità santissima, ovvero una testimonianza di fraternità tanto inedita quanto così indispensabile e attesa oggi.

E d’una fraternità, in particolare, che da un lato non impone lo stampo uniformizzante ai suoi membri, ma dall’altro è comunità di persone che condividono qualcosa d’importante e fondamentale. In un mondo sempre più globalizzato e nel quale le differenze paradossalmente tendono sempre più ad annullarsi, per un verso, mentre per un altro stanno sempre più diventando motivo di contrapposizione, la VC è chiamata a dare una testimonianza d’importanza strategica e decisiva. La VC non è forse stata uno dei primi eventi di globalizzazione, e non ha forse in questo senso un’esperienza unica da condividere? Non ha forse al suo centro un simbolo come la croce, nella quale tutte le cose, della terra e nei cieli, sono state ricapitolate e ogni uomo riconciliato, in cui tutto s’è compiuto e ha trovato senso, in cui non esiste più né greco né giudeo, né uomo né donna?

Vedremo allora brevemente alcune caratteristiche più salienti della situazione oggi, dal punto di vista della relazione interpersonale, per meglio identificare il riflesso che questo può avere sul nostro stile di vita comunitario e sul ruolo che la VC può giocare all’interno di questo contesto. Poi cercheremo di analizzare il senso del rapporto tra identità e alterità, particolarmente da un punto di vista psicologico, per poi proporre, su un versante pedagogico, un cammino comunitario che riesca a coniugare assieme identità e alterità, identità e appartenenza, autorealizzazione e progetto di crescita comunitario, io e tu…

 

CULTURA

DELL’AUTOREFERENZIALITA’

 

C’è chi parla, senza mezzi termini, di cultura attuale dell’autoreferenzialità. Che affonda le sue radici, detto in modo molto schematico, in quel terreno ov’è stato abbondantemente seminato il seme del pensiero debole o della sfiducia nella ragione umana. Con conseguenze rilevanti.

Da questa “coltura unica” sono nati frutti spontanei e velenosi, quali

– l’indifferenza e il qualunquismo veritativo, dato che non esiste più alcuna verità generale;

– la negazione della responsabilità, specie quella nei confronti dell’altro, di qualsiasi altro;

– una certa concezione di libertà personale primitiva, che finirebbe ove comincia quella dell’altro, per cui non si è mai liberi insieme;

– una transizione dall’idea della vita come pellegrinaggio a quella della vita come vagabondaggio, con perdita d’una visione provvidenziale e unitaria dell’esistere, e conseguente impoverimento e scarsa tenuta della relazione;

– un radicale e triste egocentrismo, e conseguente enfatizzazione della propria autorealizzazione;

– il dominio della legge del mercato come senso della vita, ridotto in pratica a due verbi: vendere e comprare.

Il tutto nel segno di Proteo, ovvero del flusso continuo e del cambiamento repentino, e di Narciso, ovvero alla luce… dei riflettori, perché oggi è qualcuno solo chi appare sulla scena ed è visibile a tutti, solo chi fa parlare di sé e riesce a vendersi bene sul mercato.

Già questa descrizione veloce e sommaria ci fa intravedere le conseguenze a livello della relazione interpersonale, in modo particolare della relazione con l’altro-da-sé, inevitabilmente indebolita e resa precaria, insignificante o conflittuale, distruttiva o… distrutta.

 

I fatti recenti e spaventosi d’un terrorismo che sembra non aver più alcun limite dinanzi a sé (dall’11 settembre 2001 di New York all’11 marzo 2004 di Madrid) sono il segno più inquietante d’una involuzione relazionale che, se non verrà arrestata, potrà condurci alla distruzione del rapporto, alla fine d’ogni dialogo, alla radicalizzazione dell’homo homini lupus. Se non peggio ancora.

“Abbiamo ucciso la persona umana”, ha commentato, infatti, qualcuno2 all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle, di questa terribile “antropofania”, capace di rivelare in quale (poco) conto si tenga la vita umana nella nostra società, o quanto radicata sia la convinzione da… uomo delle caverne che la tua morte sia la mia vita (mors tua vita mea), o che il rapporto con l’altro, con chi è dall’altra sponda, debba per forza esser conflittuale, e tendere all’eliminazione del nemico. Dimenticando, d’altra parte, che il male, per natura sua, tende a riprodursi, a rigenerarsi, provocando reazioni uguali e contrarie come in una spirale impazzita.

Insomma, dal presente contesto culturale emerge un quadro di relazioni lacerate, nel quale c’è molto “io”, ma un po’ disperato nella ricerca della sua promozione; un “tu” conflittuale (un

tu-contro), percepito come ostile alla propria realizzazione; poco o pochissimo “noi”, ovvero relazioni quasi inesistenti.

Paradossalmente questo quadro storico è una grossa occasione per la VC, o può, quanto meno, costituire un’opportunità per riaffermare il senso profetico della sua presenza nel mondo e nella chiesa, in questo momento di rinnovamento e di ricerca di nuovi spazi o addirittura d’una nuova identità.

Da un lato, potremmo dire, la VC risente di questo clima, e soffre di questa lacerazione relazionale all’interno delle proprie comunità interetniche. Dall’altro la VC, come abbiamo già sottolineato, ha una parola da dire al riguardo, possiede un’esperienza cui fare riferimento, ha ricevuto un dono che deve poter metter a disposizione d’altri.

Vediamo più da vicino questi due aspetti.

Il documento della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica Congregavit nos in unum Christi amor fotografa la situazione, come s’è venuta delineando in questi ultimi anni, in termini molto chiari:

«Il rispetto per la persona, raccomandato dal concilio e dai documenti successivi, ha avuto un influsso positivo nella prassi comunitaria. Contemporaneamente però si è diffuso con maggior o minor intensità, a seconda delle varie regioni del mondo, anche l’individualismo, sotto le più diverse forme, quali il bisogno di protagonismo e la insistenza esagerata sul proprio benessere fisico, psichico e professionale, la preferenza per il lavoro in proprio o per il lavoro prestigioso e firmato, la priorità assoluta data alle proprie aspirazioni personali e al proprio cammino individuale senza badare agli altri e senza riferimenti alla comunità.

D’altra parte è necessario perseguire il giusto equilibrio non sempre facile da raggiungere tra il rispetto della persona e il bene comune, tra le esigenze e le necessità dei singoli e quelle della comunità, tra i carismi personali e il progetto apostolico della comunità. E ciò lontano tanto dall’individualismo disgregante quanto dal comunitarismo livellante. La comunità religiosa è il luogo ove avviene il quotidiano paziente passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio impegno all’impegno affidato alla comunità, dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose di Cristo”».3

Il testo indica con chiarezza gli influssi positivi e negativi della cultura odierna sulla VC: da un lato l’accentuazione della centralità della persona singola, dall’altro il rischio dell’individualismo. Chiede dunque il giusto equilibrio tra rispetto dell’individuo e perseguimento del bene comune, e mette pure in guardia dai due pericoli opposti: l’individualismo disgregante e il comunitarismo livellante. Ma soprattutto riconosce alla comunità un ruolo specifico e prezioso, quello d’esser luogo del «paziente passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio impegno all’impegno affidato alla comunità,

dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose di Cristo”».

Mi sembra molto equilibrato, realistico e pertinente questo modo di analizzare il problema. Se nella VC è stata sempre forte, per definizione e tradizione, l’accentuazione comunitaristica, l’influsso d’una cultura dell’autoreferenzialità impone nuovi equilibri, non facili da trovare.

Chi di noi, per altro, non ha sperimentato la fatica di conciliare progetti personali con prospettive comunitarie, la fedeltà esistenziale e vocazionale a se stessi e al gruppo?

E non si tratta, badiamo bene, d’un problema “nostro” o d’economie intracomunitarie, con scarsa rilevanza oltre la fraternità stessa, poiché è esattamente il contrario.

 

MODELLO RELAZIONALE

E SISTEMA PREVENTIVO

 

Di fronte a una realtà sociale che mostra le ferite che abbiamo visto, non basta più che noi consacrati assumiamo un certo atteggiamento distaccato, tipico di chi in qualche modo fugge dal male e si rifugia in un ambiente decontaminato (la comunità religiosa, appunto), ma neppure è sufficiente impegnarsi a dare il buon esempio o pregare Dio che tocchi il cuore dei violenti, e c’è pure chi dichiara finito il tempo in cui ci accontentavamo, credenti e consacrati in particolare, di fare “i crocerossini della storia”, andando a curare ferite e vittime delle varie violenze, perché forse non basta più, occorre andare oltre o intervenire prima, all’interno d’una logica davvero preventiva.

Come la cultura dell’autoreferenzialità è penetrata nelle nostre convivenze, così è possibile e necessario che qualcosa del nostro modello di vita “esca” dalle nostre fraternità, sia concretamente proponibile come modello relazionale vivibile, modello di pace e convivenza con l’altro-da-sé. D’altronde la VC è un grande fenomeno relazionale, e se non fa questo, se non offre modelli di vita e convivenza evangelicamente ispirati ed esistenzialmente riproducibili nei vari contesti sociali, a cosa e a chi serve?

La vita comune non ha forse questo obiettivo: fornire modelli relazionali, a dimostrare che è concretamente possibile la relazione con il diverso fino a condividere la vita con lui? Non c’è forse un elemento profetico nella testimonianza della comunione fraterna? Se la VC serve solo a chi la sceglie come suo proprio ideale di vita fallisce il suo obiettivo, che è quello di testimoniare di fronte a tutti l’amore del Padre perché sia un bene per tutti, divenga cultura, cultura di pace, appunto, e prassi di rapporti finalmente pacifici.

Non è forse questo l’apporto specifico di una VC incarnata nella storia e attenta ai segni di tempi, soprattutto a quelli drammatici? Come dire, non abita forse qui, o non passa attraverso questa ricerca, il futuro della VC?

Certo è una sfida, ma sfida salutare, salutarissima, poiché non solo ci apre al futuro, ma soprattutto ci fa uscire da noi stessi e proprio da quell’autoreferenzialità che segnerebbe la nostra insignificanza o la nostra fine. Quante volte, infatti, forse senza rendercene conto, abbiamo affrontato o continuiamo ad affrontare il problema dell’autoreferenzialità con metodo autoreferenziale! Senza venirne mai fuori, evidentemente, e continuando a chiederci se viene prima l’io o il tu, il mio progetto o quello della comunità (l’uovo o la gallina?), e rendendo concretamente impossibile e insoddisfacente una qualsiasi soluzione.

Ecco perché diventa importante questo sguardo all’esterno, questa preoccupazione orientata verso il bene dell’altro, per un esame di coscienza che continui a turbarci finché non avremo trovato un sistema di vita che diventi davvero buona novella, cioè proposta di fraternità per tutti, di armonia relazionale, di concordia umana.4

Ancora il documento del dicastero vaticano:

«La comunità religiosa diventa allora il luogo dove si impara quotidianamente ad assumere quella mentalità rinnovata che permette di vivere la comunione fraterna attraverso la ricchezza dei diversi doni e, nello stesso tempo, sospinge questi doni a convergere verso la fraternità e verso la corresponsabilità nel progetto apostolico».5

 

Come attuare questo percorso?

 

«Non possiamo trovare noi stessi in noi, ma solo in altri; allo stesso tempo, prima di uscire da noi e andare agli altri dobbiamo trovare noi stessi». Questa frase di Thomas Merton dice bene, nella sua paradossalità, il senso del rapporto reciproco tra identità e alterità. Sarebbe un’illusione pensare che il rapporto con l’altro faccia nascere automaticamente il senso dell’io, così come sarebbe altrettanto illusorio dare per scontato il passaggio dall’io al tu.

Vediamo allora come si ponga il rapporto tra i due soggetti e le due dimensioni.

Partiamo da un principio psicopedagogico molto importante e prezioso per la nostra analisi: secondo la psicologia ogni essere umano ha un bisogno insopprimibile d’avere un’autoidentità sostanzialmente e stabilmente positiva. Forse è il bisogno più profondamente radicato nell’essere umano, più ancora del bisogno affettivo. Tale identità positiva è al tempo stesso condizione e conseguenza del rapporto con l’altro. Quando, al contrario, l’io non raggiunge la certezza sostanziale della propria positività, il rapporto con l’altro potrà subire le più varie e pericolose distorsioni (e divenire, ad es., rapporto di dipendenza, o relazione compensativo-difensiva, o competitivo-aggressiva, o compiacente-strumentale…). Allora diventa impossibile anche vivere in fraternità, e il proprio progetto di vita sarà in perpetuo rapporto conflittuale (o compiacente) col progetto comunitario.

Vediamo anzitutto come l’essere umano può costruire il senso della propria identità e come a ogni livello corrisponda un certo senso dell’altro.

 

Livello somatico: insignificanza del rapporto

 

La prima teorica possibilità di autoidentità, anche in ordine di tempo, è quella di riferirsi al proprio corpo, a un dato di fatto subito percepibile, caratterizzato da una determinata espressione somatica. A tale livello, nella misura in cui il corpo è il referente primo e decisivo per avere un senso positivo dell’io, l’individuo avrà bisogno di sapere (e far vedere) che ha un corpo niente male, sano-bello-forte-giovanile, o, quanto meno, di farlo apparire come tale.

Avremo così il religioso eccessivamente attento al suo look, o all’apparenza esteriore, a livello di vestito, o di più o meno presunte qualità estetiche, o troppo preoccupato di non far apparire i segni del proprio invecchiamento o esageratamente vigile sulla propria salute. Con conseguente rifiuto di quanto possa offuscare tutto ciò, dell’età che avanza, dell’eventuale difetto estetico o dell’infermità fisica, soprattutto della morte… Di solito è la vita stessa che si premura di mostrare l’incapacità di questo modello di garantire uno stabile senso di positività.

L’altro in tale modello è sostanzialmente assente e la relazione insignificante. Anzitutto perché nella nascita del senso dell’io il tu non gioca alcun ruolo, e l’operazione avviene tutta all’interno dell’io, tutt’al più di fronte… allo specchio. Se poi il centro d’attenzione è il proprio corpo l’altro servirà solo come… potenziale ammiratore o rivale.

 

Livello psichico: rapporto conflittuale

 

Una seconda possibilità di autoidentificazione è offerta dal riferimento alle proprie doti e talenti, a qualsiasi livello, da quello intellettuale a quello manuale, dall’artistico al morale. È il livello dell’avere, tipico della persona che si sente artefice di sé, che coi “suoi” mezzi e i “suoi” sforzi crede di conquistare la propria realizzazione, quasi avesse meritato, a suo tempo, persino d’esistere.

È un livello superiore al precedente, ma ancora con una visione parziale dell’uomo, ristretta ad aspetti che non sono i più importanti, e dunque anche con conseguenze contraddittorie e rischiose. Il proprio talento, ad es., diventa fonte ma anche limite d’identità, in un soggetto che non sarà libero di accettare proposte o prospettive di vita che vadano al di là di quello che è sicurissimo di saper fare; oppure, altra conseguenza, la dipendenza dal ruolo o da quell’attività in cui riesce perfettamente e che gli regala la certezza d’esser qualcuno, o dall’ambiente e dalle persone che gli danno stima e considerazione, al punto che la sua immagine sociale diventa la sua vera (e nascosta) regola di vita; o il bisogno estremo del risultato positivo, fino a identificarsi coi suoi successi e di non saper accettare gl’insuccessi; la mania dell’autorealizzazione, impossibile da raggiungere quando troppo centrata sull’io. Ma la conseguenza più contraddittoria è che, nonostante la preoccupazione e la tensione, chi s’identifica a questo livello non raggiungerà mai la certezza definitiva della propria positività, proprio perché la cerca nel modo e nel posto sbagliato, facendone lo scopo intenzionale delle sue azioni, mentre essa può esser solo la conseguenza non intenzionale e spontanea d’un atteggiamento trascendente, d’un io che non cerca se stesso nelle cose.

Contraddittorio e conflittuale sarà anche il rapporto con il tu. Da un lato l’altro diventa un giudice, uno che valuta le prestazioni del soggetto, dall’altro diventa un rivale, uno da osservare e scrutare con lo sguardo distorto dalla mania competitiva; sarà molto facile, allora, il sentimento d’invidia e gelosia, o i due estremi della compiacenza o del rifiuto. La vita, a questo punto (anche quella che si vive in comunità), diventa un conflitto costante tra rivali, ove solo uno può vincere, e ove sarà molto facile interpretare la diversità come una minaccia da combattere.

Ma in ogni caso, anche nel livello psichico il senso dell’io è piuttosto autospeculare, non nasce dal rapporto con l’altro né crea sana alterità.

 

Livello ontologico: chiamata e progetto

 

A questo terzo livello cambiano radicalmente scenario e punti di riferimento: l’io si definisce per quello che è e per quello che è chiamato a essere. Da un lato lo sguardo è rivolto verso le profondità dell’io stesso (oltre l’esteriorità del corpo o delle proprie azioni e prestazioni), dall’altro il soggetto si scopre incompleto, tende verso qualcosa che ancora non possiede, verso un ideale ricco di verità-bellezza-bontà e che ora rende vero-bello-buono il soggetto stesso. E in questa tensione avverte una chiamata, più precisamente uno che lo chiama (visto che nessuno può autochiamarsi), anzi, Uno che lo chi-ama (chiamare è voce del verbo amare), entro un contesto dialogico che esprime interesse, attenzione all’altro, amore (se nessuno ti chiama, vuol dire che non conti niente per nessuno); e verso un progetto da realizzare, ma nel quale l’io si intravede, o scopre il pieno compimento della propria identità .

A questo dialogo il credente dà un nome preciso: vocazione. In quel progetto il consacrato riconosce il carisma che ha ricevuto in dono. Da essi nasce il senso dell’io,

– legato all’essere, non più all’apparenza o all’avere, e dunque stabile e profondamente radicato, anche se dinamico e sempre da realizzare, proteso com’è verso il compimento di valori che saranno sempre oltre l’attuazione del soggetto;

– legato ancora a un Tu, a una Volontà buona che ha preferito il mio io alla non esistenza, e che consente all’io stesso di stabilire un rapporto libero con qualsiasi tu, libero dalla mania del confronto competitivo con l’altro, dal bisogno di prevalere sull’altro o di dover ottenere a tutti i costi il suo assenso dipendendo dall’altro;

– legato infine a un corrispondente senso della vita, quale bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato, dunque libero da ogni mania di accumulare per sé, di cercare la propria autorealizzazione, di conquistare risultati positivi, d’aver successo per forza, di render visibile a tutti la propria eccellenza, di evitare accuratamente quanto possa significare fallimento, limite, sconfitta…

A questo livello diventa dunque fontale il rapporto con un Tu, come quello con Dio, Padre e Creatore, rapporto che ritorna quale paradigma d’ogni rapporto umano in cui un tu “chi-ama” l’io, trasmettendogli la certezza della sua dignità.

Ma il cammino di autoidentificazione non finisce qui.

 

Livello metapsichico: oltre l’avere

 

A questo punto l’io è libero, o progressivamente libero, di vivere in pieno le sue doti o quanto si riferisce immediatamente o mediatamente alla sua persona (progetti, iniziative, scelte…), poiché non le considera più come sua proprietà indiscussa, qualcosa che parte da lui per tornare a lui, possibilmente con gl’interessi, ma come parte del dono della vita ricevuta da un Altro, e che, come abbiamo accennato, tende per natura sua a divenire bene donato ad altri. Al tempo stesso, però, la sua positività non dipende più primariamente dalle sue doti. Insomma, cambia radicalmente la prospettiva: ne guadagna il senso d’identità e pure d’alterità.

Ed è proprio questo cambio che permette alla persona di interpretare al meglio le sue stesse qualità, poiché le libera dal legame asfissiante e riduttivo col proprio io, le svincola da una dipendenza che le soffocherebbe, le può mettere finalmente a disposizione della vita, e di tutti. Potrà addirittura arrivare al punto di sacrificare l’esercizio di qualcuna delle sue potenzialità o di rinunciare a un suo punto di vista senza sentirsi particolarmente offeso, quando ciò sia richiesto da un bene maggiore. Libero di sacrificare il figlio…

 

Livello metasomatico: oltre l’apparenza

 

Anche il corpo prende parte a questo… rito liberatorio, perché anche il corpo viene visto come parte del dono della vita, dono che – pure esso – tende per natura a sua a divenire bene donato.

Non più, dunque, la preoccupazione eccessiva per la propria immagine o per i giorni dell’esistere terreno, per il riposo, la salute, il proprio benessere…, ma la convinzione serena che tutto ciò vada necessariamente messo a servizio degli altri, divenga dono per tutti, ogni giorno di più. Fino a celebrare nella propria morte il dono totale di sé, il punto finale d’una esistenza che s’è sempre più espropriata per la vita degli altri. E assieme, la “celebrazione” d’una positività indistruttibile che si protende oltre la morte.

In conclusione: proprio questa positività è la condizione fondamentale per stabilire un autentico rapporto con l’altro, e al tempo stesso proprio il rapporto con l’altro promuove la positività dell’io. Ovvero dall’identità all’alterità e viceversa.

 

Il principio del terzo

 

Ma è necessaria un’altra precisazione per stabilire un rapporto autentico con l’altro, e incontrarlo nella sua verità e nel mistero d’essa, e non con le nostre illusioni o distorsioni percettive proiettate sulla sua persona.

Il desiderio dell’uomo è, infatti, nonostante tutto e nonostante le sue molte contraddizioni, incontrare il tu, ed è bello che sia così; la pretesa è quella di render l’altro come lo vorremmo, più o meno omologato ai nostri gusti e in funzione dei nostri bisogni; la tentazione, infine, è quella di poter accedere direttamente al suo mistero, senza mediazione alcuna.

La psicologia della comunicazione ci offre al riguardo un principio estremamente prezioso e chiarificatore: il principio del terzov. Che in parole semplici significa:

non basta desiderare d’incontrare il tu,

né sono sufficienti rispetto e accettazione della sua persona;

occorre accoglierlo incondizionatamente,

ma sempre mediatamente.

Sono due condizioni fondamentali per la vita relazionale comunitaria:

– l’accettazione totale dell’altro senza condizioni,

– il contatto mediato con la sua verità e il suo mistero.

Le due condizioni sono legate tra di loro, ma entrambe sono dettate dall’amore per l’altro, per la sua persona, non da un semplice desiderio di rapporto. E da un amore che, quando è vero, è capace di stima, d’un giudizio limpidamente positivo dell’altro, ovvero è libero di percepire l’altro nella sua amabilità radicale e ontologica, quella che permane al di là di qualsiasi comportamento più o meno corretto.

 

Il Terzo divino

 

In realtà, è capace di fare questo solo chi ha risolto prima il problema della stima di sé, ed è riuscito a cogliere dentro di sé quella realtà ontologica che è come una certezza indistruttibile. Lì, in quel livello ontologico, come abbiamo prima ricordato, il soggetto si sente chiamato, da una voce che gli svela il suo io, da una voce che in qualche modo fa da mediazione tra una parte dell’io (l’io attuale) e un’altra parte (l’io ideale). Una voce che per il credente corrisponde a un volto, a un gesto d’amore, a un Terzo che entra provvidenzialmente nel suo mondo intrapsichico e gli consente di accedere al mistero dell’io.

Ora, come questo Terzo divino è stato mediazione preziosa per scoprire la propria identità e positività, così potrà fare da mediatore per incontrare l’altro nella sua alterità e apprezzarlo

nella sua verità e bellezza, oltre ogni apparenza. In tal senso e in forza di tale logica Francesco è attratto dal volto del lebbroso, Teresa di Calcutta abbraccia il moribondo, il fratello lava i piedi al fratello senza sentirsi un eroe, ognuno si sente responsabile dell’altro, caricandosi sulle spalle il peso del suo peccato, anche correggendolo con forza, se necessario. Insomma, ogni legame

tra due persone credenti deve avere un Terzo che lo garantisce, lo motiva, lo illumina, lo dirige, lo purifica.

Anzi, il rapporto così stabilito con l’altro consente un ritorno arricchito su di sé, che rivela aspetti nuovi del proprio io, come ben dice Florenskij parlando dell’amicizia: “l’amicizia sta nel contemplare se stesso attraverso l’amico in Dio, vedersi con gli occhi dell’altro al cospetto d’un Terzo”.

 

Il terzo umano

 

Ma anche il rapporto con Dio non può pretendere di essere immediato e ha bisogno d’un terzo, in questo caso d’un terzo umano. Rimanere ‘soli’ con Dio senza un terzo è pericolosissimo,6 vorrebbe dire la presunzione d’interpretare da soli la sua volontà e la sua parola, o la pretesa d’una intimità con lui astratta e velleitaria, che non passa attraverso il simile da amare e soccorrere in modo molto concreto, o l’incapacità di cogliere le tante tracce di Dio disseminate nell’umano, specie in quell’umano che è debole. Poiché Dio, quel Dio che spesso noi pretendiamo incontrare direttamente, è colui «che si cela nella sua traccia, lascia il tu e si fa terza persona, perché appaia l’altro, gli altri; il Desiderabile sfugge al desiderio e rinvia agli altri, specie se indesiderabili».7

Come dire: se la mistica non è intrisa di storia non raggiunge Dio, certamente non quello di Gesù Cristo.

E come Dio è il necessario passaggio trascendente nel rapporto dell’uomo col suo simile, così l’essere umano è l’altrettanto inevitabile passaggio trascendente nella relazione dell’uomo con Dio.

 

“Il tu è più importante dell’io”8

 

Risultato congiunto di questo principio del terzo, come un percorso a doppio senso, è ancora una volta il senso del legame tra identità e alterità all’interno, in particolare, della fraternità religiosa. Vivere in fraternità vuol dire accettare che sia proprio con questi fratelli e sorelle, che io non ho scelto e dai quali non sono stato scelto, che posso scoprire chi sono e chi sono chiamato a essere.

Come dice p. Radcliffe con provocante chiarezza: «mettersi nelle mani dei fratelli nella professione religiosa è accettare che la propria identità non si trovi più nelle proprie mani. La fraternità è una identità indeterminata», che è l’autentica identità del credente.

E forse proprio questo è anche il senso dell’obbedienza, dell’obbedienza fraterna. Per questo stesso motivo lo stesso Radcliffe afferma d’essere stato sempre contrario, ad es., alla tendenza di chiedere ai fratelli prima d’un’elezione se accetterebbero di essere superiori: “non spetta a me dire se penso di essere in grado di svolgere questo ruolo. Tocca ai miei fratelli fare il discernimento”. Anzi, “l’identità indefinita del voto di obbedienza è un segno di quel cammino verso la conoscenza di sé che noi facciamo con gli estranei sulla strada del Regno. Significa che noi non conosciamo chi siamo senza il povero, l’anonimo e il silenzioso”,9 poiché questa è la storia cristiana: “storia del continuo ed esigente impegno con gli estranei, abbandonando il diritto di decidere chi sono. Nessuno saprà mai chi è senza ognuno degli altri”.10

 

Dall’io al noi (e viceversa): identità e appartenenza

 

Il cerchio s’allarga. Non può restare chiuso all’ambito dei due, della coppia io-tu, ma deve necessariamente estendersi al “noi”, alla comunità, non solo intesa quale molteplicità di relazioni, come abbiamo visto nel punto precedente, ma quale realtà nuova e inedita, che non viene dalla carne e dal sangue, ma che nondimeno deve rispettare certe leggi e dinamiche evolutive se vuol davvero crescere e far crescere.

Vedremo solo un paio di questi principi in modo schematico, come itinerari pedagogici d’integrazione tra il senso d’identità e il senso d’appartenenza, in un cammino di realizzazione personale e comunitaria.11

 

TRIPLICE CAMMINO

DI COMUNIONE

 

Il senso d’appartenenza è il riflesso, sul piano relazionale, del senso d’identità: ognuno si definisce a partire da ciò che è e in cui si riconosce, ma ciò determina per natura sua un’uscita da sé per decidere d’appartenere a qualcos’altro, a dei valori e ideali, e pure a chi, persone e gruppi, l’incarnano. In ogni caso più forte è il senso d’identità, più lo sarà anche il senso d’appartenenza. Di conseguenza, la crescita nell’appartenenza avviene, per un consacrato, lungo le componenti costitutive del carisma, ma ben oltre un’interpretazione puramente individualistica d’esse.

Se dunque tali componenti sono, come sappiamo, l’esperienza mistica, il cammino ascetico e la missione apostolica, questi tre elementi diventano anche la triplice pista di maturazione del senso d’appartenenza, ma operando un passaggio che dall’io conduca progressivamente al noi, o che dalla prospettiva privata apra sempre più alla logica della condivisione dello stesso cammino di santità.

 

Esperienza mistica da condividere

 

All’inizio d’un carisma c’è sempre una teofania, in cui Dio si rivela e mostrando il suo volto svela anche all’uomo il suo volto umano. Il consacrato nasce proprio qui, quando inizia a scoprire il suo io entro questo rapporto con Dio e lascia che il mistero pregato diventi la fonte della sua identità. È la spiritualità che svela l’identità, e dunque lascia intravedere la fonte della comune appartenenza e il luogo ove matura ogni giorno l’autentica fraternità, quella di fratelli resi tali dalla ricerca dello stesso Dio.

E allora la preghiera non può restare un fatto privato, poiché l’appartenenza o «la comunione nasce proprio dalla condivisione dei beni dello Spirito, una condivisione della fede e nella fede»,12 entro una logica di santità comunitaria.

 

Progetto ascetico come norma comune

 

Il processo d‘identificazione dell’io iniziato con l’esperienza mistica continua nel momento ascetico: il mistero dell’io, infatti, è decifrabile solo a condizione che diventi anche realtà operativa e vivente, e il “volto” rivelato nell’esperienza mistica divenga realmente il modo d’essere e agire, d’amare e donarsi del singolo.

La forma proposta dalla teofania diventa così anche norma, regola di vita, punto di riferimento abituale e centrale, cui si deve obbedienza da parte di tutti e da cui sgorga uno stile vitale comune che consente a ciascuno di riconoscersi nell’altro. Il progetto ascetico così concepito non è disciplina, ma segno distintivo che crea senso d’appartenenza all’istituto, mentre la fedeltà di uno sorregge quella di tutti.

 

Missione apostolica comunitaria

 

Si completa qui la rivelazione dell’io, con quell’opera di misericordia corporale o spirituale che caratterizza ogni istituto e che è strettissimamente legata all’esperienza mistica, ove trova le sue radici, e al progetto ascetico, che prepara l’apostolo per un servizio specifico, con un obiettivo, dei destinatari, uno stile… del tutto originali. Appartenere a un istituto vuol dire identificarsi con tutto ciò, non solo compiere un servizio.

Diventa allora importante agire nella missione con stile comunitario. Ovvero con la consapevolezza di operare sempre in nome della comunità e grazie a essa, mai dunque con spirito individualistico-esibizionistico, come se l’apostolato fosse cosa propria, ma camminando assieme, aspettando chi procede più lentamente, condividendo il più possibile fatiche e gioie, nella certezza che per quanto l’apostolo donerà alla comunità sarà sempre molto più quel che da essa ha ricevuto. Allora l’apostolato nutre il senso d’appartenenza e ne è al tempo stesso alimentato; mentre il carisma risplende nella ricchezza complementare dei doni di tutti.

 

DOPPIA

CONSEGNA

 

Il senso d’appartenenza è vero quando è a doppio senso e determina una duplice “consegna”. Quando infatti un religioso si consacra attraverso la professione, si affida all’istituto e l’istituto s’affida a lui. È accolto, ma deve a sua volta accogliere; è figlio, ma dovrà divenire anche padre. Da quel momento la vita della famiglia religiosa s’identifica con la sua, e lui non potrà più pensarsi fuori d’essa. Con questa consegna s’è messo nelle sue mani perché essa lo conduca a Dio; s’affida così alla sua santità e alla sua debolezza, non pretende che sia senza macchia, gli basta sapere che rappresenta la sua via di santità e che lì e solo lì lo raggiungerà la grazia che lo salva, anzi, è già grazia che lui stesso possa esservi accolto con tutto il suo peccato.

Ma anche l’istituto si mette nelle mani del singolo; da quel momento la santità dell’istituto dipenderà anche da lui, e lui sarà responsabile della crescita d’ogni fratello e chiamato a farsi carico della debolezza d’ognuno, anzi, a riconoscere che quella debolezza è la via misteriosa lungo la quale Dio gli viene incontro.

Esser membro d’una comunità è celebrare assieme la comunione dei santi e dei peccatori, e imparare a condividere sempre più il bene, i doni dello Spirito, ma anche il male, ovvero l’inevitabile esperienza del limite personale e comunitario. Quando, infatti, s’impara a riconoscere assieme dinanzi alla stessa misericordia divina infermità e povertà personali, in quel momento è come se il male perdesse la sua carica diabolica dirompente e lacerante, e, invece di riprodursi, si trasformasse misteriosamente in dono divino, in esperienza di grazia che s’effonde come rugiada su tutti, in coscienza della propria debolezza e dello stesso comune bisogno di perdono, in coraggio di rispondere al male con il bene, con la voglia di costruire insieme, con la beatitudine della mitezza, in momento di coesione, in gioia rinnovata di stare insieme, in senso d’appartenenza sempre più intenso…

Soprattutto in modello di fraternità e di riconciliazione che possiamo e dobbiamo offrire come buona novella al mondo d’oggi, perché il male non si riproduca uccidendo tutti, ma sia vinto dal bene, per il bene di tutti.

 

Amedeo Cencini

 

1 P.G. Cabra, Per una vita fraterna. Breve guida pratica, Brescia 1998, p.17.

2 Cf F. Scalia, Dopo l’undici settembre, in “Presbiteri” 35(2001), 643.

3 Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, La vita fraterna in comunità 39.

4 Ho approfondito questo punto in A.Cencini, Dalla relazione alla condivisione. Verso il futuro…, Bologna 2001.

5 La vita fraterna 39.

6 Cf. Cencini, Dalla relazione, 48-56.

7 Cf. P. Sequeri, Obbedienza come consegna alla volontà de “il Terzo”, in AA.VV., L’obbedienza torna virtù, Fossano 2000, p.142.

8 P. Giannoni, Monaco e prete diocesano, in Il Regno/Attualità, 10(1997), 320.

9 T. Radcliffe, Forti nella debolezza, in Testimoni, 20(2004), 28.

10 Ibidem. Simpatico e ricco di senso quanto si racconta di H.Camara, il quale, quando sentiva che la polizia aveva preso e messo in galera un pover’uomo, telefonava ai poliziotti per dir loro: “Ho sentito che avete arrestato mio fratello”, e i poliziotti, chiedendo scusa: “Eccellenza, che sbaglio! Non sapevamo che fosse suo fratello. Sarà subito rilasciato!”. E quando l’arcivescovo si recava alla stazione di polizia per prendere l’uomo, trovava i poliziotti un po’ sorpresi e disorientati: “Ma, Eccellenza, quello là non ha il suo stesso cognome”. E Camara rispondeva allora che ogni persona era suo fratello e sorella, anche i poliziotti…

11 R.Williams (arcivescovo anglicano di Canterbury), cit. da Radcliffe, Forti, 29.

12 Cf. su questo punto A.Cencini, Fraternità in cammino. Verso l’alterità, Bologna 2000, 78-87.

 


BREVE CORSO

SULLA VITA CONSACRATA

 

Nonostante il titolo,1 che può far pensare a qualche cosa di arido, siamo in presenza di pagine godibili e invitanti, dove la lunga esperienza di vita e di insegnamento permettono all’autore di dire l’essenziale in forma chiara e piacevole. «Per entrare nel mistero della vita consacrata, un mistero che nasconde intense vicende interiori, sarebbe necessario ripercorrere la sua lunga storia – iniziata con il fascino di Cristo e continuata dall’opera dello Spirito – [...] Questo non solo perché la vita consacrata è vita vissuta, prima di essere teologia o spiritualità o regolamentazione canonica, ma soprattutto perché non esiste una forma unica o ideale di vita consacrata» (p. 5).

 

TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ

NELLA STORIA

 

La prima parte del libro è dedicata alla storia, per presentare tutta la ricchezza teologica e spirituale sviluppata e trasmessa dalla vita religiosa. La rivisitazione storica tuttavia non è centrata sui fatti o sui personaggi, ma è una presentazione ragionata delle teologie e delle spiritualità accumulate nei secoli.

E se da una parte viene messo in risalto l’enorme patrimonio di esperienze spirituali della vita consacrata, dall’altra, ancorando appunto la riflessione alla vita, viene evitato il pericolo sempre in agguato di fare una trattazione ideologica della vita consacrata.

Possono così essere passate in rassegna le teologie e le spiritualità del monachesimo nel primo millennio, quali ad esempio quelle del deserto, del martirio, dell’imitazione degli apostoli, della vita angelica, del segno escatologico, delle due vie.

Entrando nel secondo millennio emergono le teologie e spiritualità dei tre consigli evangelici, dello stato di perfezione, della vita mista. Mentre dopo la riforma vengono elaborate le teologie e le spiritualità della missione, della vita diaconale, del fondatore e, più vicini a noi, della laicità consacrata.

Interessante e utile ci sembra l’aggancio continuo con l’esortazione apostolica Vita consecrata, che appare in tal modo come il punto di arrivo e di convergenza di una corrente di santità millenaria, dalle molteplici realizzazioni e tematizzazioni.

La lettura di queste pagine scorrevoli e agili è arricchente, anche perché esse presentano provocazioni essenziali che stimolano il desiderio d’ulteriore approfondimento.

 

CONCILIO

E POSTCONCILIO

 

Particolarmente nuova è la breve e densa trattazione della vita consacrata nel concilio Vaticano II e negli anni agitati del postconcilio. Una trattazione utile anche per comprendere molte cose del momento attuale.

La rivisitazione storica si conclude con la presentazione della esortazione apostolica Vita consecrata, fatta da una mano sicura che sa evidenziare i nodi essenziali e le problematiche soggiacenti, non sempre e non da tutti colti nel giusto modo, anzi spesso banalizzati o distorti.

La seconda parte è dedicata a una visione sintetica della vita consacrata «quasi un catechismo elementare e una pista per ulteriori approfondimenti».

Le pagine sull’approccio scritturistico sono limpide e convincenti: la vita consacrata prima di formarsi su alcune parole di Gesù, si basa su Gesù Parola, venuto a noi nella forma di vita povera, casta e obbediente. Ma ci sono anche gli altri approcci sia quelli tradizionali, sia quelli evidenziati dalla più attenta esegesi contemporanea.

L’approccio teologico è una esplicitazione e un’applicazione della teologia del Vaticano II e di Vita consecrata. Di questo documento sono messi in risalto le chiarificazioni e i progressi teologici, frutto anche del dibattito sinodale e delle richieste e delle sollecitazioni pervenute nel sinodo dei vescovi da tutte le realtà ecclesiali ivi rappresentate.

L’autore si mantiene sul terreno sicuro dell’insegnamento della Chiesa, sui punti più controversi quali l’identità della vita consacrata, i consigli evangelici, gli stati di vita, per i quali sembra giunto il momento di approfondire e assimilare la ricca dottrina offerta dalla Chiesa, prima di addentrarsi in percorsi personali.

Più attenti all’attualità sono i capitoli dedicati alla missione e ai singoli consigli evangelici, con continui riferimenti alle difficoltà, alle sfide e alle opportunità che vengono dal momento attuale. Pur senza nascondersi i seri problemi che il presente pone alla vita consacrata, queste pagine fondano una motivata speranza per l’oggi e per il futuro. Conclude un agile capitolo sulla vita fraterna in comunità.

 

Questo in breve il contenuto. Ma il libro, che non pretende di essere un trattato esauriente, ma una presentazione sintetica del grandioso fenomeno della vita consacrata, verrà letto con gusto, come già detto, anche perché si mantiene sempre aderente alla realtà. Siamo in presenza di pagine che, una dopo l’altra, aiutano a crescere nella stima e nell’amore alla vita consacrata, dove realismo e indicazioni delle mete sono costantemente animate da una convincente spiritualità.

A chi può essere utile un’opera del genere?

Prima di tutto ai destinatari per cui è stata originariamente pensata: gli alunni dei brevi corsi di vita consacrata che alcuni seminari diocesani inseriscono nel curriculum degli studi teologici. (L’a. ha offerto questo corso proprio agli studenti di teologia del Seminario diocesano di Brescia). Inoltre sarà di grande utilità per la formazione permanente delle persone consacrate, qualora si volessero riprendere gli elementi fondamentali della vita consacrata, per una revisione d’insieme.

Formatori e persone in formazione troveranno un sussidio completo nella sostanza senza che sia scoraggiante per mole o per verbosità. Già le precedenti opere di P.G. Cabra avevano fornito ampiezza di dottrina e soprattutto una rivisitazione degli aspetti più affascinanti perché più veri della vocazione e della missione della vita consacrata. E sono ancora di grande aiuto sia per il discernimento che per l’accompagnamento delle nuove vocazioni. Queste pagine hanno il vantaggio di una completezza pur nella brevità, appetibili anche per chi volesse avere una prima idea globale della vita consacrata, vista come vita e come elemento essenziale della vita della Chiesa.

La sicura dottrina e lo stile accattivante possono riavvicinare anche i più tiepidi estimatori di questo peculiare genere di vita, considerato a volte e a torto, il parente povero (solo teologicamente?) nell’attuale congiuntura ecclesiale.

Un’opera che rafforza il senso di identità e di appartenenza nelle persone consacrate, senza coltivare sensi di superiorità o di inferiorità. «L’insistenza sull’identità della vc è per rendere coscienti le persone consacrate e l’intero popolo di Dio della dignità e della missione della vc e quindi della sua importanza nella Chiesa. La sua nobiltà è quella della croce, nobiltà a cui tutti sono invitati e alla quale essa invita. L’esaltazione della vc appartiene all’esaltazione della croce del Signore Gesù: nulla di più umiliante, nulla di più divinizzante!» (p. 173). P. Cabra insiste con il consueto entusiasmo sul sentirsi responsabili di una grande storia da continuare, storia che, appunto perché non è mai stata facile, è stata una “folle corsa”, che ha animato e sostenuto il cammino di intere generazioni e di persone mosse dall’amore del Signore.

 

C. F.

 

1 P.G. CABRA, Breve corso sulla vita consacrata, Queriniana, Brescia 2004, pp. 272, € 17.