SIAMO TUTTI STRANIERI E OSPITI

 

Come il Tarabas sul quale il grande scrittore austriaco Joseph Roth ha lasciato uno dei suoi libri più suggestivi, ognuno di noi è non più che «un ospite su questa terra»: qualsiasi traccia di bene o di male possiamo imprimervi è impronta labile di viandanti, ricordo più o meno sbiadito di ospiti di passaggio. Ma da ben prima di Roth la sacra Scrittura ci invita a persuaderci, a conferma autorevole della comune esperienza, che «non abbiamo quaggiù una città stabile» (Eb 13,14) ma ci spostiamo di frequente (usciamo «dall’accampamento»!) nel cercare quella futura.

Se apriamo subito il capitolo dedicato agli scritti di Pietro e di Paolo in un bel libro fresco di stampa di Massimo Salani,1 troviamo che nel primissimo pensiero fondante il cristianesimo la vita terrena «è vista come un passaggio ineludibile, un pellegrinaggio (compiuto in compagnia di altri viandanti) che impedisce il radicarsi, l’immobilismo, l’attaccamento che, spesso, si traducono in chiusure verso gli altri»: chiusure dell’anima, destinate a chiudere porte di case e di città, a dire no a persone e a popoli.

A scongiurare specialmente oggi, a causa della mobilità che caratterizza per motivi anche estremi la situazione mondiale, il pericolo di chiusure sempre più nefaste per l’umanità, l’atteggiamento di apertura verso il prossimo sul piano spirituale deve passare alla testimonianza concreta di quella capacità di dialogo, che non è soltanto dei cristiani, a partire dalla religione.

Intento dell’autore di questo libro, pertanto, è quello di aiutare a riconoscere nelle tre religioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam – le potenzialità più significative in favore dell’accoglienza degli stranieri. E propone a tal fine una lettura e un’analisi dei tanti testi sacri che dimostrano come, in base, appunto, a una reciproca accoglienza scevra da pregiudizi, le tre religioni «unite nella fede del Dio unico, seppur portatrici di un sistema religioso particolare non sempre capace di facilitare il processo di integrazione tra i popoli, hanno tutte gli strumenti che possono contribuire alla realizzazione di una convivenza pacifica, tollerante, in grado di rispettare la dignità dell’uomo. Lo strumento principale a esse familiare è la parola di Dio», presupposto imprescindibile a ogni dialogo che da parte degli appartenenti alle tre fedi voglia essere interreligioso.

 

DALLA VOCAZIONE

DI ABRAMO

 

Nell’Antico Testamento, a cominciare dalla raccolta di leggi chiamata Codice dell’alleanza che si trova fra i libri che compongono la Torah, si possono leggere testi che spiegano a Israele le ragioni obbliganti a rispettare gli stranieri. Tra questi, Es 22,20 lo ammonisce: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Es 22,20).

Aver vissuto da stranieri in terra d’Egitto era stato per il popolo eletto un’esperienza così sconvolgente che dovette scaturirne un tale senso di solidarietà con i forestieri nel proprio territorio che – fa osservare l’autore – nel libro del Levitico (cf. 19,33-34) la considerazione per l’altro raggiunge il suo vertice: vi si prescrive infatti che il forestiero venga trattato addirittura come un nativo di Israele e gli sia garantito anche il soggiorno; ed è il Signore a parlare, e: «tu l’amerai come te stesso»!

Segue il ritornello che attraversa tutti, si può dire, gli scritti della Torah: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto»; così che a quel ricordo la stessa memoria del cammino di liberazione, percorso con la guida di Mosè e in forza del “braccio potente” di Dio, verso la terra promessa vi rimane associata per sempre.

Tuttavia – avverte Salani – è indispensabile mettere in evidenza come prima ancora della missione affidata dal Signore a Mosè «l’essere forestiero fosse una condizione che gli israeliti conoscevano bene. La prima chiamata di Dio è un invito a essere straniero!».   

È la vocazione di Abramo, la cui estraneità in qualsiasi luogo tenti di stabilirsi è come una sorte che segna anzitutto i patriarchi, «tutti caratterizzati da un continuo soggiorno nella terra promessa ma nella sola veste di ospiti, di viandanti, di stranieri». Vocazione che, come la storia e non solo quella sacra documenta, si riverserà su tutto Israele il quale a più riprese è tornato a essere straniero fra i popoli, ad appendere più volte le cetre ai salici di terre inospitali. E si pensa alla «dura stagione del VI secolo a.C., che un autore ha mirabilmente tratteggiato componendo il salmo 137», nonché ad altrettanto mirabili testi dei Profeti.

 

NELLA STORIA

DI GESÙ

 

E che dire del Nuovo Testamento? Che dire di Gesù, «che in quanto ebreo non poteva che risentire di quel clima» così diffuso nella sua terra; di lui che non provò mai imbarazzo nei riguardi di categorie le più disparate nella società ebraica, stranieri e forestieri, ma anche donne, eretici, peccatori? E che sapeva dalla propria storia personale (cf. la genealogia di lui nel Vangelo di Matteo) di essere segnato dalla presenza di donne straniere «prima ancora che il Figlio di Dio si incarnasse in Maria»?

«Noi cristiani non possiamo dimenticare le origini di Gesù: conoscerle e ricordarle, senza pregiudizi e semplicemente rimanendo fedeli alla Parola, renderà più semplice comprendere l’atteggiamento di Gesù nei confronti delle donne in generale e, per quel che ci interessa ora, degli stranieri e dei forestieri».

Con grande delicatezza, perciò, l’autore sottolinea il fatto che «Gesù invita esplicitamente i suoi seguaci a predicare la buona novella agli ebrei (Mt 10,5-6) e non ad altre persone», così che i primi a riceverla erano stati gli appartenenti al popolo dell’alleanza. Ma egli estende poi a tutti, uomini e donne, stranieri residenti nella terra promessa e forestieri, l’invito a riconoscere i segni dei tempi e la venuta del Messia.

Al forestiero egli stesso si assimila: «Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35); la sua parabola del buon samaritano rimane come luogo dell’identificazione più toccante del prossimo straniero secondo Gesù; e per l’annuncio fatto dalla donna incontrata al pozzo di Giacobbe molti samaritani credettero in lui e lo riconobbero, “straniero”, quale salvatore del mondo.

 

NEL CORANO, IL FIGLIO

DELLA STRADA

 

Dopo un denso excursus storico, sull’argomento, tra i primi secoli del cristianesimo e l’attuale magistero della Chiesa in ordine all’accoglienza degli stranieri, l’autore propone di riflettere su importanti schegge di storia spesso dimenticate anche per quanto riguarda i testi coranici e l’atteggiamento da questi proposto all’islam verso lo straniero, il “figlio della strada”.

A partire dalla situazione creatasi in Spagna già prima della Reconquista, «quando nella penisola iberica convivevano pacificamente le comunità ebraiche e la Chiesa cristiana, entrambe pienamente inserite nella società musulmana», il quinto capitolo del libro attira l’attenzione su tale clima di tolleranza reciproca, e prosegue segnalando la situazione culturale che si venne a creare dopo l’arrivo dell’islam in Italia, dalla conquista della Sicilia nel IX secolo all’epoca delle signorie e oltre fino ai giorni nostri.

Ma pure nel Corano, al di là di ogni pregiudizio storico e religioso e senza voler azzerare le differenze, possiamo cogliere – fa presente l’autore – diversi punti comuni con l’ebraismo e il cristianesimo: una piena legittimazione del pluralismo sociale e religioso, «l’amore verso gli altri, con i quali i musulmani condividono importanti convinzioni teologiche», il rispetto per il viandante, il “figlio della strada”, fino a quanto si legge nella sura XXIX, 46: «Con le genti della scrittura (...) esprimetevi così: “Crediamo a ciò che è stato rivelato a noi, crediamo a ciò che è stato rivelato a voi. Il nostro Dio e il vostro Dio è uno solo”».

 

Z.P.

1 SALANI M., Il figlio della strada. Per una fede che accoglie, EDB, Bologna 2004, pp. 104, € 7,50.