RUOLO DELLA VITA CONSACRATA
IN EUROPA OGGI COME IERI
La vita consacrata è
stata determinante fin dalle origini nell’infondere un’anima all’Europa che è
andata poco alla volta formandosi e strutturandosi.
Oggi questa sua
missione continua, ma con accentuazioni e modalità diverse.
Il cristianesimo ha trovato nel movimento monastico prima, e poi nelle
varie forme di vita consacrata sorte al suo interno, strumenti particolarmente
efficaci per l’opera di inculturazione del messaggio evangelico.
Un primo fondamentale punto di riferimento nella nascita dell’Europa va
ricercato in Benedetto da Norcia e nel movimento monastico che ha preso da
lui origine. Per comprendere appieno il valore della sua opera occorrerebbe
collocarsi nel progressivo impoverimento e sconvolgimento dell’impero romano
con i conseguenti problemi che hanno caratterizzato tutta un’epoca: la
trasmigrazione dei popoli, l’inculturazione, il lavoro.
L’apparire nell’Europa occidentale dei nuovi popoli dell’est, aveva posto
il continente in uno stato di costante mobilità e irrequietezza, con notevoli
ripercussioni nella vita stessa della Chiesa. A questo stato di cose Benedetto
contrappone la stabilitas loci.
I monasteri diventeranno progressivamente i punti fermi, potenti luoghi
catalizzatori, attorno ai quali si
coaguleranno le orde che i latini chiamavano “barbariche”, per la costruzione
della nuova civiltà medievale.
Lo spostamento dei popoli mette inoltre a confronto culture diverse:
romani e barbari si trovano improvvisamente gli uni di fronte agli altri. In
questa crisi epocale il monastero si rivela centro di fusione delle molteplici
culture e al fuoco della fraternità e dell’amore evangelico insegnato da
Benedetto nasceranno espressioni culturali e sociali originali. Il monastero
salva l’intero patrimonio dell’antica cultura greco-romana che il
cristianesimo aveva saputo assimilare, custodire e trasformare e si apre alle
nuove correnti di pensiero portate dagli slavi, dal celti, dai sassoni,
offrendo l’esperienza cristiana come comune base di dialogo e di confronto. La
nuova sintesi culturale e politica da cui è nata l’Europa occidentale,
espressasi nell’unità dei vari sacri romani imperi, si è formata in certo modo
attorno al monastero benedettino.
Al suo interno viene abolita la divisione tra schiavi e liberi, tra nobili
e plebei. «L’abate – leggiamo in un articolo della Regola che rivoluziona il
costume sociale – non faccia distinzione di persone in monastero... Non
anteponga mai il nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione
di schiavo... E se, per esigenza di giustizia, l’abate decide di promuovere un
fratello, egli lo faccia prescindendo dalla considerazione della classe
sociale cui il monaco apparteneva. Per il resto, ciascuno tenga il proprio
posto, perché schiavi o liberi tutti siamo uno in Cristo» (RB, 2, 16-19). Qui
viene insegnata a tutti, compresi i nuovi popoli, la dignità del lavoro,
ponendo le basi per un rilancio dell’agricoltura e dell’economia curtense,
tipica del primo medioevo. Nell’equilibrio dell’ora et labora viene infatti
riportato l’uomo alla sua più autentica e profonda dimensione terreno-divina,
aprendo la strada per un nuovo umanesimo. La pax benedictina, nata nella
profondità dello spirito, ha la capacità di riversarsi dal monastero sull’intera
società trasformandosi in pax sociale.
Accanto a Benedetto, Giovanni Paolo II ha posto nuovamente in evidenza
«l’attualità sempre viva» di Cirillo e Metodio «come concreti modelli e
sostegni spirituali per i cristiani della nostra età e, specialmente, per le
nazioni del continente europeo» (Slavorum apostoli, 2). Ciò che è stato
Benedetto per l’occidente lo sono stati Cirillo e Metodio per i popoli slavi.
«Tutte le culture delle nazioni slave debbono il proprio inizio o il proprio
sviluppo all’opera dei fratelli di Salonicco». Essi infatti crearono
l’alfabeto per la lingua slava e diedero un contributo fondamentale alla
cultura e alla letteratura delle nazioni slave. Per questo «la loro opera
costituisce un contributo eminente per il formarsi delle comuni radici
cristiane dell’Europa» (ibid., 21.25).
LO SVILUPPO
MEDIEVALE
Il progetto benedettino è stato più volte rilanciato lungo il medioevo e
riattualizzato dalle differenti riforme monastiche. Particolarmente
significativa appare l’esperienza cistercense, che ha trovato in Bernardo di
Chiaravalle il suo uomo di punta. Come Benedetto si colloca in un momento critico
segnato dal sopraggiungere dei nuovi popoli e come Cirillo e Metodio al
sorgere delle nuove nazioni slave, anche Bernardo vive in un’epoca di profondi
mutamenti e contraddizioni. Al suo secolo, il XII, sono stati attribuiti
appellativi quali “rinascita”, “rinascenza”, “rinascimento”, a indicare le
trasformazioni economiche, politiche, della scienza, del diritto, della cultura
in tutti i suoi vari aspetti. D’altra parte sta maturando un graduale progetto
di invasione da parte dell’islam, con la minaccia della distruzione
dell’Europa cristiana.
In questo contesto andrebbe descritta la formidabile influenza avuta da
Bernardo, «il personaggio più in vista dell’Europa», e dal suo ordine nel campo
sia ecclesiastico che civile del proprio tempo. Le abbazie cistercensi, che a
centinaia, con rapidità sorprendente, pervadono l’intera Europa, diffondono
ovunque questo ideale di unità, che d’altra parte era già racchiuso nella
charta caritatis, il principale documento di fondazione.
Gli ordini mendicanti si collocano, a loro volta, in un ulteriore momento
delicato di transizione.
La trasformazione dell’Europa, nel XIII secolo, è insieme politica e
culturale. Il medioevo perde gradatamente la propria struttura feudale che
aveva garantito l’unità dei popoli, e procede verso nuove conquiste come
quella della libertà, dello scambio commerciale, della ricchezza economica.
Gli ordini mendicanti sanno interpretare le nuove sensibilità e le nuove
esigenze popolari. Introducono la povertà evangelica come via concreta e
atteggiamento indispensabile per un nuovo equilibrio sociale politico economico:
per poter dare tutto, occorre essere spogliati di tutto.
Francesco d’Assisi invece, e con lui Domenico di Guzman e gli altri
iniziatori dei movimenti mendicanti, rilancia un nuovo stile di vita
itinerante consono ai nuovi tempi e impossibile al monachesimo. Se infatti
nel periodo di Benedetto era necessaria la stabilità come freno alla troppa
mobilità dei popoli nuovi, ora è tempo di una nuova agile elasticità, che
faciliti il contatto con la gente, specialmente con la città, e lo spostamento
rapido in una itineranza scaturita dalle crociate e dai commerci. La vita
consacrata pone così, ancora una volta, le basi per una nuova libertà e unità
dei popoli.
STATI E SCUOLE
DI SPIRITUALITÀ NAZIONALI
Le spiritualità medievali, pur localizzabili nelle loro origini, non erano
strettamente legate alle nazioni. Il vivo senso della cristianità era favorito
dall’unità linguistica e culturale. Per loro natura restavano sovrannazionali.
Con l’avvento dell’umanesimo e del rinascimento (fenomeni culturali), e il
sorgere degli stati nazionali (fenomeno politico), assistiamo al nascere di
scuole di spiritualità con caratteristiche nazionali, che esprimono e, nello
stesso tempo, contribuiscono a creare la cultura di un determinato popolo.
Accenni a questa tendenza sono già riscontrabili alla fine del secondo
medioevo, quando ad esempio vediamo sorgere la cosiddetta mistica “renana”,
la “devotio moderna”, legata alla scuola fiamminga. Contemporaneo al movimento
spirituale in Germania e nei Paesi Bassi sorge un movimento inglese, che
possiamo vedere simboleggiato in una famosa opera del XIV secolo: La nube della
non conoscenza.
Tuttavia le correnti spirituali tardo-medievali, anche quando nascono in
ambienti geografici determinati, continuano a mantenere uno spirito
sovrannazionale.
Il fenomeno del legame tra nazione e spirituale viene comunque a
intensificarsi con il sorgere stesso di stati ben stagliati, che presentano una
propria fisionomia, all’interno dell’Europa. Si formano allora una spiritualità
fiamminga, italiana, spagnola, francese..., nelle quali è dato di individuare
una costante nel rapporto tra cultura e spiritualità. A mano a mano che le culture
si diversificano, si diversificano anche le spiritualità. L’espressione
massima della produzione spirituale e mistica dei Paesi Bassi coincide con il
periodo aureo di questa regione dal punto di vista economico, artistico,
culturale. La spiritualità carmelitana di Teresa d’Avila e Giovanni della
croce si sviluppano all’interno di una scuola spagnola e la portano al suo massimo
splendore. Conosciamo, alla fine del ’500, una scuola italiana (Antonio M.
Zaccaria, Gaetano da Thiene, Filippo Neri, Scupoli...). Il ’600 offre un’altra
scuola nazionale, quella francese (Francesco di Sales, Lallemant, Bérulle,
Olier...). Anche in questi casi si può notare come i secoli d’oro
dell’Italia, della Spagna, della Francia, coincidano con le espressioni più
felici della produzione spirituale e mistica. Sempre in questo periodo
vediamo svilupparsi una spiritualità russa, che acquisterà piena coscienza di
sé nell’800. Accanto alle spiritualità cattolica la Riforma, accelerando il
fenomeno dell’identità nazionale, dà il via alla nascita di una spiritualità
protestante e anglicana.
Non può essere diversamente se teniamo conto dell’intrinseca unitarietà
dell’uomo. La sua piena realizzazione è necessariamente integrale. Cultura e
spiritualità crescono o decrescono insieme, espressione dell’unico uomo.
Pur accentuandosi il carattere nazionale è ugualmente evidente la reciproca
influenza tra le differenti spiritualità. Quella francese, ad esempio, è
fortemente debitrice all’esperienza nordica, spagnola e italiana. Il circolo
di madame Acarie, con in testa Benedetto Canfield, ha introdotto nell’ambiente
parigino le opere dei mistici renano-fiamminghi, di Caterina da Genova, dello
Scupoli, dei carmelitani spagnoli. Anche Francesco di Sales ha conosciuto gli
scritti degli autori fiamminghi, italiani e spagnoli. Bremond, per rimanere
nel campo francese, ha messo in rilievo l’influsso determinante sul giovane
Bérulle del Breve compendio intorno alla perfezione cristiana dell’italiano
Achille Gagliardi.
Alcune esperienze sembrano addirittura continuare a trascendere, come nel
medioevo, concezioni nazionaliste. Abitualmente si colloca Ignazio nella scuola
spagnola, ma come ignorare l’esperienza francese, fiamminga, italiana di
questo santo e il carattere marcatamente internazionale del primo gruppo di
gesuiti? Con la loro cultura hanno continuato a forgiare l’unità europea.
Alla stessa unità hanno contribuito i cappuccini universalizzando la
spiritualità.
Anche altre esperienze sembrano trascendere lo spazio di un popolo per un
respiro più universale. In tempi più recenti si può pensare ad esempio a
Newman, don Bosco, Teresa di Gesù Bambino...
In ogni caso il moltiplicarsi delle spiritualità e il loro legame con
l’ambiente culturale d’origine, che conferisce ad esse aspetti particolari,
non impedisce che vi sia fra tutte una continua mutua connessione. Così le
spiritualità non solo quindi generano cultura, ma si rivelano anche come
fattore di rapporti tra culture. Poiché una profonda e sostanziale unità
pervade le spiritualità, per quanto differenti possano apparire, è evidente
che esse alimentano le differenti culture europee dei medesimi valori evangelici.
DIALOGO E COMUNIONE
TRA LE SPIRITUALITÀ
Sarà lo stesso anche nel presente e nel futuro? Abbiamo soltanto una
gloriosa storia da ricordare e raccontare o non anche una grande storia da
costruire? (cf. Vita consecrata 110) E a quale condizioni le forze spirituali
ecclesiali potranno contribuire all’unità dei popoli? Vi sarà un nuovo
“monastero” sull’esempio di quello benedettino o cistercense, capace di
costituire quel luogo di incontro che diventi crogiuolo per la creazione di
nuove esperienze culturali unitarie?
L’Europa possiede una ricchezza unica nella molteplicità di spiritualità e
di opere che da esse traggono origine e sono alimentate. Di fatto spesso si ha
l’impressione che tanta ricchezza rimanga inutilizzata o non sprigioni tutta la
forza di cui sarebbe capace. Come fare perché tornino a essere stimolo per una
nuova cultura europea che non potrà mai prescindere da quelle radici
cristiane che proprio le spiritualità hanno approfondito?
Se guardiamo alla situazione della vita consacrata oggi in Europa possiamo
avere un duplice atteggiamento: di disperazione o di speranza.
La disperazione ci viene se guardiamo al pauroso calo dei membri,
all’invecchiamento, alla carenza di nuove vocazioni, alla chiusura di case e
opere.
La speranza viene dalla inaspettata vitalità delle nuove fondazioni, circa
300, negli ultimi 20 anni. La creatività dello Spirito si manifesta soprattutto
nelle nuove comunità, nei movimenti ecclesiali, nei variegati gruppi
carismatici. È un pullulare di vita fresca e giovane. Gli istituti “storici”
vedono con gioia il nascere di queste nuove forme di vita consacrata, capaci di
coinvolgere istituzionalmente laici e consacrati, famiglie e celibi; così come
gli ordini monastici vedevano con gioia l’avanzare del nuovo movimento
mendicante all’inizio del XIII secolo.
Non si può tuttavia evitare di formulare con chiarezza una domanda che
serpeggia, più o meno consciamente: il futuro sarà soltanto del nuovo? Per le
istituzioni antiche non c’è più speranza? Sono esse destinate a scomparire? Se
fosse così è inutile parlare del nostro contributo all’Europa.
TRE PISTE
PROVOCATORIE
Prospetto tre piste, che indico con parole volutamente provocatorie:
inutilità, distrazione, vulnerabilità della vita consacrata, convinto che,
anche in Europa, la vita consacrata ha un futuro non meno ricco del suo
passato.
La “inutilità” della vita consacrata
I grandi documenti ecclesiali dedicati alla vita consacrata raramente sono
recepiti a livello teologico e pastorale. Dal punto di vista teologico la vita
consacrata è considerata un optional, un ornamento nel grande disegno
ecclesiale, anche se circondato da rispetto e venerazione. Altrettanto si può
dire sul piano pastorale. Si ha l’impressione che ciò che conta veramente nella
Chiesa, anche se non lo si dice espressamente, è il clero diocesano, tutto il
resto è un contorno utile ma secondario.
Quando dall’ambito ecclesiale passiamo a quello civile e sociale la
situazione appare ancora più critica. Essere religioso o religiosa spesso in
Europa è considerato come una diminuzione sociale, se non addirittura un non
senso. Il secolarismo, nelle sue mille forme, legge la vita religiosa come un
residuato del passato, inattuale, inadeguato alla vita moderna.
In una parola, radicalizzando l’analisi, sia dal punto di vista ecclesiale
che sociale la vita consacrata è percepita come inutile. Se ne può fare a meno,
si dice in ambito ecclesiale; sarebbe bene farne a meno, si dice in ambito
sociale. Ed è qui, in questa sua debolezza, che la vita consacrata può trovare
un suo punto di forza.
In una società che ostenta efficientismo, consumismo, utilitarismo, la vita
consacrata si muove in altra direzione. In questa nostra Europa non c’è più
niente di disinteressato, di gratuito. Tutto ha il suo tornaconto ed esige un
guadagno. Anche tanti istituti religiosi sono stati tentati, e forse lo sono
ancora, di apparire forti, “utili”: scuole preparate, ospedali efficienti… È un
dramma quando a causa dei cambiamenti sociali e politici, o per la mancanza di
forze, ci si accorge di diventare socialmente inutili.
Dal Settecento in avanti governanti “illuminati” hanno cercato di
distinguere tra istituti religiosi utili alla società e istituti inutili. I
primi erano da promuovere, i secondi da sopprimere. Oggi, se già non lo
facessero gli altri, dovremmo dichiararci tutti inutili.
Non affanniamoci più a domandarci se serviamo a qualcosa. La vita
consacrata avrà un futuro se ritroverà la gratuità del suo essere. È la
parabola dell’unzione di Betania, una storia che si ripete anche oggi. È la
storia di Francesco, uno dei giovani che anni fa si presentò alla porta della
mia comunità e che oggi è religioso. «Aprirò le strade al Signore», rispondeva
a chi gli domandava perché un ingegnere civile avrebbe dovuto farsi
missionario. Era alla fine dell’università quando sentì la chiamata. Gli amici
erano insorti contro il progetto folle: «Hai studiato tanti anni, stai per
laurearti brillantemente, hai già proposte allettanti d’impiego, e lasci tutto?
Sei impazzito?». Quando arrivò la laurea e le offerte di lavoro si fecero
incalzanti e seducenti, il dubbio lo assalì e anche lui si domandò perché
sprecare gli anni più belli, perché sprecare tanto impegno e tanto studio.
Entrò in chiesa, come ogni mattina, e ascoltò il vangelo di Maria di Magdala
che profuma i piedi di Gesù. In un intenso gesto d’amore la donna non soltanto
lo aveva accolto in casa sua, ma aveva comprato un vaso di nardo, di ingente
valore, e non esitò a infrangerlo per Gesù. «Perché tanto spreco?», si udì
gridare mentre la fragranza dell’odore riempiva la casa. «Lo ha fatto per me»,
rispose Gesù. Francesco ascolta quel dialogo con in mano la sua laurea di
ingegnere: «Sì, anch’io l’infrango ai tuoi piedi, la spreco per te».
La vita consacrata, per affrontare il futuro, deve ritrovare il suo senso
più profondo nel suo nonsenso. Nessuna motivazione umana tiene alla lunga nella
rinuncia a una famiglia, alla patria, a un lavoro, alla propria realizzazione.
È un nonsenso. Sì, perché il senso è altrove, in un reale vero, concreto, e
insieme invisibile: la rivelazione dell’amore di Dio, la consapevolezza di
essere infinitamente amati da lui, di essere chiamati a vivere con lui e per
lui, la decisione di riamarlo con la sua stessa gratuità e dedizione.
La vita consacrata, prima di essere un’istituzione o un insieme di realtà
oggettive e tra loro complementari, è un rapporto dialogico d’amore intimo e
concreto che si intesse tra Dio e una persona. Dio si apre e si rivela, chiama
e si comunica. Raggiunti da tale amore, alcuni uomini e donne rispondono, e a
loro volta, si aprono e si donano, si trovano coinvolti in un rapporto con lui
che tende alla piena comunione.
La rivelazione di Dio Amore non lascia inerti o indifferenti. Essa
coinvolge la persona in tutta la sua interezza. Fa appello al cuore, alla
mente, alla volontà. In quel «noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore» della
prima lettera di Giovanni (4,16) è espressa l’adesione totale e incondizionata
al dono.
La vita consacrata nasce in questo contesto di manifestazione dell’amore,
quale desiderio di rispondere all’Amore con l’amore. È come spiccare il volo
per essere totalmente in Dio, là dove il suo amore rivela il nostro posto da
tutta l’eternità e per tutta l’eternità. Questa vita di donazione si articolerà
poi in modalità e forme concrete, quali i voti, le strutture di vita
comunitaria, il servizio... Ma esse rimangono sempre strumentali e secondarie
davanti alla motivazione unica: ri-amare l’Amore. Nella vita consacrata il
primato è dell’amore e nell’amore essa trova la sua ragione ultima.
La vita consacrata è nata dal bruciante desiderio di essere totalmente di
Dio, così da poter dire esistenzialmente, con tutto il proprio essere: «Non ho
altro Dio fuori di te», «Mio Dio, mio tutto». Il suo propositum, come si diceva
nell’antichità, ossia la scelta fondamentale e totalitaria, è fare di Dio
l’ideale della vita in una scoperta cosciente e sempre nuova del suo amore.
È questo il nonsenso, l’inutilità che la vita consacrata deve riscoprire.
Non è utilitaristica perché è totalmente gratuita, motivata esclusivamente
dall’amore che, per essere tale, non cerca interesse.
Il fatto che in Europa la vita consacrata si percepisca povera e
marginalizzata è una grande chance. Obbliga le persone consacrate a
interrogarsi sul senso profondo della loro vita. Non devono più preoccuparsi di
apparire, ma di andare alla radice del loro essere, e così ritrovare, anche
davanti alla Chiesa e alla società, la propria vera utilità: segno di un
gratuito e di una libertà ormai smarriti, a cui tanti attendono di essere
ricondotti.
La “distrazione” della vita consacrata
Un secondo punto di attenzione è rivolto a uno dei mali della vita
consacrata in Europa: l’eccessivo “raccoglimento”. Alcuni istituti religiosi
sono concentrati su se stessi, intenti a esaminarsi, ad analizzarsi. Sono
troppo introspettivi, dediti a curare le molte ferite che li bruciano, nel vano
tentativo di darsi un nuovo attraente look. In definitiva sono tentati di
ripiegarsi su se stessi, malati di “ombelichismo”. Hanno bisogno di dis-trazione,
di essere tratti fuori da se stessi, attratti da altro. Potranno così uscire da
se stessi e guarire dalla depressione. Più ritroveranno la loro essenza nella
donazione gratuita a Dio (la loro “inutilità”) più si troveranno spalancati
verso l’esterno, appassionandosi sempre più per la Chiesa e l’umanità.
Il culmine dell’amore è infatti la donazione, come insegna la grande
mistica. Ogni ascesa verso Dio è seguita da una discesa tra gli uomini e le
donne per renderli partecipi dell’esperienza vissuta. Con un’immagine plastica
è stato detto che l’amore, come un metallo, più è ardente più si liquefà e
quindi “scende” nel mondo e si fa “compassione” per l’umanità (è il quarto
grado della violenta carità di cui parla Riccardo di San Vittore). È la via
percorsa da tutti i fondatori e fondatrici che, seguendo Cristo, si sono visti
portati con lui là dove lui è andato: in mezzo ai poveri, a malati, agli
ignoranti, ai peccatori. Con lui hanno istruito, curato, annunciato il Regno…
La pigrizia, la delusione, l’aspirazione al quieto vivere,
l’individualismo, l’adagiarsi nel benessere, il calcolo e la paura del rischio,
la mancanza di forze fresche rischiano di portare lentamente la vita religiosa
europea ad accontentarsi del minimo, ripiegandosi su se stessa. È ora che essa
si “distragga” per guardare fuori di sé, attorno a sé, e si ricordi che essa è
fatta per l’umanità. È ora che ritrovi il senso della donazione verso tutti per
diventare, in mezzo alla gente, l’espressione viva dell’amore di Dio per l’umanità,
così come lo è stato Gesù che «passò facendo del bene a tutti» (At 10, 38).
L’amore che le persone consacrate hanno dentro le proietta costantemente in un
totale dono di sé: poveri, disadattati, vecchi soli e abbandonati, orfani,
handicappati, quanti hanno smarrito il senso della vita… tutti possono trovare
in loro persone pronte ad accoglierli, ad ascoltarli, ad aiutarli a diventare
liberi.
In Europa c’è ancora bisogno della presenza dei religiosi, verrebbe da
dire, oggi che tanti dei loro servizi, negli ospedali, nelle scuole, nelle
strutture assistenziali sono assunti dallo stato? In nessuna epoca, come oggi,
vi è stata tanta offerta di servizi. Eppure tutto questo non ha fatto cessare
nella nostra Europa povertà, solitudine, disperazione. Manca un’anima alle
strutture di servizio, mancano persone che sappiano davvero amare. Non si
diventa suora per fare l’infermiera o l’insegnante o la catechista, ma per
essere una presenza viva di Cristo che ama, che serve, che si prende cura delle
persone in tutte le loro necessità. È così che la suora si riappassiona per il
suo essere infermiera, insegnante, catechista…
Ed è ancora l’amore che spinge religiosi e religiose a partire per i paesi
più lontani per condividere le sofferenze, per insegnare a leggere e a
scrivere, per aiutare a costruire case e ospedali, e così comunicare il
«tesoro» che hanno nel cuore e che diventa sorgente di vita e di speranza in
tanti altri cuori.
L’Europa oggi domanda quell’anima che ha smarrito. «Ridare un’anima
all’Europa», «ritrovare le radici cristiane dell’Europa»: affermazioni che
interpellano fortemente la vita consacrata. Non è stato il monachesimo prima e
poi l’esercito di religiose e religiose a dare un contributo determinante alla
nascita e alla crescita dell’Europa? La vita consacrata ha perduto la forza
propositiva di un tempo? Non c’è più tempo per leccarsi le ferite, quando la
Chiesa e la società chiamano a gran voce. Le proprie ferite guariranno nella
misura in cui la vita consacrata si metterà a curare le ferite che coglie
attorno a sé, spalancando gli occhi sul mondo che cambia per condividere la
gioia e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1), e facendosi sempre più
vicina, prossimo, e amare e servire e dare speranza…
In questa linea si comprende come oggi sia più che mai attuale l’apertura
ai grandi dialoghi indicata da Paolo VI nella sua prima enciclica, Ecclesiam
suam. «Nessuno è estraneo al suo cuore», spiegava il papa parlando della Chiesa,
«nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non
voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è
incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace». E indicava i
quattro dialoghi. Il primo verso l’umanità in quanto tale, anche quelli che si
professano atei. Non è questo un mondo estraneo alla Chiesa perché “tutto ciò
ch’è umano ci riguarda”. Il secondo con i credenti delle varie confessioni
religiose non cristiane. Il terzo con «il mondo che a Cristo s’intitola», le
chiese e le comunità cristiane. Infine quello all’interno della Chiesa
cattolica, un dialogo la cui intensità non avrà mai fine, perché si apre
sull’unità escatologica.
La vita consacrata in Europa non avrà futuro se non prendendo sul serio
questo compito, fatto proprio dalla Gaudium ed spes (n. 92). Lo ha ricordato in
particolare Vita consecrata, che titola il suo ultimo capitolo «Impegnati nel
dialogo con tutti», quasi logica conclusione di tutto il discorso sulla vita
religiosa.
Se prima della secolarizzazione la vita religiosa esplicava la sua missione
di segno attraverso certi valori quali la povertà, la castità, l’abito, uno
stile di vita penitente, oggi che tali “cifre” hanno minore incidenza e
richiamano più il sistema ecclesiastico che non il Regno, il dialogo,
l’apertura, l’accoglienza nell’amore, la comunione possono costituire la nuova
“cifra” più facilmente leggibile e comprensibile, anche il segno per
eccellenza: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore
gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
Nella misura in cui la vita consacrata saprà essere fedele alla sua
vocazione più profonda e, mediante il dialogo della carità, saprà concretamente
aprirsi ed entrare in comunione con altre confessioni, altre religioni, con
tutti gli uomini e le donne di buona volontà, essa ritroverà certamente anche
un nuovo vigore interiore. Donandosi e mettendosi a servizio dell’unità potrà
ricuperare la propria identità e freschezza e crescere verso i nuovi orizzonti
verso cui lo Spirito guida tutta la Chiesa. Solo così ritroverà vita e sarà di
estrema “utilità” per tutti.
La “vulnerabilità” della vita consacrata
Un ulteriore aspetto su cui vorrei portare l’attenzione è l’istinto di
conservazione, di autodifesa che spesso scatta nella vita consacrata in Europa
davanti alla prospettiva della propria estinzione o all’incertezza del futuro.
In alcuni casi essa si esprime in atteggiamenti di chiusura da parte dei
singoli istituti. Si richiamano i membri a fare quadrato attorno al carisma,
alla tradizione, allo specifico, alle opere. Si alza il ponte levatoio per
impedire contaminazioni, pensando così di conservare la purezza della razza. Il
rischio è quello di una certa autarchia e impermeabilità davanti al diverso e
al nuovo, come estrema difesa della propria identità, fino a diventare
finalmente invulnerabili… forse anche ai messaggi che lo Spirito lancia alla
Chiesa di oggi.
Verrebbe da dire: giù le barriere; non abbiamo niente da difendere ma tutto
da dare e da ricevere, in sincera comune tra carismi, ovunque essi siano. Ne
avremmo tutti da guadagnare. Potremo finalmente respirare a pieni polmoni,
aprire gli orizzonti, fare entrare in casa aria nuova. Da solo nessuno dei
nostri istituti potrà rispondere alle esigenze di oggi. Nessuno da solo può
sognare di dare un’anima all’Europa.
Si tratta di prendere sul serio l’invito di Giovanni Paolo II a fare della
spiritualità della comunione la spiritualità del nuovo millennio (cf. NMI 43).
Tra noi religiosi e religiose di istituti diversi dobbiamo vivere la
comunione, e non soltanto come singole persone, ma proprio in quanto carismi
diversi. Ogni carisma è infatti un dono per l’altro carisma e per l’intera
Chiesa. Il dono della preghiera di santa Teresa d’Avila, o agli esercizi
spirituali di sant’Ignazio sono per tutti. Francesco d’Assisi è modello per
tutti riguardo alla povertà, come Vincenzo de Paoli lo è per le opere di
carità. Ognuno, ossia ogni istituto religioso, deve essere disposto a donare e
a ricevere. Soltanto la comunione consente di trovare la propria piena
identità.
Siamo poi chiamati a una comunione con tutte le altre vocazioni nella
Chiesa. Il concilio Vaticano II aveva già bruciato ogni forma di autarchia da
parte delle singole vocazioni quando ad esempio scriveva: «Le singole parti
[della Chiesa] portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo
universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità» (LG 13).
Vita consecrata parla della necessità di un rapporto di comunione fra
laici, sacerdoti e religiosi (cf. nn. 18-20, e specialmente n. 55 e la fine del
n. 62). Spesso nel passato il dono era più unidirezionale che reciproco. Sono
stati soprattutto i religiosi e le religiose a creare, nutrire spiritualmente
e dirigere i laici e le loro forme aggregative. Oggi può succedere che siano i
laici, le famiglie, le persone aggregate agli istituti religiosi, i movimenti
ecclesiali a coinvolgere i religiosi e le religiose, e anche ad aiutarli nel
loro cammino spirituale e pastorale. Lo afferma con naturalezza un passo della
esortazione apostolica Christifideles laici: «...gli stessi fedeli laici possono
e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e
pastorale» (n. 63). La comunione e la reciprocità nella Chiesa non sono mai a
senso unico. Per questo anche dai laici e dai nuovi movimenti ecclesiali si può
e si deve attendere un aiuto per i sacerdoti e per i religiosi e le religiose,
sia per il progresso nel cammino della vita spirituale, sia per il rinnovamento
nello slancio pastorale.
È il bisogno di essere Chiesa, di vivere insieme l’avventura dello Spirito
e della sequela di Cristo, di comunicare le esperienze del Vangelo, imparando
ad amare l’altra comunità, l’altro movimento come la propria famiglia
religiosa. Il comandamento di amarsi l’un l’altro domanda
di essere trasferito dal piano personale a quello tra le differenti realtà
ecclesiali. Le gioie e i dolori, le preoccupazioni e i successi possono essere
condivisi e sono di tutti.
Sintomatici al riguardo gli ultimi congressi dell’Unione dei superiori
generali (maggio e novembre 2003) quando rappresentanti di aggregazioni laicali
e di movimenti ecclesiali sono stati chiamati a partecipare pienamente ai
lavori. È l’avvio di quanto auspicato dall’istruzione Ripartire da Cristo, là
dove parla della «comunione tra carismi antichi e nuovi» (n. 30).
Non c’è dubbio che in quanto carismi di oggi le nuove comunità e i nuovi
movimenti ecclesiali possono evidenziare esigenze dello Spirito per la Chiesa
di oggi e possono aiutare a rinnovare gli antichi carismi, ad arricchire la
loro spiritualità evangelica, a integrare nuovi aspetti della vita spirituale,
a rivedere lo stile di comportamento per una più autentica spiritualità
ecclesiale, collocare gli stessi religiosi e religiose in un rapporto più
sereno con i laici.
Ne può scaturire un confronto stimolante a partire dalla carica di novità e
dalla freschezza evangelica e carismatica dei movimenti, che puntano sul ritorno
al Vangelo e su diverse espressioni concrete di spiritualità della Parola.
Spesso offrono anche un impulso più generoso all’evangelizzazione, sono più
creativi nelle forme apostoliche e aiutano a superare una pastorale spesso
troppo conservativa, senza slancio e fantasia.
Da parte loro i movimenti attendono molto dalla testimonianza gioiosa,
fedele e carismatica della vita consacrata con la ricchezza delle molteplici
spiritualità e forme di apostolato. I movimenti amano i religiosi identificati
con la propria vocazione e il proprio carisma; hanno bisogno della loro
testimonianza come visualizzazione dell’assoluto di Dio; godono dell’amicizia
spirituale e della dottrina dei santi, tesori di sapienza e di esperienza
custoditi dalle famiglie religiose.
In definitiva è domandato di unire le ispirazioni e le forze e di
concertare insieme la maturazione del dialogo di comunione all’interno della
Chiesa.
Si tratta ormai di affrontare insieme le sfide della nuova
evangelizzazione, del rapporto con i laici, della globalizzazione, del dialogo
ecumenico e interreligioso, della credibilità in una società secolarizzata,
multiculturale, postmoderna. Piuttosto che lasciarsi guidare da prevenzioni o
perdersi in sterili polemiche, occorre il coraggio di una autentica comunione
fraterna, piena di stima e di fiducia reciproca.
Guardarsi gli uni gli altri, dunque, conoscersi meglio, giungere alla
comunione piena, in vista di guardare oltre, insieme, e lavorare, come unica
grande realtà carismatica, per la Chiesa e per l’intera umanità.
La spiritualità della comunione porta necessariamente a una “mistica
nuova”: la mistica del comandamento nuovo, della Chiesa come Corpo mistico,
l’esperienza della presenza di Cristo fatta non solo dal singolo ma da “due o
più” riuniti nel suo nome (cf. Mt 18, 20). Quindi la mistica di coloro che si
amano a vicenda come Egli ci ha amato; di un’unità di carismi che rispecchia,
stando in terra, la Trinità di lassù.
Il concilio Vaticano II ci ricorda che siamo «una vera famiglia adunata nel
nome del Signore» che, «con la carità di Dio diffusa nei cuori per mezzo dello
Spirito Santo», «gode della sua presenza (cf. Mt 18,20)» (Perfectae caritatis
n. 15).
Se sarà realmente così questa diventerà l’èra non di un santo, ma del Santo
in mezzo a noi. Sarà lui a dare un’anima all’Europa.
Fabio Ciardi omi