DA UN’INTERVISTA A P. RADCLIFFE

IL MODELLO DEL PELLEGRINO

 

La spiritualità attuale trova il suo modello nella figura del pellegrino. Se noi fossimo dei pellegrini lasceremmo alle spalle questa istituzione; essa è stata utile per diversi secoli, ma ora dobbiamo camminare verso il Regno: solo così troveremo le giuste risposte nella società d’oggi.

 

Da molte ricerche effettuate risulta che oggi c’è in giro un diffuso senso di sfiducia verso le istituzioni governative, i mezzi di comunicazione e anche nei riguardi della Chiesa. Una delle ragioni sta nel fatto che non parliamo più in maniera autorevole, ossia con autorità. È una delle convinzioni che p. Timothy Radcliffe ha espresso in un’intervista al bollettino ufficiale delle conferenze episcopali di Inghilterra, Galles e Scozia, Briefing, rispondendo a varie domande su alcuni aspetti cruciali della Chiesa e della vita religiosa oggi.1

«Ciò che dobbiamo fare – ha affermato il padre – è mostrare la natura della nostra autorità. Non si tratta del potere di comandare. L’autorità, in ultima analisi, deve basarsi sulla verità di ciò che diciamo – una verità che nasce dall’esperienza vissuta. Quando Gesù andava da un luogo all’altro durante la sua vita terrena, la gente diceva che egli aveva un’autorità superiore a quella degli scribi e dei farisei e per questo lo ascoltava e si lasciava entusiasmare dalle sue parole. Mi sembra perciò fondamentale per il cattolicesimo credere che gli esseri umani sono fatti per la verità. Come i pesci sono fatti per nuotare nell’acqua, così noi siamo fatti per ciò che è veritiero. Se diciamo parole vere che scaturiscono dalla nostra viva esperienza, dalle nostre lotte per rispondere a Dio, allora la gente lo riconosce».

Non basta quindi ripetere a memoria ciò che si ascolta: «Non basta dire “questa è la verità, l’ho imparata da un libro”. Noi poniamo la nostra fiducia nella Parola fatta carne. Ciò significa che le mie parole, la mia risposta al Vangelo, la mia risposta agli insegnamenti della Chiesa deve passare attraverso la mia umanità. Il papa parla con grande autorità perché si esprime a partire dalle sue lunghe lotte contro il nazismo, il comunismo, attraverso la sua debole salute ed è questo che conferisce autorità alle sue parole. Se io prendessi un foglio e dicessi che il papa ha detto questo e lo ripetessi, le mie sarebbero parole che non sono passate attraverso il crogiuolo della mia vita. Io invece devo parlare in forza dell’essere umano che sono».

 

IL CORAGGIO

DI DIRE “NON SO”

 

A partire dal secolo XVII, sostiene p. Radcliffe, le comunità cristiane sono rimaste come prive di certezze. Dopo trent’anni di guerre di religione, la gente si trovò come ferita in ogni area della vita, nella scienza, filosofia, religione. Dopo quel secolo, nella Chiesa, nella politica, ecc. la gente non era più sicura di ciò che doveva credere. Nella nostra cultura si è così insinuato una specie di nervosismo, dal momento che noi siamo quelli che hanno le risposte. Come preti ciò può costituire una vera e propria tentazione. Ci viene chiesto: che cosa pensa circa il problema della bioetica? Di questo problema morale? Ci dia subito una risposta. E così noi ripetiamo come pappagalli le risposte che abbiamo letto, anziché lottare per parlare con convinzione; dovremmo piuttosto dire: “Non lo so, chiederò a qualcuno, ci penserò, pregherò”. Una parola autentica deve nascere dal nostro ascolto di Dio, delle Scritture e dalla Tradizione mediante la preghiera e una lotta intellettuale. A volte la tentazione della Chiesa è di dare troppo presto delle risposte; e così le parole si vanificano». A un certo punto, sottolinea il padre, bisogna avere il coraggio di dire: «non lo so». La vera sfida della Chiesa è di diventare un luogo di maggior coraggio. «Penso che abbiamo paura di dire “non lo so”, di esprimere dubbi, di dirci la verità l’un l’altro. Penso che nei nostri seminari dovremmo formare delle persone coraggiose, ma non si può essere coraggiosi senza sentirsi vulnerabili. La persona coraggiosa non è un individuo che non ha paura, ma uno che non si lascia guidare dalla paura. Questa, credo, è la grande sfida della Chiesa».

Lo stesso coraggio bisogna averlo anche di fronte alla crisi delle vocazioni che ha colpito l’occidente. «Certamente, osserva p. Radcliffe, la crisi esiste, ma non dobbiamo lasciarci spaventare. L’ultima cena è stata una crisi ben maggiore di qualsiasi altra che noi attraversiamo. Giuda aveva ormai venduto Gesù; Pietro stava per tradirlo. Noi siamo nati nella crisi. La Chiesa periodicamente attraversa delle crisi, ma questo ci rinnova, ci scuote e ci rende nuovamente malleabili. Sarebbe tremendamente preoccupante se non avessimo delle crisi periodiche. Non perdiamoci perciò di coraggio».

Una cosa da evitare è, come si dice, stare a guardarsi l’ombelico: la Chiesa infatti, sostiene Radcliffe, è stata troppo introspettiva durante i periodi difficili. In effetti, «quando c’è una crisi, la tentazione è di preoccuparsi eccessivamente della Chiesa in quanto tale. In questo modo si diventa introspettivi e non ci si preoccupa più un granché dell’umanità né di Dio, mentre la cosa principale è di tenere viva la passione per Dio e la passione per l’umanità».

 

ESSERE

PIÙ CREATIVI

 

Per quanto riguarda poi in particolare la crisi del sacerdozio e la diminuzione della vocazioni, secondo il padre bisogna riconoscere che non tutto va così male. L’importante è essere «più creativi»: «Non basta dire che se tutti pregassero si troverebbe la soluzione al problema. Abbiamo immense risorse nella Chiesa in termini di laici preparati e se faremo fronte al problema con il loro aiuto avremo anche una Chiesa molto più in salute».

Padre Radcliffe si dice però fermamente convinto che ci sono molte cose nella Chiesa che devono cambiare: «Ciò che bisogna fare – e questa è una cosa profondamente spirituale – è di non spaventarsi se le vecchie strutture muoiono. La cosa più semplice è di accettare questa realtà. Ma non ne siamo capaci».

Un segno di cambiamento sono i nuovi movimenti. «Non so, afferma, come lavorano le parrocchie, ma ho l’impressione che esse riflettano il mondo agricolo del villaggio e dei piccoli centri commerciali. Oggi viviamo in un mondo del tutto diverso, caratterizzato dall’internet, un mondo dove la gente ha delle forme diverse di aggregazione in base agli interessi, ai movimenti, alle cause.

Di fronte a questi nuovi sviluppi, il pericolo da cui il cristianesimo deve guardarsi è di chiudersi in un ghetto. Se così fosse, si finirebbe col rapportarsi solo con chi la pensa come noi, allo stesso modo: «Ma questa non è la soluzione; il cristianesimo è destinato anche a tutti coloro che non la pensano come noi. Non bisogna dimenticarlo. Ecco perché le parrocchie rimangono importanti».

Parallela alla crisi al sacerdozio è anche quella delle vocazioni alla vita religiosa. Bisogna, sostiene p. Radcliffe, leggere questo fenomeno in un contesto più ampio: «Primo: dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un numero eccezionale di vocazioni. L’esperienza di violenza vissuta in quel tempo ha spinto un gran numero di persone a entrare nella vita religiosa. Quella è generazione che ora sta scomparendo. È la fine di qualcosa di eccezionale, forse mai visto prima. Secondo: dopo il concilio Vaticano II c’è stata la bella riscoperta della vocazioni dei laici. Di conseguenza, molte persone sono state portate a scegliere la loro vocazione in questa luce. Penso che ora ci troviamo in un terzo momento, quello di un miglior equilibrio perché mentre nutriamo molta fiducia nei laici, allo stesso tempo abbiamo nuovamente una grande fiducia nella vocazione religiosa. Così i numeri stanno crescendo. Forse in misura minore rispetto agli anni ’50 e ’60, ma stanno crescendo, almeno in alcuni ordini».

Comunque ogni epoca ha visto nascere nuove congregazioni e ne ha visto molte altre morire. Per avere successo un istituto deve vivere una seria di vita di comunità, dove ci si può parlare gli uni gli altri in ogni difficoltà. Non ci si può rifugiare dietro una santa reticenza. Ciò esige che gli ordini religiosi prendano sul serio la povertà. Dobbiamo vivere una vita semplice. Se la gente vede la vita religiosa come una comoda opzione, non ne sarà attratta. Non dobbiamo reclutare vocazioni per poter sopravvivere. Non è una ragione valida. Abbiamo bisogno di individui che vengano da noi perché, per esempio, desideriamo predicare il Vangelo in Cina. Vogliamo che facciano qualcosa di veramente difficile, qualcosa che non abbiamo fatto prima».

 

Ma qual è la ragione per cui per gli istituti maschili è più facile attirare vocazioni che non per quelli femminili? «In occidente, afferma p. Radcliffe, molte congregazioni femminili hanno abbandonato le loro istituzioni, scuole e ospedali, e si sono inserite nell’attività parrocchiale; è stata una cosa buona, che ha dato loro una iniezione di vita, ma spesso ha privato queste congregazioni della loro indipendenza. Dopo il Vaticano II si è preso coscienza della chiesa locale. C’è stata quindi la tendenza a incorporare ogni cosa nella struttura parrocchiale. In realtà noi abbiamo bisogno di strutture alternative. Voglio dire che ci sarebbe un grande interesse tra le giovani se trovassimo una forma di vita religiosa aperta alle sfide. Conosco una quantità di ragazze che vorrebbero una vita religiosa un po’ più simile alla nostra, vale a dire indipendente, con studi teologici appropriati e la possibilità di predicare…».

 

SPIRITUALITÀ

DEL PELLEGRINAGGIO

 

Tornando sull’idea di essere più inventivi, p. Radcliffe ha sottolineato come i modelli dominanti della spiritualità del XXI secolo sono quelli del pellegrino: «Un gran numero di persone, ha detto, si reca in pellegrinaggio per una convinzione profonda che è necessario mettersi in viaggio.

Credo sia questa la ragione del grande successo popolare del film Il signore degli anelli che racconta la storia di un viaggio. Penso che molti individui, nel profondo del loro essere, sono consapevoli che bisogna fare un viaggio. Tutte le principali religioni si recano in pellegrinaggio. Ma essere pellegrino non significa andare da qualsiasi parte; vuol dire camminare agilmente per giungere a una meta. Se noi fossimo veramente dei pellegrini diremmo: “OK, lasciamo alle spalle questa istituzione; è stata utile per diversi secoli, ma ora dobbiamo camminare verso il Regno”; allora troveremmo risposte nella società.

 

Sono proprio i grandi insegnamenti della Chiesa a spingerci al pellegrinaggio. I dogmi della Chiesa – la divinità di Cristo, la Trinità, la risurrezione, la presenza reale, la nascita verginale – sono belli e noi dobbiamo trovare il modo di condividere la loro bellezza e la loro provocazione…. È ciò che Gilbert Keith Chesterton chiamava l’Avventura dell’ortodossia. Noi pensiamo che l’ortodossia sia qualcosa di costrittivo, come se tutto fosse rinchiuso in una scatola, in realtà l’ortodossia tiene aperto lo spirito.

Dobbiamo trovare vie per essere maestri e ciò richiama quello che ho detto all’inizio. Non si insegna dicendo “io so tutto”, ma dicendo “cammina con me a così avanziamo insieme verso il mistero”. Cosa c’è di più eccitante della dottrina della Trinità, ma quante volte noi davvero la comunichiamo?

Il problema è che abbiamo trasformato il cristianesimo nella morale, e spesso in moralismo. Il cristianesimo non è una morale; è sapienza. Dobbiamo mostrare che gli insegnamenti della Chiesa sono portatori di sapienza».

 

Sono state rivolte al padre anche alcune domande sul celibato e il matrimonio dei preti. «Penso, ha risposto, che i vantaggi del sacerdozio celibe abbiamo significato solo se siamo dei pellegrini del Regno. Si tratta di un’astensione che sarebbe priva di senso se non fossimo in cammino verso il Regno. Il sacerdozio non è una carriera.

Il secondo grande vantaggio è che noi non ci immedesimiamo con nessuna struttura sociale. Se tu fossi sposo e padre dovresti pensare dove mandare i figli a scuola; avresti un’identità sociale. Ma come preti dobbiamo parlare del Regno che è al di là di questa società, con le sue esclusioni.

D’altra parte, come religioso io godo di tutto il sostegno dei miei fratelli. Credo che sarebbe tremendamente difficile sopravvivere senza un sostegno, io diventerei matto. Sono sicuro che lascerei tutto e andrei a sposarmi».

Ma essere religiosi vuol dire vivere autenticamente i valori abbracciati: «così, essere povero non significa non avere delle cose, ma fare affidamento su di esse come qualcosa di ricevuto. Essere povero nel senso di essere un frate mendicante significa che bisogna vivere nel mondo come uno che rende grazie per i doni e in definitiva come uno che ringrazia per i doni della stessa esistenza, della creazione e dell’amicizia. La povertà non ha senso se non è formazione alla gratuità; la castità è priva di significato se non consiste nell’imparare come amare il prossimo; e l’obbedienza che per essere genuina deve formare all’arte dell’amicizia».

Tutte queste affermazioni, pur nella loro eterogeneità, sottolineano tuttavia degli aspetti su cui ci sembra importante oggi riflettere.

 

A.D.