QUANDO NON SI RIESCE A DIMENTICARE
ESERCIZIO DEL PERDONO
Alla base ci può
essere una mancanza di carità, ma il problema ha anche dei risvolti psicologici
e morali. È certamente una sofferenza che angustia chi la vive e rende più
pesante l’esperienza comunitaria perché si possono creare fratture permanenti e
insanabili
Non è raro sentire da persone che vivono in comunità una confidenza che può
essere espressa pressappoco così: «io mi sforzo di andare d’accordo con tutti,
cerco di sopportare i difetti degli altri come penso che gli altri
sopporteranno i miei, però non riesco proprio ad accogliere quella consorella
(quel confratello). Ciò che mi ha detto (il comportamento che ha tenuto nei
miei confronti) mi ha fatto troppo male, credo proprio che non lo meritavo, non
riesco quindi a dimenticare e a perdonare. Mi rendo conto che è una mancanza di
carità, per questo mi confesso, ma creda: è più forte di me...».
Come si può facilmente notare, il problema ha risvolti psicologici e morali
nello stesso tempo (e anche fisici, in qualche caso: certi mal di stomaco...).
Non si può escludere che chi confessa una situazione simile a quella riportata
possa essere moralmente responsabile di un peccato contro la carità; è sempre
comunque certo che si tratta di una sofferenza, che angustia chi la vive e
rende più pesante l’esperienza della vita comunitaria perché si possono creare
fratture permanenti e insanabili.
Qual è il significato psicologico di un tipo di esperienza simile a quella
riportata? Quali le cause che più frequentemente la provocano? Quale
valutazione dare circa la responsabilità morale? A quali condizioni si può
superare? Nelle brevi riflessioni che seguono tento di offrire qualche risposta
a questi interrogativi.
SIGNIFICATO
E FATTORI
Quando una persona confessa che per lei è molto difficile, o impossibile,
dimenticare un torto subito o comunque una situazione negativa causatale da
un’altra persona, di fatto sta dicendo che un suo bisogno fondamentale è stato
frustrato: ciò spiega la sua ferita psicologica. Può trattarsi del bisogno di
stima, di affetto, di comprensione, di riconoscimento, di appartenenza, di
sicurezza.
Non riuscire a dimenticare significa anche affermare che la persona tende a
soffermarsi su ciò che le è accaduto, a rappresentarsi ripetutamente la scena
dell’episodio negativo, a ricordarsi e ripetersi le parole e i gesti subiti, a
immaginare quale potrebbe essere il modo più adeguato di reagire. Il rimuginare
e i soliloqui su noi stessi hanno effetti negativi sulla persona: si
ingigantiscono apprensioni e timori; si verifica una percezione più ristretta
della realtà (quel particolare episodio occupa totalmente la scena psichica);
si è portati a essere “psicologicamente” assenti nell’agire quotidiano;
sentimenti negativi circa se stessi diventano sempre più tenaci e persistenti.
In una parola: la mente è dominata da una prevalente negatività e a volte non
sono da escludere neppure risvolti di carattere somatico.
I fattori dai quali dipende l’intensità della sofferenza, nel soggetto che
subisce il torto, sono diversi. Ad esempio:
– l’intensità del bisogno frustrato;
– precedenti esperienze di frustrazione dello stesso bisogno;
– qualità della relazione che esiste tra la persona che è causa del torto e
colei che lo subisce (più la prima è sentita importante e significativa da
parte della seconda, più la ferita è dolorosa);
– alcuni tratti di personalità, che facilitano l’inclinazione al
rimuginare, e magari a ingigantire, il torto subito (vi sono maggiormente
predisposte, di norma, le persone introverse, o tendenzialmente ossessive e
ansiose, o chi ha bassa stima di sé);
– la non conoscenza del reale motivo (o motivi) che ha spinto la persona a
comportarsi in modo offensivo;
– la qualità e l’intensità delle attese nei confronti di chi procura il
torto («da tutti mi sarei aspettato questo trattamento, ma non da lei...»);
– infine, anche il tempo. Può essere una variabile significativa: la
difficoltà a dimenticare varia con il suo trascorrere.
Infine, un’ultima annotazione. L’intensità di una sofferenza per un’offesa
subita dipende non tanto dall’offesa in se stessa, quanto dalla sua valutazione
da parte della persona – valutazione che è sempre soggettiva. Stando così le
cose, serve a ben poco tentare di convincere una persona che l’episodio
negativo da cui ha avuto origine la sua sofferenza è di scarsa importanza: ciò
che è determinante è il significato particolare che quell’episodio ha per lei.
Si è più feriti dall’interpretazione di un episodio spiacevole che
dall’episodio stesso: verità già espressa da un filosofo greco vissuto quasi
duemila anni fa (Epitteto), il quale insegnava che «a turbare l’uomo non sono
propriamente le cose, ma la rappresentazione delle cose».
CONDIZIONI
PER DIMENTICARE
Occorre chiarire subito che l’obiettivo da raggiungere non è tanto quello
di «cancellare dalla memoria» il ricordo del torto subito, quanto piuttosto di
far sì che tale ricordo non interferisca più di tanto nel rapporto con chi ha
causato il torto e, più in generale, con la normale vita di tutti i giorni.
A quali condizioni, dunque, è possibile non rimanere troppo condizionati
dall’offesa subita? Eccone alcune.
Ricordare a se stessi che il genere di sentimenti che proviamo dipende
essenzialmente da noi. La nostra sensibilità dipende da come valutiamo
l’ambiente e noi stessi. Convincerci dunque che siamo noi stessi la causa (non
si parla – si badi – di colpa) delle nostre emozioni e sentirci responsabili
del trattamento che riserviamo a noi stessi: ecco un primo importante passo da
compiere.
Coerentemente con quanto appena detto, quando la sofferenza per il torto
subito è intensa, sproporzionata al fatto che l’ha causata, allora per la
persona si presenta un’occasione preziosa per conoscere meglio se stessa,
chiedendosi ad esempio: qual è il bisogno che sento soprattutto frustrato da
questo episodio? Qual è l’interpretazione che io sto dando dell’episodio? Quali
prove concrete e sicure possiedo a favore della mia interpretazione? Quali
altre possibili interpretazioni/spiegazioni ci potrebbero essere?
Cercare di bloccare il rimuginare ed eludere i soliloqui assillanti è
un’altra possibilità alla portata di chiunque, se ci si applica con buona
volontà e pazienza. Ciò è possibile, ad esempio, volgendo l’attenzione a
qualcosa d’altro, concentrandosi maggiormente su ciò che si sta facendo,
dedicandosi ad un’attività impegnativa. Non si dimentichi che non si tratta
tanto di reprimere i sentimenti che si provano, quanto i pensieri.
Parlare con persone che ci sanno ascoltare e che ci aiutano a metterci
maggiormente in contatto con la realtà, così da verificare l’attendibilità
delle nostre interpretazioni.
Abituarci a vedere nelle cose il lato meno triste, oppure cercare di vedere
sotto una luce diversa l’esperienza negativa: ad esempio, cogliendo un aspetto
che finora non si era colto, facendo ricorso a considerazioni di tipo religioso
(s. Francesco invitava frate Leone a considerare l’eventuale loro cacciata da
S. Maria degli Angeli da parte dei frati come occasione di perfetta letizia...:
Fonti Francescane 1836).
Provare a rappresentarci cosa significa essere perdonati, ripensare a ciò
che si è provato quando qualcuno ci ha perdonato (tutti abbiamo bisogno di
perdono).
Moderare le nostre aspettative nei confronti dell’ambiente o di qualche
persona in particolare, oppure chiederci che cosa ragionevolmente possiamo
attenderci dagli altri. Avere maggiore cura di sé e della qualità della propria
vita in generale. Ad esempio: imparare ad accettare la realtà, programmare in
modo più intelligente le nostre attività, prevedere pause rilassanti, coltivare
hobby, darsi all’attività fisica, curare la lettura, dedicarsi a esperienze
positive, aiutare gli altri, godere della natura e del silenzio.
ASPETTI
E PROBLEMI MORALI
Quando una persona afferma di non riuscire a dimenticare un’offesa subita e
continua ad avvertire grande sofferenza per quanto avvenuto, allora in questo
caso pone un problema di carattere psicologico. Quando invece si duole di non
riuscire a perdonare (il confratello, la consorella), avverte questa situazione
come un ostacolo nel suo rapporto con Dio, ricorre al sacramento della
penitenza e confessa questo sentimento come una mancanza di carità di cui vuole
emendarsi, allora ci troviamo di fronte a un problema che ha anche un
significato morale.
Di solito la situazione si presenta pressappoco in questi termini: la
persona è sinceramente dispiaciuta per la sua incapacità di perdonare, si
accosta al sacramento e rinnova il proposito di impegnarsi per offrire il
perdono... ma all’occasione/confessione seguente la situazione non è cambiata.
Con il trascorrere del tempo e il ripetersi delle confessioni la persona si
abitua a far coesistere in sé il pentimento per ciò che lei considera una colpa
e la convinzione che, di fatto, le cose non cambieranno. Il risultato può
essere o lo svuotamento del significato del sacramento o l’accentuarsi di sensi
di colpa e scrupoli morali.
Può servire, allora, qualche precisazione a questo proposito.
Sembra opportuno, anzitutto, richiamare la corretta concezione del perdono,
per evitare di entrare in un vicolo cieco sul piano psicologico e spirituale,
pretendendo di eliminare con la volontà i sentimenti negativi (cosa
impossibile). Perdonare non significa semplicemente dimenticare: non accettare
di riconoscere la propria collera, la propria sofferenza, non è
psicologicamente una cosa corretta. Perdonare non significa ritrovarsi come
prima dell’offesa: occorre ripartire da una situazione nuova. Perdonare non
comporta necessariamente scusare l’altro: una cosa è cercare di capire l’altro,
altra cosa è fare un giudizio su di lui anche se allo scopo di scagionarlo da
ogni responsabilità morale. Perdonare è impegnarsi (si tratta più spesso di un
processo che di un atto singolo) perché i sentimenti negativi – che non
possiamo né dobbiamo negare – non costituiscano un ostacolo alla relazione con
l’altro, che si vuole improntata a rispetto, accoglienza, cortesia. Perdonare
ha a che fare non tanto con il sentimento, quanto con la volontà; comincia con
la decisione di non vendicarsi, decisione dettata dalla volontà di guarire e di
crescere, e continua compiendo possibili gesti di accoglienza (ad esempio:
parlare con chi ci ha offeso, collaborare con lui, rispondergli gentilmente
ecc.). Il perdono impone un ritorno su se stessi, passa attraverso la presa di
coscienza della propria povertà e fragilità: è l’umiltà di accogliere anzitutto
noi stessi nella nostra debolezza (perdonare a se se stessi, anzitutto): nasce
su una base di dolore e di vittoria di sé.
Quando una persona afferma, in tutta onestà, che non riesce a perdonare (e
la cosa vale anche quando ci si riferisce ad altre situazioni di peccato),
allora dal punto di vista morale il suo primo impegno non è quello di
«sforzarsi di non farlo più» – per sua stessa ammissione le è impossibile! –
quanto invece di cercare di capire: se non fa niente (ad esempio confrontandosi
con un sacerdote esperto) per chiarire a se stessa che cosa di fatto le sta
succedendo e perché ciò avviene, allora si può ritenere che vi sia
responsabilità morale da parte sua. In altre parole, la sua responsabilità
morale si ha nella misura in cui non fa nulla per cercare di comprendere da
dove nasce la sua incapacità a superare questa situazione negativa. L’impegno
morale deve essere sempre intelligente, altrimenti si cade nel volontarismo
(cioè: la cosa importante è sforzarsi...). L’impegno per capire potrà portare
la persona a rendersi conto, ad esempio, di qualche meccanismo inconscio che condiziona
la sua percezione degli altri e delle situazioni in genere (distorsioni
percettive), di ferite che risalgono al suo lontano passato e che non si sono
mai rimarginate, di un’immagine di sé molto negativa, di delusioni
inconfessate. Una volta scoperta la causa reale della sofferenza, ella potrà
mettersi a lavorare con pazienza su stessa chiedendosi che cosa può e vuole
fare per ridurne gli effetti negativi.
Infine, l’impegno morale deve realizzarsi ricorrendo alle varie strategie
possibili (quelle precedentemente indicate e altre ancora) che possono più o
meno facilitare l’esercizio concreto del perdono cristiano.
In conclusione, è opportuno ricordare che nelle considerazioni sin qui
fatte si è affrontato il problema del perdono cristiano cercando di analizzare
le complesse dinamiche psicologiche presenti in una relazione interpersonale
caratterizzata da una specifica situazione negativa (un torto, un’offesa, un
gesto di rifiuto), tale da poter compromettere anche seriamente i rapporti
interpersonali all’interno di una comunità religiosa. Cercare di capire è
sempre necessario quando si tratta di superare gli ostacoli che incontriamo nel
nostro cammino morale.
Non si è, volutamente, affrontata la domanda di fondo: perché perdonare?,
in quanto esulava dalle finalità di queste riflessioni. D’altra parte, ogni
buon cristiano sa bene quale risposta gli verrebbe data da «quei che volontier
perdona» (Dante, Purgatorio 3,120).