LA COMUNICAZIONE IN COMUNITÀ

UN’ARTE DA IMPARARE

 

Come la nostra società, che si crede esperta perché ha tanti strumenti di comunicazione, la vita religiosa soffre la perdita della sua natura relazionale.

Lo rivela l’individualismo molte volte denunciato dai documenti del magistero e dai numerosi convegni sulla vita consacrata.

 

Noi religiosi siamo attenti e impegnati – giustamente, in quanto «la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione» (VC 3) – ad ascoltare l’invito dei vescovi italiani che ci chiamano a comunicare il Vangelo nel nostro mondo, in rapido mutamento, che ha bisogno di riscoprire il messaggio di Cristo nella sua sostanza e nelle sue conseguenti applicazioni nella vita individuale, famigliare, culturale, sociale.

Siamo tutti consapevoli – edotti dall’impegno pastorale e da sane letture – che il programma della CEI pone realisticamente la comunicazione del Vangelo come la base insopprimibile per una ripresa della complessa dimensione dell’evangelizzazione. E ci diamo da fare – sempre giustamente – per scoprire i modi della comunicazione, i meccanismi dei nuovi linguaggi (massmediali, computerizzati, linguistici, ecc.) che appaiono indispensabili per comunicare con l’uomo del nostro tempo. Siamo convinti – essendo il messaggio evangelico la relazione dell’uomo con Dio e con gli altri che deriva dall’originaria e fondante relazione di Dio con l’uomo – che riflettere sulla comunicazione costituisce un momento fondamentale per trasmettere la parola di Dio in modo efficace.

Insomma comunicare è divenuto, lodevolmente e legittimamente, un ambito delle preoccupazioni culturali e pastorali delle comunità religiose, molte delle quali in prima fila nella individuazione di modalità e strumenti per meglio comunicare il vangelo.

Ma… c’è un ma. All’encomiabilissima sollecitudine di essere idonei comunicatori del Vangelo, corrisponde sempre l’ammirevole, previa e edificante (nel senso anche proprio di “costruttrice”) comunicazione all’interno della comunità? Non si direbbe, venendo a conoscenza dei seri problemi in questo senso di molte comunità e leggendo le riflessioni di eminenti religiosi, espresse in sequenza significativa anche in ben due numeri recenti di Testimoni.1

Dobbiamo dire che per questa comunicazione non ci si danna l’anima, sia perché non la si ritiene importante (naturalmente è un grande errore di valutazione) come l’altra, sia perché in questa diffusa disaffezione (è un eufemismo) gioca anche l’ignoranza circa la natura profonda della comunicazione e quindi della sua necessità. Anche noi religiosi siamo schiavi di un fenomeno proprio della nostra epoca: informazione magari tanta tra di noi (ci sono molte cose che abbiamo fatto per le quali apparire zelanti e uomini di successo agli occhi dei confratelli), ma comunicazione, nel senso vero e completo del termine, piuttosto pochina.

Sembra urgente e opportuno per noi comunicatori del Vangelo, spesso muti nelle comunità, riscoprire l’essenza della comunicazione e il suo valore per la vita comunitaria, principio e radice di ogni altra comunicazione.

 

PER UN IDENTIKIT

DELLA COMUNICAZIONE

 

Già oltre 30 anni fa l’istruzione pastorale Communio et progressio (maggio 1971) affermava: «Comunicare comporta qualcosa di più della semplice espressione e manifestazione di idee e sentimenti. Infatti la comunicazione è piena quando realizza la donazione di se stessi nell’amore» e presentava Cristo quale perfetto comunicatore, in quanto donatore del suo «Spirito vivificante, che è principio di comunità e di unità» (cf. n. 11). Un modello che non dovrebbe essere indifferente ai religiosi.

Ogni donazione comporta, in un certo senso, un “uscire da se stessi” per andare verso l’altra persona. Così è nel caso della comunicazione e lo è in modo eminente, perché in questo caso non si offre un dono qualsiasi, materiale, ma la propria esperienza, il proprio essere, ci si mette in relazione profonda con l’altro, fino ad “affidargli” la propria vita, proprio come ha fatto Cristo, e si richiede un analogo dono all’altro. Infatti la comunicazione richiede, per essere vera, la reciprocità: essa mette due o più persone in ascolto, in dialogo, nel quale si rivelano l’una all’altra con sincerità, in un cammino di comprensione sempre più profonda e di mutua crescita intellettuale, spirituale, sociale, culturale. Il dono che si fa non è espropriazione di qualcosa di sé, ma un guadagno anche per noi, perché nel comunicare sincero chiariamo – prima di tutto – il nostro essere e pensiero a noi stessi per poterlo trasmettere con simpatia all’altro. L’autentica comunicazione è un condividere, non un semplice e unilaterale dare, ed è un bene che si riflette su chi lo dona.

Per tutti è impossibile vivere senza comunicare (la stessa esistenza è, nella molteplicità e varietà delle sue espressioni, comunicazione), ma per i religiosi vi è qualcosa di più che reclama la presenza di una robusta e continua comunicazione: la vita comunitaria è realizzabile se vi è la coscienza che essa significa “con-vivenza”, possibile soltanto se vi è donazione della propria vita all’altro con cui si vive, la consapevolezza che si è chiamati a condividere la stessa missione, la cognizione che «la comunicazione è la via verso la comunione» (cf. Aetatis novae 6).

Ora se «promuovere l’unità fa parte dell’intima missione della Chiesa, essendo essa in Cristo come un sacramento, segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Communio et progressio 18), compito – se non andiamo errati – che è evangelizzazione, stupirebbe molto se i consacrati per primi non cercassero “l’intima unione” all’interno di quel microcosmo di umanità che è la comunità religiosa.

Se comunicare è indispensabile, occorre imparare a comunicare: un processo lento, non semplice, continuamente da riprendere di fronte agli ostacoli  della comunicazione e da verificare nei comportamenti quotidiani. In questo settore l’illusione di essere buoni comunicatori (perché si raccontano fatti, magari anche interessanti, e qualche più o meno sana barzelletta) è facile. Per tutti e per i religiosi la comunicazione deve diventare uno stile di vita: lo richiede la natura stessa della vita comunitaria, la missione di evangelizzatori, che è mettersi in relazione (comunicazione) con Dio e gli uomini, l’incontro con le persone che diventerà dialogo se vi sarà comunicazione.

 

PER UNA PRASSI

DELLA COMUNICAZIONE

 

Imparare a comunicare non è facile, ma è necessario: ogni comunità, sia civile che religiosa, sta in piedi se i suoi membri si accorgono che accanto a loro vi sono altre persone con le quali si entra necessariamente in contatto. Come, dipende dalla presenza o dall’assenza di una volontà di dialogo, condivisione, interesse: tutti atteggiamenti che significano comunicazione oppure chiusura in se stessi. L’inevitabile interdipendenza, soprattutto nella nostra civiltà complessa, globalizzata, tra le molteplici dimensioni della società deve portare alla coscienza che la realizzazione di noi stessi e dei nostri bisogni è possibile soltanto con la comunione con gli altri, tra l’altro sempre arricchente culturalmente e spiritualmente quando è sincera.

La vita religiosa è stato fatto notare da più parti soffre del male diffuso nella nostra società, che si crede esperta di comunicazione perché ha tanti strumenti di comunicazione: il male è la perdita della sua natura relazionale e la spia ne è l’individualismo molte volte denunciato dai documenti del magistero e dai numerosi convegni sulla vita consacrata.

Il male va combattuto, facendo ogni sforzo per recuperare la relazione, che è essenziale per ogni persona umana, per donare il vero volto alla vita comunitaria, che è vita di comunicazione e di comunione, ispirata (almeno i religiosi ne abbiano coscienza) alla comunione originaria  e originante della Trinità. La difficile arte della comunicazione va appresa e coltivata dai religiosi: non vi è nulla di più triste e di alienante che essere soli in comunità.

 

PRESUPPOSTI

DELLA COMUNICAZIONE

 

Le strade per camminare verso l’acquisto (sempre incompleto e provvisorio) di quest’arte ci sono e richiedono discernimento, coraggio, perseveranza, verifica. Proviamo a tracciarne alcune, in una sintesi che non è certo esauriente.2

Il punto di partenza: il desiderio di comunicare. Se si preferisce restare chiusi nel proprio mondo non ci sarà nessuna comunicazione e per noi religiosi (evangelizzatori della persona e della parola di Cristo) le motivazioni per essere e sentirci comunicatori non mancano di certo. E prima di tutto con i confratelli, con i quali condividiamo la vita e l’azione apostolica: la missione comune, ispirata al carisma comune, esige l’unità e l’armonia degli intenti, virtù che solo la schietta e veritiera comunicazione rende possibili.

L’autenticità del comunicare richiede la sincerità, ma prima di tutto con noi stessi, per essere sinceri poi con gli altri: comunichiamo (abbiamo rilevato) non un bene qualsiasi, ma il nostro mondo mentale ed esistenziale e le reticenze, le menzogne, le parole depistanti, frutto di un debole e superficiale viaggio dentro di noi, non sono comunicazione della nostra verità e perciò sono fuorvianti, dannose, sia per la vita comunitaria che per l’apostolato comune.

Ma attenzione: comunichiamo la nostra verità, non la verità. È opportuno tenerlo sempre presente, altrimenti nell’irrigidimento sulle proprie opinioni non vi è più comunicazione, ma imposizione, intimazione, tutti comportamenti che chiudono al dialogo, allo scambio, al rapporto con le convinzioni dell’altro e non vi è più arricchimento nella reciprocità (che non si accetta). Questo è uno degli ostacoli più frequenti che si oppongono alla comunicazione nella comunità religiose.

L’altro ostacolo, non certo infrequente, è la mancanza della capacità di ascoltare. Si sente il bisogno di parlare (e magari si ama sentirsi parlare) credendo che in questo consista la comunicazione. Ma parlare non dimostra la partecipazione attenta ai bisogni dell’altro, possibile soltanto quando si entra in “simpatia” con la persona, quando sento il suo problema come mio, quando entro nella vita dell’altro per condividerne i problemi e le emozioni, quando, appunto, lo si ascolta e non lo si sente soltanto.

Il vero ascolto richiede pazienza, che si dispiega nel sapere accettare i ritmi dell’altro nella crescita. Il cammino della perenne conversione, a cui tutti siamo chiamati, è lungo, mai finito e ciascuno lo percorre – si spera in verità e sincerità – con passo diverso. In questo ambito la comunicazione, che è comprensione, accettazione, è delicata: se essa mira, come dovrebbe, al vero bene dell’interlocutore e della comunità, è capacità di attesa, di accompagnamento, ma deve anche essere rivelazione e denuncia delle deformazioni, delle anormalità, degli equivoci, che possono essersi infiltrati nella comunità. Il silenzio opportunista non è mai comunicazione nella verità, come dovrebbe essere quella tra religiosi, che si esprime anche nel fraterno richiamo.

La comunicazione è, per sua natura, dialogo e quindi comporta la risposta con altrettanta accoglienza e simpatia all’altro che si rivolge a me con simpatia. Il volto annoiato, l’aria di pensare ad altro, l’atteggiamento di chi vuole essere lasciato in pace nel suo brodo tradizionale (qualunque sia) non favoriscono certo il dialogo e sono la morte di ogni sia pur piccolo tentativo di comunicazione. Questi comportamenti, tutt’altro che rari nelle comunità, costituiscono una sottile ambiguità che può essere per molti un alibi: infatti si presentano come ascolto (esteriormente lo sono) e quindi “salvano la faccia”, ma di fatto pongono un muro invisibile, ma robusto, all’accoglienza dell’altro. Se non vi è una reale “relazione di esistenza”, fatta di condivisione del proprio animo e delle proprie attività, non si può parlare di comunicazione.  

Questa è, in ultima analisi, una donazione di se stessi nell’amore.

 

Ennio Bianchi

 

 

1 Se manca la comunicazione, in Testimoni n. 5 e Afasia relazionale, in Testimoni n. 6, 2004.

2 Siamo debitori di questa sintesi ad alcune riflessioni dell’opera di John Powell: Parlami di te, so ascoltare il tuo cuore, Gribaudi, Milano, 1999.