ISTRUZIONE “ERGA MIGRANTES CARITAS CHRISTI”
CURA PASTORALE DEI MIGRANTI
L’istruzione ha
un’apertura di grande respiro, e propone una lettura ricca di spunti
sociologici, morali e religiosi e di indicazioni pastorali.
L’assistenza ai
migranti non è solo preoccupazione di sacerdoti, ma di tutto il popolo di Dio,
con ruoli e responsabilità specifici.
“Ripartire da Cristo per una rinnovata pastorale dei migranti e dei
rifugiati”: a questo tema erano stati dedicati i lavori del V congresso
mondiale organizzato dal 17 al 22 novembre 2003, a Roma, dal Pontificio
consiglio della pastorale dei migranti e itineranti.
Il papa, nell’udienza concessa ai partecipanti, aveva comunicato che su
questo argomento era in preparazione una nuova istruzione. Il testo, dopo aver ricevuto
l’approvazione il 1° maggio 2004 dallo stesso pontefice, è stato reso pubblico,
il 3 maggio successivo, dal Pontificio consiglio della pastorale per i migranti
e gli itineranti, con il titolo Erga migrantes caritas Christi (la carità di
Cristo verso i migranti).
UNA LETTURA
RICCA DI SPUNTI
L’istruzione ha un’apertura di grande respiro, con un approccio al fenomeno
migratorio, presentato nella sua globalità e complessità, attraverso una
lettura ricca di spunti sociologici, morali e religiosi e di indicazioni
pastorali. Per questa ampiezza, che talvolta non rende giustizia alla chiarezza
e alla coerenza che si richiederebbero a una istruzione, nel senso del can. 34
del Codice di diritto canonico, il documento non ha mancato di indulgere in
descrizioni prolungate che hanno compromesso la linearità della forma e la
coerenza dei contenuti. Ciò nonostante, l’istruzione vuole essere una
applicazione della legislazione contenuta nei codici per la chiesa latina e per
le chiese cattoliche orientali. L’assistenza ai migranti non è solo
preoccupazione di sacerdoti, ma di tutto il popolo di Dio, con ruoli e
responsabilità specifici. I vescovi diocesani ed eparchiali hanno la loro
responsabilità primaria e unica, ma non sono lasciati soli; anche le conferenze
episcopali e le rispettive strutture gerarchiche delle chiese orientali
occupano un vasto campo di responsabilità, ad esempio nel caso di presbiteri
che, ottenuta dal proprio vescovo la licentia transmigrandi (CIC, can. 271 e
CCEO, cann. 361-362), intendano dedicarsi alla cura pastorale dei migranti,
devono mettersi a disposizione di servizio della conferenza episcopale ad quam
o delle competenti strutture gerarchiche delle chiese orientali (art. 5). È
rafforzata la collaborazione tra la chiesa di partenza e la chiesa di arrivo
(n. 70), sia pure con ruoli diversi. La figura del cappellano/missionario è
descritta con cura: ne viene sollecitata la preparazione, vengono garantiti i
suoi diritti e offerti i mezzi per espletare il suo compito (75-85; artt. 4-10).
L’istruzione intende rispondere ai nuovi bisogni spirituali e pastorali dei
migranti; tiene conto, così, delle nuove migrazioni di fedeli cattolici
orientali verso le regioni occidentali (52-55), considera la prospettiva
ecumenica e interreligiosa delle migrazioni per la presenza di massicci flussi
migratori che investono gruppi di acattolici e di non battezzati (56-60),
regola specialmente il rapporto con i musulmani, richiamando il dialogo e la
difficile reciprocità (65-68), si muove nella linea dell’inculturazione
(34-36), più volte richiamata dal magistero pontificio.
ALCUNI ASPETTI
PARTICOLARI
Il contesto in cui l’istruzione nasce non è più quello del fedele
battezzato nella chiesa cattolica e che emigra in un altro paese di fede per lo
meno cristiana. Non è più rivolta esclusivamente ai fedeli di rito latino, ma
tiene conto anche dei migranti cattolici di rito orientale, di quelli di altre
chiese e comunità ecclesiali, nonché dei migranti di altre religioni in genere
e dei migranti musulmani in specie. In riferimento alla presenza di migranti di
altre religioni, l’istruzione sottolinea quattro attenzioni particolari
(61-64): l’inopportunità di concedere l’utilizzo di luoghi sacri, riservati al
culto, all’evangelizzazione e alla pastorale, ad appartenenti ad altre
religioni per finalità cultuali o per rivendicazioni sociali; la riaffermazione
della specificità della scuola cattolica che, quando accoglie bambini di altre
religioni, pur nel rispetto delle convinzioni religiose di questi, non rinuncia
al proprio progetto educativo cristiano; specificamente sul matrimonio tra
cattolici e non cristiani, l’istruzione ribadisce la non opportunità, anche se
rimanda alla legislazione del Codice, che pure lo permette con la dispensa
dall’impedimento di disparità di culto; infine, vi è l’attenzione al principio
della reciprocità tanto disatteso verso i cristiani emigrati in paesi a
maggioranza non cristiana.
Da un punto di vista tecnico l’istruzione usa un linguaggio, nella forma e
nei contenuti, non sempre preciso, che dà adito a equivoci e confusione.
Infatti, non pare abbia affrontato e risolto, tra gli altri, una più chiara
determinazione di ruoli e di responsabilità sia delle conferenze episcopali e
dei loro organismi rispetto ai singoli vescovi, sia dei vescovi delle chiese di
arrivo rispetto a quelli delle chiese di partenza. Il ruolo degli istituti di
vita consacrata e delle società di vita apostolica non sempre risulta
sufficientemente rispettato, ad esempio in ordine a una legittima autonomia dei
sacerdoti religiosi che nel ministero in favore dei migranti operano in
conformità al patrimonio del proprio istituto, approvato dalla Chiesa; non
risulta, poi, chiaro se il presbitero appartenente a un istituto debba ricevere
la dichiarazione di idoneità da parte della conferenza episcopale a qua, come
pure se possa essere nominato coordinatore nazionale dei cappellani, dato che
il suo compito è quello di essere espressione della chiesa ad quam.
Si rileva, poi, un’organizzazione tendente ad ampliare il senso preciso di alcune
strutture. Si pensi, ad esempio, alle conferenze episcopali che – nel titolo
del cap. V – vengono avvicinate alle rispettive strutture gerarchiche delle
chiese orientali cattoliche, ma che non trovano affatto riscontro nelle prime,
alla parrocchia personale, che in quanto parrocchia deve essere configurata in
base al criterio di una determinata comunità di fedeli e in quanto persona
giuridica gode, per sua natura, della nota della perpetuità, mentre
l’istruzione ne prospetta l’appartenenza soprattutto per migranti stagionali o
sottoposti a rotazione (91). Si introduce anche la nozione di parrocchia
interculturale, di difficile individuazione (93). A tal proposito si presentava
più preciso, sotto ogni punto di vista, quanto disposto dalla precedente istruzione,
che prevedeva: la parrocchia personale, da erigere dove sono numerosi i
migranti della stessa lingua, che o si sono stabiliti nella zona o vi si
avvicendano continuamente; una missione con cura di anime, equiparata in tutto
alla parrocchia e prevista in quei luoghi in cui i migranti non sono ancora
stabili; una missione con cura di anime annessa a una parrocchia territoriale,
là dove gli stessi sacerdoti hanno cura sia della parrocchia territoriale che
dei migranti; la nomina di un cappellano della stessa lingua dei migranti con
un territorio ben determinato per il ministero.
CURA PASTORALE
SPECIFICA
Di per sé l’istruzione si riferisce unicamente ai migranti e non alle altre
categorie che, pur rientrando nel fenomeno della mobilità, non sono migranti,
ma piuttosto cadono sotto la categoria degli itineranti. I documenti della
Chiesa distinguono, nel fenomeno della mobilità umana, gli emigranti, i
marittimi, gli aeronaviganti, i nomadi, i turisti. L’ambito per il quale la
Chiesa ha accentuato la necessità di una pastorale specifica è quello dei
migranti, anche se la nuova istruzione non pare averne elaborato una nozione
pastorale, come invece aveva fatto la precedente istruzione Nemo est, quando al
n. 15 spiegava che «da un punto di vita pastorale [...] si devono considerare
migranti tutti coloro che per qualsiasi motivo si trovano a vivere fuori della
propria patria o della propria comunità etnica e hanno bisogno, per vere
necessità, di una cura particolare specifica».
Il migrante per la sua situazione di persona che vive fuori della propria
patria o della comunità etnica, generalmente non può usufruire della pastorale
ordinaria che la Chiesa offre ai fedeli mediante il ministero del parroco, che
presiede una comunità su base territoriale. La Chiesa non può abbandonare a se
stessi i fedeli che essa non può raggiungere con i metodi ordinari. Per questo,
l’istruzione nell’art. 1 dell’ordinamento giuridico-pastorale, raccogliendo
tali istanze, raccomanda al parroco e al vescovo diocesano o eparchiale di
estendere ai migranti la medesima cura pastorale dovuta ai propri soggetti
autoctoni. Ai pastori, in particolare viene raccomandato di provvedere con la
parola di Dio e con i sacramenti in modo particolare ai migranti, attese le
loro particolari condizioni di vita.
Per ben comprendere in che cosa consista la specificità della pastorale ai
migranti bisogna ricorrere alla Exsul familia, dove si precisava che ai
migranti va assicurata un’assistenza spirituale non diversa né minore di quella
di cui godono gli altri fedeli nelle diocesi. La pastorale ordinaria con cui la
Chiesa provvede ai suoi fedeli è quella della comunità parrocchiale attraverso
il parroco. Dove perciò tale pastorale è insufficiente o addirittura assente,
si dovrà provvedere, nei modi adeguati, con una pastorale specifica e
straordinaria. Trattandosi di cura pastorale, essa implica il riferimento a un
sacerdote, che sia in grado di venire incontro alle esigenze dei migranti.
L’istruzione precisa che il cappellano dei migranti deve essere un sacerdote
della stessa lingua dei migranti (38 e 77). Tuttavia, la necessità di una
pastorale specifica non deve chiudere allo sforzo di un inserimento o anche di
una piena partecipazione dei migranti alla vita diocesana.
Da questo punto di vista la pastorale per i migranti è per la sua stessa
natura straordinaria e provvisoria, appunto perché specifica e dovuta al fatto
che quella ordinaria è insufficiente o manca del tutto. Essa non è alternativa
o autonoma o contrapposta a quella ordinaria, svolta dal parroco nella comunità
parrocchiale. Il parroco rimane il responsabile della comunità dei suoi fedeli,
di tutti quelli che vivono nel territorio della sua parrocchia, solo che nei
confronti dei migranti egli non è in grado di svolgere un adeguato ministero pastorale.
La duplice appartenenza alla comunità etnica e a quella territoriale, che la
Chiesa prevede per i migranti significa, da parte di quest’ultima, il rispetto
per il migrante e per il suo patrimonio spirituale come pure per l’unità della
sua famiglia e, nello stesso tempo, un invito a iniziare un cammino di
inserimento, sia pure graduale, nella comunità parrocchiale territoriale; e,
infine, significa garantire il migrante nella sua libertà di appartenere alla
sua comunità etnica ed insieme di inserirsi in quella territoriale.
La cura pastorale specifica è considerata come qualche cosa di
straordinario che deve cessare quanto prima. Così oggetto della cura pastorale
specifica per la costituzione Exsul familia sono soltanto i migranti della
prima e seconda generazione. L’istruzione amplia tale criterio e considera la
distinzione tra prima, seconda e terza generazione (n. 89), ciascuna con le sue
caratteristiche e i suoi problemi specifici. In questo contesto si colloca la
questione dell’integrazione della cura specifica dei migranti nella pastorale
delle Chiese particolari, nel pieno rispetto della loro diversità e del loro
patrimonio spirituale e culturale. Sulla valorizzazione del patrimonio
spirituale e culturale dei migranti chiarissimo era il n. 11 di Nemo est,
quando spiegava che «i migranti portano così il proprio modo di pensare, la
propria lingua, la propria cultura, la propria religione: tutto questo
costituisce un certo patrimonio spirituale di giudizio, di tradizioni e di
cultura, il quale dovrà rimanere anche fuori della propria patria: deve essere
perciò oggetto di grandissima stima ovunque».
Se il patrimonio spirituale è un valore inalienabile della persona, la
Chiesa non può chiedere la rinuncia di quel patrimonio come prezzo per
l’espressione e la pratica della propria fede. In tale prospettiva il rispetto
del patrimonio culturale del migrante si ricollegano al tema della relazione
tra cultura e fede, evangelizzazione e lingua: «grande importanza, dunque,
della lingua materna dei migranti, attraverso la quale essi esprimono la
mentalità, le forme di pensiero e di cultura e i caratteri stessi della loro
vita spirituale e delle tradizioni delle loro Chiese di origine» (38). Ne
consegue che la pastorale specifica va mantenuta finché risulta utile, senza
alcun limite di tempo o di generazioni; va rifiutato qualsiasi tentativo di
assimilazione o di integrazione forzata dei migranti nelle strutture ecclesiali
e va favorito un atteggiamento di accoglienza e uno sforzo di inserimento da
parte dei migranti nella comunità di accoglienza.
La Chiesa, mentre in parte riconosce e promuove una pastorale specifica dei
migranti, non tralascia di evidenziare i pericoli che possono minacciare
l’unità e la comunione, qualora la pastorale specifica, pur necessaria, si
organizzasse in contrapposizione alla comunità cristiana autoctona, contro o al
di fuori dell’obbedienza al vescovo, e nella divisione. L’istruzione punta su
questo spirito di unità nella pluralità e sull’impegno ad evitare tensioni tra
migranti e autoctoni e tra gli stessi presbiteri autoctoni e missionari dei
migranti (n. 89).
Luigi Sabbarese