IN
AFRICA TRA I RIFUGIATI
NUOVO
CAMPO DELLA MISSIONE
Milioni di
profughi vivono nei campi di raccoltain condizioni precarie e spesso
allucinanti.Molti sono cristiani, ma privi di assistenza spirituale.Come vivere
la fede in condizioni del genere?Urge una nuova prassi pastorale.
La
Chiesa in Africa, e al suo interno anche i missionari, si trova ad affrontare
oggi una nuova grande sfida: quella dell’assistenza pastorale degli esuli e dei
profughi che nel continente sono diversi milioni, molti dei quali cristiani.
Nella
Chiesa c’è una crescente attenzione a questa realtà che è troppo poco definire
drammatica. Basti pensare che anni recenti sono state organizzate tre grandi
consultazioni su questo problema: la prima ha avuto luogo nel 1998 in
Mozambico, a Maputo (26-29 gennaio) per la regione IMBISA; una seconda nella
Costa d’Avorio a Yapougon (25-29 maggio) per le regioni dell’ovest e del nord;
una terza a Nairobi (Kenya) per l’Africa centrale, e dell’est, il Madagascar e
le isole. In queste tre riunioni sono state elaborate diverse importanti
proposte pastorali che necessitano ora di tradursi in scelte concrete.
Il
dramma dei profughi è conosciuto solo molto marginalmente dall’opinione
pubblica, tanto più oggi in cui l’attenzione è tutta rivolta alla guerra
nell’Iraq, con tutto quello che comporta
sul piano internazionale e nazionale.
Ci
pare opportuno perciò proporre qui, almeno in sintesi, ciò che è stato
pubblicato recentemente su questo argomento nel bollettino SEDOS (Servizio di
documentazione e di studi) nel numero di marzo-aprile scorso in un articolo
intitolato L’Église sur la route de l’exil en Afrique noire; repenser la
pastorale de la mobilité humaine, a firma del gesuita Emmanuel Bueya bu Makaya.
Quelle che propone non sono considerazioni astratte, scritte a tavolino. Egli
ha avuto infatti l’occasione di conoscere questa realtà da vicino, soggiornando
per un certo tempo nel campo profughi di Tongogara, nello Zimbabwe, dove oltre
alle immani sofferenze di questa gente, una delle cose che ha potuto osservare
è stata la mancanza pressoché totale di assistenza pastorale. Giustamente
perciò egli osserva che non bastano i documenti ufficiali; bisogna piuttosto
immergersi in questa realtà e farsene carico. È necessario cioè elaborare una
pastorale nuova che si prenda cura di persone che vivono fuori dei quadri
normali della vita ecclesiale, lontane dalla loro terra e dal loro ambiente
cristiano e culturale, in una condizione di sofferenza e spesso di desolazione,
soprattutto psicologica, dove forse solo una fede sostenuta e continuamente
alimentata potrebbe offrire ancora valide ragioni di vita e di speranza.
A
Tongogara, i profughi che egli ha potuto conoscere provenivano da vari paesi:
Rwanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo, Angola, Congo-Brazzaville.
Ciascuno portava con sé una sua storia di sofferenza, di solitudine e
abbandono, impastata spesso di rabbia e di un irreprimibile desiderio di
vendetta.
SITUAZIONE
ALLUCINANTE
I
profughi, scrive, sono individui che fuggono da una ambiente infernale di
saccheggio e di massacri, costretti ad abbandonare precipitosamente la loro
città o il loro villaggio per cercare rifugio altrove. Molti partono portando
con sé ricordi allucinanti: sono persone che hanno avuto la casa e i loro beni
incendiati, hanno visto soldati uccidere il loro marito e i loro figli… Partono
con lo sguardo pieno di orrori e il cuore oppresso da incubi. E, durante la
fuga, hanno dovuto spesso sfuggire a soldati crudeli e quasi bestiali, dormire
nelle foreste, esposti a tutte le intemperie, e con l’ansia per il proprio
domani…
Una
volta giunti nel nuovo paese, vengono ammassati nei campi di raccolta per un
tempo indeterminato, alcuni per rimanervi per sempre. Qui, se non manca una
certa assistenza materiale, grazie anche agli aiuti degli organismi
internazionali, vivono però in uno stato di estrema vulnerabilità, esposti al
logoramento e agli abusi sessuali che fanno del campo un territorio di immoralità
o di amoralità: non esiste nessuna etica né alcuna norma giuridica. Così,
ciascuno cerca di sopravvivere come può, cercando di sfuggire all’insicurezza
fisica, sociale, psicologica e materiale come la fame, il freddo e la malattia.
L’assistenza
materiale che ricevono però rischia di far passare in secondo ordine altri
problemi profondi, come i traumi psicologici, l’aridità spirituale, il buio nel
campo della fede, ecc. In effetti ciascuno porta nel segreto del cuore il peso
della propria sofferenza umana. Ecco, per esempio, una mamma che soffre di
ipertensione a forza di rimuginare i ricordi dolorosi della morte del marito e
dei figli; ecco una ragazza rimasta sola senza più nessuna notizia dei suoi
genitori e dei membri della sua famiglia, e che durante la fuga è stata presa
in ostaggio da una banda di militari che ne hanno fatto una schiava sessuale:
salvatasi miracolosamente, essa cerca ora invano di dimenticare questo incubo
che ha infranto la sua vita affettiva. Oppure ecco un giovane privo di qualsiasi
sostegno famigliare, che spesso si ubriaca e soffre per essere rimasto solo.
«Tutti, scrive padre Emmanuel, portano in sé il dramma della violenza e non
cessano di domandarsi: “perché a me, che cosa ho fatto a Dio per meritare un
simile destino?”».
In
questa situazione di sbandamento e di angoscia, il comportamento del rifugiato
sembra a volte incomprensibile e inspiegabile. Lo sradicamento e la spoliazione
materiale, aggravati da altre circostanze drammatiche, traumatizzano la persona
sul piano spirituale e psicologico ed essa finisce col diventare un essere
allucinato e sconvolta che semina panico nel campo. Così ridotta, questa
persona ha assoluto bisogno di una terapia psicologica, di un sostengo
affettivo e di un accompagnamento pastorale che l’aiuti a sopportare queste
prove.
Sono
individui, prosegue ancora il padre, fuggiti dalla loro terra devastata, che
hanno lasciato dietro di sé persone care
uccise, senza avere avuto la consolazione di piangerle e di seppellirle
dignitosamente. Questi ricordi gravano ora sulla loro memoria e le ombre dei
cari scomparsi popolano come fantasmi le loro notti. Sono inconsolabili. Ad
essi, il Dio di amore sembra molto lontano, e il sole splendente che sorge ogni
mattina non fa che prolungare la loro interminabile agonia. Si fa presto,
sottolinea il padre, a pronunciare messaggi di consolazione, parole di pace, di
fiducia e di speranza; la loro anima, trafitta da parte e parte, è pervasa da
una sofferenza simile all’agonia di Gesù sul Golgota.
In
una situazione del genere, sottolinea padre Emmanuel, viene da pensare alla
teologia del silenzio di Dio, sviluppata a partire da Auschwitz, ma si impara
anche a pregare con Gesù al Getsemani. Il Figlio di Dio suda sangue e acqua;
sente il terrore e l’angoscia. Il martello della prova spezza la sua volontà e
l’annienta fino alla morte. Questo Dio a cui egli ha tutto affidato e che
chiamava Padre, con affetto filiale, si è ritirato. Invano egli va a cercare
consolazione dai suoi apostoli che dormono di un sonno di piombo. In questa
solitudine mortale il Messia grida, invoca e piange. È la preghiera di un uomo
che va incontro alla morte apparentemente nel fallimento totale: abbandonato da
tutti, minacciato dall’odio abietto di una folla a cui ha fatto solo del bene.
Questo
dramma si ripete oggi nelle violenze etniche, negli abusi sessuali, negli
stupri e gli assassini, nello sfruttamento di cui i rifugiati sono vittime
innocenti o testimoni involontari.
In
Africa ci sono le sette che cercano di spargere del balsamo nei cuori dei rifugiati,
occultando però i conflitti che devastano le loro vite e pretendendo di offrire
una pace senza un oggettivo processo di analisi dei problemi vissuti. In questo
modo impediscono di far fronte al dramma dell’esistenza umana. Solo la
preghiera di Gesù agonizzante può illuminare e ridare conforto ai rifugiati che
vivono un dramma simile al suo. La preghiera diventa così lo strumento per
manifestare le proprie ferite e le sofferenze e nello stesso tempo offre la
grazia di accettare l’inaccettabile e la forza di conservare la speranza in un
Dio che soffre con noi e ci farà risorgere con il suo Figlio.
PRESENZA
DELLA
CHIESA
Nei
campi profughi osserva p. Emmanuel, ciò che fa difetto è la vita sacramentale,
il rapporto con il Dio della storia, con Gesù salvatore, con lo Spirito di
amore, con la Chiesa. Posto fuori delle strutture ecclesiali normali, come può
un rifugiato vivere la fede proprio quando nella prova che attraversa avrebbe
bisogno di trovare una comunità di fede dove ascoltare la confortante Parola di
vita e beneficiare dell’appoggio dei propri fratelli cristiani? Il rifugiato
vive fuori della comunità cristiana, lontano dalla sua cultura e tradizione
religiosa. La situazione è ancora peggiore per quei rifugiati che portano
dentro di sé i traumi della violenza, il
tormento della rabbia e dell’ossessione della morte, prigionieri dei pregiudizi
etnici e culturali che li mettono gli uni contro gli altri. Chiusi in questi
conflitti, essi covano odio e vendetta e ciò rende la loro vita insostenibile
dal punto di vista psicologico e spirituale.
Padre
Emmanuel si domanda: come si può vivere la fede in un mondo così soffocante,
senza sacerdoti che amministrino i sacramenti della riconciliazione e
dell’eucaristia, senza riunioni né momenti di incontro fraterno, al di là del
culto domenicale?
Questa
situazione, inoltre, nasconde anche altri problemi che hanno bisogno
dell’intervento della Chiesa: il cambiamento di cultura e spiritualità, i
traumi psichici, la distruzione della famiglia, il crollo degli ideali, il
contatto e il paragone con le altre religioni, le difficoltà di lingua, cultura
e ambiente, la promiscuità nei campi di accoglienza, la mancanza di catechesi,
di libri religiosi nella propria lingua; i matrimoni misti, la mancanza di
luoghi sacri, di liturgie adatte, ecc.
Per
far fronte a questa realtà, secondo p. Emmanuel, la cosa più urgente è di
imprimere un orientamento nuovo a tutta la formazione dei futuri preti, per
sensibilizzarli a questo problema. Anche i professori e gli insegnanti devono
essere consapevoli se vogliono formare degli agenti pastorali disposti non solo
a lavorare tra i rifugiati, ma con i rifugiati per aiutarli a farsi carico di
sé medesimi. In altre parole, osserva p. Emmanuel, «la mobilità umana dovrà
costituire un capitolo aggiornato e debitamente strutturato dell’insegnamento
della teologia pastorale. Ma anche lo studio della Scrittura, della dogmatica e
della morale dovranno tenere presenti queste problematiche. Come affermava già
nel lontano 1976 un altro gesuita, p. Meinrad Hebga, «il teologo africano non
dovrà più essere valutato per la sua perfetta conoscenza del pensiero di san
Tommaso d’Aquino, di Martin Lutero, di Karl Barth e di Karl Rahner, pensatori
europei, ma in base al suo impegno ad approfondire la parola di Dio… Il nostro
avvenire non è in occidente, ma sul nostro suolo, nell’Africa nera».
Sarebbe
inoltre opportuno, osserva p. Emmanuel, offrire ai seminaristi la possibilità
di compiere degli stage pastorali nei vari campi del bisogno come ospedali,
centri di accoglienza per bambini della strada e tra i profughi, consentendo
loro di assumere compiti pastorali che rendano visibile la Chiesa. Inserito nel
campo, il seminarista parteciperà alla formazione della comunità ecclesiale con
la sua presenza alle attività religiose che fanno di un gruppo umano un popolo
di Dio, una Chiesa-famiglia. Compito tanto necessario, rileva il padre, in
quanto i profughi, abbandonati a se stessi, finiscono con l’essere esposti alla
tentazione dell’alcol, della droga, della rapina, delle dispute, della
bagarre ecc. L’agente pastorale potrà
allora aiutare, soprattutto i giovani, a trovare nell’insegnamento religioso un
senso accettabile alla loro vita.
Il
problema dei profughi interpella perciò oggi vivamente la Chiesa. Non basta occuparsi
dei loro bisogni materiali. Occorre anche una prassi pastorale appropriata.
«Possa la Chiesa, tutta intera, conclude p. Emmanuel , rendersi disponibile ad
abitare in questi luoghi privilegiati e testimoniare la sollecitudine di Dio
per l’umanità».
A.D.