UN’ANALISI DELLE MOTIVAZIONI

AIUTARE IL PROSSIMO

 

A volte dietro le motivazioni più nobili e valide vi possono essere altri motivi di cui il soggetto può essere più o meno cosciente. In questo caso il servizio svolto diventa meno autentico e vero. Non è dunque ozioso per la persona consacrata chiedersi per chi e per quale motivo si sta agendo.

 

Sacerdoti e religiosi sono persone che, attraverso varie forme di apostolato, dedicano buona parte del loro tempo all’aiuto del prossimo: ammalati, poveri, handicappati, famiglie in difficoltà, tossicodipendenti, giovani, extracomunitari, persone sole... Fa parte della loro missione, che li vuole accanto ai fratelli per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

D’altra parte, è facile immaginare come aiutare il prossimo possa essere condizionato dalla trama complessa e misteriosa dei bisogni che ogni persona sperimenta: dietro le motivazioni più nobili e valide vi possono essere altri motivi – di cui il soggetto può essere più o meno cosciente – che arrivano anche ad assumere una rilevanza prevalente. In questo caso il servizio svolto diventa meno autentico e vero.

Non è dunque una domanda oziosa, per una persona consacrata, chiedersi qualche volta: per chi, per che cosa faccio veramente ciò che sto facendo?

In realtà l’interrogativo di fondo è duplice. Da un punto di vista psicologico si tratta di chiedersi quali sono i veri motivi (non i buoni motivi, quelli cioè che corrispondono all’immagine buona che vorremmo avere di noi) che stanno alla base dell’impegno apostolico nelle sue varie manifestazioni: si tratta di un’analisi di tipo descrittivo, per verificare ciò che di fatto avviene. Da un punto di vista  valoriale (assiologico), invece, ci si chiede quale motivazione deve stare alla base di un aiuto autentico al prossimo. Nel primo caso il soggetto si chiede come di fatto si comporta, nel secondo come dovrebbe comportarsi per essere nella verità.

 

AMORE AUTENTICO

E INGANNI

 

Dare aiuto al prossimo è compito nobile e socialmente molto apprezzato; per essere veramente tale deve essere vero, autentico e liberante. Se dare aiuto dovesse significare, di fatto, creare dipendenza o avesse lo scopo di soddisfare bisogni personali inconsci, il destinatario non ne trarrebbe beneficio.

Le motivazioni che portano ad aiutare il prossimo sono autentiche quando vi è corrispondenza tra quanto appare all’esterno o viene dichiarato o si vuole far credere e ciò che realmente il soggetto sente e intende nel suo intimo. In caso contrario parliamo di motivazioni non autentiche, o false.

Aiutare il prossimo è un’attività difficile e delicata, richiede tatto; è fatta non solo di azioni o gesti esteriori, ma soprattutto di motivazioni profonde che accompagnano le decisioni razionali. Si possono offrire parole, cose, soluzioni di problemi, interventi specifici; determinanti sono soprattutto gli atteggiamenti che vengono di fatto metacomunicati nella relazione di aiuto (ad esempio: atteggiamenti nei confronti della persona che ci sta di fronte, della vita, della morte, del dolore; concetto di sé; convinzioni religiose...).

La persona che offre aiuto ha essa stessa bisogno di darsi aiuto. Dare aiuto è infatti un’esperienza non solo complessa ma anche rischiosa: fallimenti, rifiuti, delusioni e frustrazioni, aggressioni, stress, sentimenti di impotenza... sono possibili e sempre pronti ad emergere. Da questo punto di vista, l’obiettivo da tenere presente è la ricerca continua di equilibrio tra separazione e partecipazione, fra distacco e condivisione.

L’inganno è uno dei pericoli maggiori per chi si appresta a offrire aiuto, perché travisa il significato delle azioni.

Il desiderio di portare aiuto può trarre origine da un’ammirevole generosità, da autentico interesse per l’altro, ma può anche essere espressione di un disagio personale, di un bisogno di riscatto, del bisogno di proteggersi da qualche sofferenza, della preoccupazione (inconscia) per qualcosa che ci riguarda particolarmente, di aspettative inconfessate, di spinte di carattere narcisistico, del forte bisogno di essere compresi e amati. Da questo punto di vista, l’aiuto che la persona può dare a se stessa si fonda su un’autoanalisi continua, volta a verificare la natura delle proprie emozioni, motivazioni e vissuti interiori a mano a mano che le relazioni di aiuto vengono portate avanti. Il saggio richiamo biblico è sempre attuale: «Più fallace di ogni altra cosa è il cuore e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» (Ger 17,9).

Questa autoanalisi si rende particolarmente necessaria in certi momenti, quando ci si trova di fronte a possibili spie di motivazioni non autentiche. Ad esempio: sensazioni di rabbia e aggressività (“allora arrangiati, se non vuoi seguire il mio consiglio...”; “rivolgiti a chi capisce meglio il tuo problema”); profondo senso di scontentezza di fronte all’ingratitudine dell’altro (“mi aspettavo almeno un grazie, un piccolo segno...”); forte senso di delusione per il mancato apprezzamento per gli sforzi compiuti e la generosità dimostrata; esagerata preoccupazione per l’esito dei propri sforzi apostolici, per il possibile fallimento delle persone che si aiutano; eccessiva identificazione con la sofferenza o la disperazione dell’altro (sto troppo male quando vedo queste cose, non posso non aiutare persone che si trovano in queste condizioni...); mancanza di riguardo e (accentuata) trascuratezza per quanto riguarda i propri bisogni (quello che posso sentire io non è importante, ciò che conta è che l’altro sia felice..); interesse esagerato per qualche persona in particolare, la quale finisce con l’essere ossessivamente presente nei pensieri o nei sogni di chi aiuta e per la quale non si risparmiano né tempo né fatiche.

 

AIUTARE

CON LE PAROLE

 

Molto spesso chi aiuta il prossimo lo aiuta con le parole – parole di conforto, di incoraggiamento, di comprensione, di chiarimento, di ammonimento. A quali condizioni questo aiuto può essere veramente tale? È utile riflettere un momento sulla risposta a questa domanda.

Parlare a sé e parlare all’altro

F. Montuschi (L’aiuto fra solidarietà e inganni, Assisi, Cittadella editrice, 2002) propone una distinzione interessante tra parole per noi e parole per gli altri. Può capitare facilmente che la persona consacrata si trovi di fronte a situazioni personali molto dolorose, talvolta drammatiche, umanamente assurde e inspiegabili. In casi simili a volte non si sa cosa dire... o comunque riteniamo più rispettoso stare accanto alla persona che soffre in silenzio, come suggerisce D. Bonhoeffer, il quale afferma: «di fronte alla sofferenza mi sembra più saggio fare silenzio e non tentare di risolvere quello che è senza soluzione».

Altre volte, però, non vogliamo – o non riusciamo – a stare in silenzio, sentiamo il bisogno di dire qualcosa e parlare... per aiutare l’altro. Ma l’aiuto con le parole è possibile soltanto a certe condizioni. «Quando ci accorgiamo che la sofferenza, percepita come grandiosa e ingovernabile, blocca le parole, in quel momento, prima ancora di dirle a qualcuno, abbiamo bisogno di dirle a noi stessi» (Montuschi, l.c.,  p. 88).

Per trovare parole per noi abbiamo bisogno anzitutto di fare chiarezza su ciò che sta succedendo. Fare chiarezza – continua Montuschi - significa identificare ciò che ci appartiene nel sentimento che stiamo provando e ciò che non ci appartiene; ciò che appartiene al dramma del nostro interlocutore e ciò che invece, appartenendo alla nostra storia personale, siamo portati a sovrapporre al suo dramma. Se vogliamo parlare all’altro, abbiamo bisogno di separare il nostro dolore dal suo; abbiamo bisogno di districare il passato dal presente, di fare pace con i fantasmi delle esperienze dolorose del passato; abbiamo bisogno di non caricare di significato autobiografico la realtà, perché in tal modo potrebbe diventare insopportabile. In una parola: fare chiarezza significa richiamare a noi stessi queste verità.

Un’altra possibilità di parlare a noi stessi consiste nel chiedersi: che cosa posso e voglio fare in queste condizioni? Questo interrogativo nella sua semplicità, nella sua banalità riesce ad annullare il pregiudizio che “non c’è più nulla da fare”, ci porta a fare la verità in noi stessi, stimola risorse nascoste.

Le parole per noi servono per trovare delle strade alternative a quelle che sembrano portarci verso il nulla, verso il non senso; servono per evitare l’autoinganno di credere di stare aiutando l’altro mentre, in realtà, stiamo cercando di aiutare noi stessi. Le parole per gli altri servono per esprimere quella solidarietà che solo gli esseri umani sono in grado di esprimere e di comprendere; servono per far sentire meno solo l’altro nel suo dolore. «Riuscire a parlare con noi stessi di fronte al dolore con parole di chiarezza, di potere e di speranza significa rimettersi continuamente in gioco: e qualunque tragedia possa sopraggiungere non impedisce alla persona di decidere come affrontare la realtà. Ed è a questo punto, e solo a questo punto, che possiamo permetterci di parlare con gli altri. Quando dentro di noi c’è confusione e sovrapposizione, quando credendo di parlare agli altri parliamo a noi stessi, quando consoliamo gli altri per consolare noi stessi, diciamo parole incomprensibili, confuse, a mezza strada tra noi e gli altri: non c’è chiarezza di rapporto tra la persona che parla e la persona che ascolta. Possiamo dire in forma più brutale: c’è monologo, non c’è dialogo! Trovata la chiarezza – e trovato il “territorio psicologico” in cui siamo noi e il punto in cui è l’altro – possiamo cogliere con pienezza il bisogno del nostro interlocutore e dirgli parole che hanno un senso. Siamo anche nelle condizioni, se lo vogliamo, di accettare una realtà che può essere tragica e quasi insopportabile» (Montuschi, l.c., p. 98).

Parlare nella sincerità

È possibile aiutare il prossimo con le parole se queste sono dette nella sincerità. «Ecco ciò che voi dovrete fare: parlare con sincerità ciascuno con il suo prossimo» (Zac 8,16). Chi dunque vuole aiutare il prossimo deve avvicinarsi a lui con parole vere: parole di circostanza, frasi fatte, dichiarazioni retoriche e vuote non creano intimità ma allontanano. Dire a un ragazzo che “crediamo nelle sue possibilità”, quando intimamente non ne siamo convinti; dichiararsi sinceramente dispiaciuti di fronte a un insuccesso della persona che vogliamo aiutare, quando in realtà la cosa ci lascia sostanzialmente indifferenti; ostentare una gioia euforica nel rivedere una persona di cui a suo tempo ci siamo occupati, quando in realtà proviamo poco più che una semplice curiosità: sono tutti esempi di situazioni che anziché aiutare l’altro contribuiscono a confonderlo.

Ascoltare con sincerità

Non è solo la parola che diciamo che offre aiuto e ha senso nel momento del dolore. Può essere di aiuto anche la parola che ascoltiamo. Ci sono persone che hanno più bisogno di essere ascoltate che di sentire parole: hanno bisogno di dire la loro paura, la loro rabbia, la loro disperazione; hanno bisogno di tradurre in parole questi sentimenti per alleggerire il peso che portano dentro, fatto di parole non dette. «Ascoltare, in alcuni momenti di sofferenza, diventa fondamentale soprattutto per quelle persone che non sanno usare la parola come elemento di comunicazione ordinaria, per quelle persone che dignitosamente si nascondono, per quelle persone che non danno mai fastidio. Queste sono persone che hanno bisogno di essere ascoltate: hanno bisogno che venga loro offerta un’occasione di liberazione per dire qualcosa che non riescono più a sopportare» (Montuschi l.c., p. 100).

Purtroppo la possibilità di incontrare persone capaci di offrire aiuto agli altri attraverso un ascolto autentico sono rare. Molti, ascoltando l’altro, gli ripetono:ti capisco, ti capisco’, ma si illudono e lasciano l’altro confuso e più solo. Molti sono convinti di aver ascoltato chi ha bisogno di condividere la sua sofferenza o preoccupazione semplicemente perché gli hanno dato la possibilità di parlare o sfogarsi per un po’, dopodiché hanno offerto riflessioni e considerazioni moraleggianti. Molti arrivano anche a incoraggiare l’altro a parlare, a condividere, a confidarsi..., convinti di aiutarlo con il loro ascolto, mentre in realtà viene gratificato il narcisismo di chi, così facendo, sente di essere nella posizione di colui che può dare qualcosa a chi non ha, è interiormente appagato nel costatare che l’altro si consegna a lui.

La capacità di ascoltare con attenzione, cercando di comprendere il punto di vista dell’altro (ascolto empatico) è una competenza comunicativa che si può acquisire con pazienza e applicazione: richiede sufficiente calma interiore, capacità di centrarsi sull’altro, attenzione a ciò che viene metacomunicato al di là delle parole.

 

IL VERO AIUTO

NASCE DALL’AMORE

 

L’aiuto autentico nasce dall’amore per l’altro. Amore significa: rispetto, responsabilità, premura, dare anziché ricevere. L’amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità.

Rimanendo sul piano psicologico, si può affermare che un criterio e un punto di riferimento che il soggetto può assumere per valutare l’autenticità del proprio agire e uscire quindi dai calcoli e dagli inganni possono essere il senso di benessere che la persona coglie e riconosce nella propria interiorità a seguito di un’azione compiuta, del cui significato ha piena consapevolezza: in una parola, il piacere di essere utili.

Il dare aiuto in modo autentico nasce sempre dalla consapevolezza e dalla libertà, non da bisogni di tipo compulsivo. Si configura come una decisione che rientra in un proprio piano di vita, attraverso la quale si vuole realizzare un valore e contribuisce a dare senso alla propria esistenza  (Erikson afferma che «l’uomo maturo ha bisogno che si abbia bisogno di lui»).

Se essere liberi significa non semplicemente seguire il proprio sentimento o inclinazione naturale, ma la capacità di seguire una verità che si è scoperta, allora per il tema che stiamo considerando si può affermare che la persona consacrata offre aiuto all’altro nella libertà perché ha scoperto la verità delle parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,22). È stato Cristo a portare definitivamente la chiarezza nella storia del bisogno e del soccorso (R. Guardini); egli spezza tutti i cavilli dell’egoismo e le illusioni della saggezza autonoma, mette al riparo l’aiuto del prossimo dalle ambiguità e aleatorietà del sentimento o dell’inclinazione naturale e lo fonda in modo assoluto e definitivo ricordando che nella persona del bisognoso è presente lui stesso.

A questo punto è anche possibile parlare della grazia di servire il prossimo. Per comprendere la verità di queste parole e come ciò possa avvenire è istruttivo rileggere il discorso, riportato nei Promessi Sposi, di p. Felice – il “mirabil frate” – pronunciato al lazzaretto, di fronte alla moltitudine degli appestati. «Per me – disse – e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero.

Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva; se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica». E il Manzoni aggiunge: «Noi abbiam potuto riferire, se non le precise parole, il senso almeno, il tema di quelle che proferì davvero; ma la maniera con cui furon dette non è cosa da potersi descrivere. Era la maniera di un uomo che chiamava privilegio quello di servir gli appestati, perché lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamente corrisposto, perché sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva perdono, perché era persuaso di averne bisogno».