CHIESA
LOCALE E VITA CONSACRATA
IN
RELAZIONE SUL TERRITORIO
Nel momento
presente, il punto di partenza capace di dischiudere il futuro per ogni
famiglia religiosa è l’accoglienza di alleanze con laici e presbiteri della
chiesa locale come una questione irrinunciabile per esistere. Allora il cammino
da compiere è di rendere visibile il fatto di essere parte di un tutto.
Una
vita religiosa che volesse costruirsi, di diritto o di fatto, sull’autarchia e
la separazione dal mondo e dalla Chiesa, come era un tempo – complice, in
parte, la passata legislazione canonica (CIC del 1917) – a lungo andare
finirebbe col non essere riconosciuta o comunque di diventare irrilevante.
La
riprova di ciò si è avuta in alcuni momenti ecclesiali significativi. Al
convegno della Chiesa italiana a Palermo (1996), dal titolo Il Vangelo della
carità per una nuova società in Italia, dalle diocesi erano stati indicati
soltanto 20 religiosi (altrettanti furono poi invitati dalla commissione
preparatoria quando ci si accorse della esiguità numerica dei religiosi)
nonostante fossero migliaia i religiosi impegnati nel campo della carità.
Altrettanta disattenzione si è notata nel sinodo europeo (1999). In queste
occasioni ci si è resi conto che oggi la
Chiesa è e appare sempre meno la chiesa dei preti e dei religiosi e sempre più
come Chiesa di molte vocazioni, parecchie delle quali decisamente nuove e con
una capacità di aggregazione che fino a qualche tempo fa sembrava esclusiva
della vita religiosa. Il cardinale Martini direbbe: «Oggi non c’è più nessuna
prima fila».
Altro
esempio: nella prima stesura di quattro piani pastorali diocesani nel 2002 (su
nove presi in esame) risultava che non venivano menzionati i religiosi/e.
Siamo
al punto che la vita religiosa fatica a dare ragione di se stessa a partire da
sé. Si sente allora l’urgenza di ricrearne l’identità. Un tempo essa era
riconoscibile da ciò che faceva; ora le opere apportano pochissimo
all’identità: «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che
invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento»:
termini questi che rimandano all’ “impasto”. Teilhard de Chardin affermava che
la vita religiosa non consiste nel distaccarsi dalla vita ma nell’inserirsi più
profondamente. Per poter essere fermento deve essere all’interno di un dato
contesto cioè inserita nel dinamismo della vita ecclesiale. Così facendo ci si
accorgerà che i carismi rivivranno ben piantati su quel terreno fertile - la
Chiesa e il mondo - che li ha generati e per il quale sono nati. Se al
contrario non c’è questa circolazione vitale, essi muoiono. Oggi più che mai la
VR diventa sterile ogni volta che si chiude in se stessa e smarrisce gli
orizzonti ecclesiali.
Nel
momento presente il punto di partenza capace di dischiudere il futuro, per ogni
famiglia religiosa è l’accoglienza di alleanze con laici e presbiteri della
chiesa locale come una questione irrinunciabile per esistere. Allora il cammino
da compiere è di rendere visibile il fatto di essere parte di un tutto: questo
è il senso di vocazione particolare (riferito alla VR), essere «un aspetto singolare
e suggestivo (perfino irrinunciabile) del Vangelo, senza comunque poterne
compendiare la totalità».1 «Noi religiosi – scriveva padre Ferrari – dobbiamo
ritornare a essere cristiani, senza troppe distinzioni, che hanno solo una
responsabilità in più: non quella di incarnare il buon esempio personificato ma
di essere un segno visibile e una sollecitazione rivolta a tutti a vivere
secondo il Vangelo. La nostra preoccupazione deve essere solo una: realizzare
questa funzione nella Chiesa». Il problema attuale della VR è quello di essere
segno «perché il punto debole non consiste nel non sapere che cosa essa sia ma
piuttosto nel non sapere come ridarle significato in contesto di
secolarizzazione, entro il quale i consueti segni non dicono più ciò per cui sono
stati detti».2
Non
risolvere il problema comporta l’essere emarginati per insignificanza cioè
tagliati fuori dalla vita della gente e dai suoi veri problemi, dai progetti di
avvenire dei giovani.
La
domanda da farci è: la vita religiosa si trova in questa situazione, per crisi
di vocazioni o di significato? A tutt’oggi si va dicendo che è dovuta alla
mancanza di vocazioni; invece è proprio il contrario: la crisi di vocazioni
dipende dalla crisi di significatività della vita consacrata. La conseguenza è
che il giovane d’oggi non comprende più le ragioni per le quali valga la pena
di spendere la propria vita.
Perché
nel territorio
Parlando
della vita consacrata (1993), Giovanni Paolo II ebbe a dire: «Chi riceve un
dono dello Spirito Santo potrà farlo fruttificare solo se egli sarà
profondamente inserito nel dinamismo della vita». Sulla stessa onda è l’istanza
di Vita consecrata (47): è tempo di un ripensamento serio e creativo sul
proprio modello di vita, con l’organizzazione e fisionomia ecclesiale, perché
l’universale che non si radica nel particolare è una pura astrazione.
Diversamente ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità
nei confronti del cammino culturale circostante con la conseguenza però che,
per il futuro, il carisma di consacrazione risulterà sempre più insignificante
e irrilevante davanti al mondo.3 Di conseguenza si fa forte l’esigenza di un impegno evangelico il cui ambito non sia un luogo avulso ma
inserito nell’ecclesiale, nel sociale e nel politico.
Oggi
dunque non interessiamo più per una vita atipica ma per una particolare
modalità di vivere e di proporre dei valori che sono necessari a ogni persona
umana. Il segno della separazione, dell’asimmetria della VR rispetto al mondo e
in qualche misura alla Chiesa, nei tempi passati, ha portato all’idea della
VR come “diversa” e come tale sacralizzata, idealizzata; idea
che ha tenuto fino al giorno in cui la crisi semantica del sacro ha investito
le istituzioni (congregazioni, ordini), spogliandole della stima che scaturiva
dalla loro sacralità per cui oggi, specie nella cultura giovanile, in questa
diversità è prevalente il senso di “strano” che ha contribuito a rafforzare gli
stereotipi negativi della VR.4
In
uno degli incontri ho chiesto ai responsabili dei vari settori pastorali
diocesani come essi vedevano l’apporto dei religiosi nella chiesa locale. Ecco
in sintesi alcune loro considerazioni.
–
Non ci sono più frizioni tra clero diocesano e religiosi. C’è una sufficiente
sintonia che domanda di diventare reciprocità nello scambio di doni.
–
Forse si richiede ancora un approfondimento dell’ecclesiologia dei carismi, dei
ministeri e delle diverse forme di vita cristiana per muoverci in un contesto
di comunione.
–
È pur vero che attualmente è ancora carente nella Chiesa il riconoscimento
della varietà di doni e ministeri e quindi rilevante la difficoltà a comporli
in armonia, ma è altrettanto vero che in un territorio i progetti si fanno
con i “concittadini” e non con i “campeggiatori”.
Un vescovo a un religioso che incontrava per la prima volta chiese
scherzosamente ma allusivamente: «Dove ha posto la sua tenda?».
– Oggi si è più propensi ad affidare la
responsabilità di un settore pastorale ai religiosi secondo il proprio carisma,
ma non è sufficiente che questi esprimano in proprio una loro pastorale ma la
pastorale di una data chiesa territoriale attraverso un particolare carisma.
–
Per ovviare al fatto di essere ricondotti a un ruolo strumentale i religiosi
devono essere maggiormente centrati su un progetto di chiesa locale con
corresponsabilità e continuità. Ciò significa che l’ordinario deve poter
effettivamente contare su un religioso/a. Oggi sono sempre più numerosi i
vescovi che per progetti diocesani in cui sono coinvolti i religiosi (pastorale
scolastica, sanitaria, giovanile) richiedono un impegno minimo di 10 anni.
–
Cos’è avvenuto – chiedeva uno dei presenti – se circa 10 anni fa i religiosi
tendevano a lasciare le parrocchie per impegni relativi al loro carisma, mentre
oggi esse diventano lo spazio maggiormente richiesto? Non sarà che l’impegno
parrocchiale – per i religiosi – va a configurarsi come spiaggia ancora
possibile e dunque con il carattere di residualità?
–
Come intendono collocarsi i religiosi all’interno delle unità pastorali, ove
per unità si intende una certa omogeneità di indirizzo, interdipendenza,
riferimento al delegato di zona? Si intendeva sottolineare il fatto che oggi,
tempo in cui viene a diminuire il numero dei presbiteri, paradossalmente viene
a essere meno richiesto il servizio presbiterale dei religiosi. In alcune
diocesi si suggerisce di non fare ricorso alla supplenza dei religiosi per
avviarsi alla pastorale del futuro che sarà meno sacramentaria e più di
annuncio.
–
I religiosi ci aiutino a «elaborare nuovi progetti di evangelizzazione per le
odierne situazioni» (VC 73 d), purché ricchi di spiritualità.
–
Chiamati, per vocazione, a essere esperti di comunione, ci aiutino a tradurre
il concetto di comunità in modi concreti da esprimersi nelle parrocchie.
Ho
avuto modo di fare la successiva domanda ai soggetti significativi di un
territorio: nell’ipotesi di una comunità religiosa, come la vedreste? Ecco le
risposte:
–
in questo momento, in cui si dà l’avvio alle unità pastorali, essa sappia
collocarsi in modo giusto nella Chiesa, come parte insostituibile di un tutto,
aiutando a vivere la nuova ecclesiologia con la propria specificità,
riconosciuta e valorizzata nei compiti che discendono dai propri carismi;
–
lavoro (attività apostolica) e spiritualità coincidano. Ciò è possibile quando
il primo viene vissuto e riconosciuto come modalità concreta di interpretare il
Vangelo; con modalità che siano facilmente riproducibili nella normalità;
–
che, considerando i laici soggetto di missione, faccia crescere la
ministerialità di tutti, facendosi con loro compagni di viaggio; sia in
rapporto di fraternità: ciò significa poter dare ma anche ricevere,
specialmente sappia riesprimere in situazione di secolarità il proprio bagaglio
spirituale;
–
«che esprima una vita religiosa in movimento, ma non su una corsia per veicoli
lenti»;
–
con impostazioni che permettano ai laici di partecipare alla vita dei religiosi
(preghiera, mensa, lavoro, feste);
–
che, standone dentro, non in cattedra, dia risposte di senso;
–
che evangelizzi, assumendo il linguaggio esperienziale;
–
che sappia suscitare la presenza da protagonisti
dei laici nell’organizzazione e nella gestione, dove
tocca ai religiosi in particolare modo, mantenere il “servizio” in tensione
verso un “oltre”; che tale comunità sia aperta, abitabile dalle persone.
Da
quanto detto mi sembra emergano in modo particolare tre istanze che possono
indicare i modi che ha la vita religiosa per esserci nel futuro.
Istanza
di spiritualità
Deve
ritrovare il suo ruolo fondamentale all’interno del popolo di Dio in ordine al
bisogno di spiritualità, al bisogno di incontrare la ricerca che sta nel
profondo dell’uomo postmoderno. Ma a fronte della domanda d’oggi, le risposte
di ieri non bastano più. La VR ha da tornare a essere produttiva di una spiritualità
fruibile da un vasto numero di persone, arricchita di dimensione laicale sempre
più rivalutata nell’attuale sensibilità ecclesiale; spiritualità capace di far
vivere il Vangelo in termini nuovi, di produrre stili di vita che siano
risposta ai bisogni del mondo; spiritualità in cui il rapporto con Dio, da
esperienza prevalentemente individuale sia esperienza che passa attraverso un
rapporto con le persone.
Istanza
di missionarietà
Atteggiamento
missionario significa passare dalla gestione dei bisogni religiosi
all’attenzione delle domande che le persone portano con sé; saper operare il
collegamento tra le proposte del Vangelo e le situazioni storiche; questa è
l’arte di cercare i segni di Dio nelle realtà del mondo. Certamente la VR ha
una funzione di insegnamento ma diverso nella forma dal magistero della Chiesa;
è più simile al compito di farsi espressione dell’istinto della fede dei
fedeli, capace di evidenziare gli stati di coscienza nuovi dell’umanità: il
cosiddetto sensus fidei secondo la formula presente nella tradizione teologica
antica. È colui che con la vita non solo reinterpreta l’insegnamento della
Chiesa per i fedeli ma interpella anche il magistero in nome della fede che
abita lo spirito contemporaneo. Al religioso oggi sono richieste non solo delle
risposte ma anche la capacità di sintesi tra queste e le domande tipiche del
nostro tempo.
Istanza
di fraternità
La
comunione fraterna nella Chiesa sarà l’elemento peculiare della spiritualità di
domani. È urgente allora radicare nelle comunità il modello della fraternità.
L’intento è di passare, innanzitutto, dall’essere struttura (in quanto
fraternità) all’essere stile di vita, vale a dire modello di relazioni e
modello di sviluppo; connotata da semplicità, solidarietà, preghiera, lavoro.
Fraternità
significa una vita che si fa compagnia, che si mette in rapporto con gli altri
non più a senso unico, in cui l’annuncio della buona notizia passa attraverso
la condivisione di un progetto di vita
evangelico.
Rino Cozza csj
1
Sartorio U., Dire la Vita Consacrata oggi – Ancora 2001 – pag 41.
2
in Vita Consacrata 6/2000.
3
A. Castegnaro.
4
A. Castegnaro, Testimoni di nuova cultura
EMP pag 60.