IMPRESSIONI
SULLA REDEMPTIONIS SACRAMENTUM
BISOGNA
EVITARE CONCLUSIONI AFFRETTATE
Un documento di
carattere giuridico-disciplinare da leggere rispettandone la natura e le
finalità proprie. Insiste molto sul “diritto” da parte dei fedeli a una
celebrazione dell’eucaristia autentica.Ma occorre evitare ogni lettura parziale
e miopeche porti a dichiarare finita ogni possibilità di creatività e di adattamento.
La
Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti in data 25
marzo 2004 ha emanato l’istruzione Redemptionis sacramentum (RS) nella quale,
come afferma il documento stesso (cf. nn. 2.185), vengono ribadite alcune norme
circa la celebrazione dell’eucaristia già presenti in altri documenti del
magistero, nel Codex Iuris Canonici e in particolare nei Praenotanda dei libri
liturgici usciti dalla riforma voluta dal concilio Vaticano II. Non c’è quindi
pressoché nulla di nuovo in questo documento, se non il fermo richiamo al
rispetto di norme liturgiche e disciplinari già in vigore nella chiesa
cattolica di rito romano (cf. n. 2).
Un
primo elemento da tener presente nella lettura di questo documento è il suo
valore magisteriale. Infatti si tratta di una istruzione e ha come
preoccupazione principale quella di trattare «alcune questioni concernenti la
disciplina del sacramento dell’eucaristia» (n. 2). Basta scorrere i riferimenti
delle citazioni riportate nel testo per rendersene conto. Non è corretto
pertanto considerare questo documento come fonte per la comprensione
dell’eucaristia da un punto di vista teologico, liturgico e spirituale. Fare
questa operazione, come purtroppo frequentemente capita in questi casi,
significherebbe tradire la natura stessa del documento e le intenzioni
dell’autorità magisteriale che l’ha emanato. Questo è un dato ancora più
evidente se consideriamo che l’istruzione è uscita esplicitamente in seguito ad
un altro documento del magistero, l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de
Eucharistia del 17 aprile 2003 (cf. n. 2). L’istruzione inoltre non ha nemmeno
l’intenzione di offrire «l’insieme delle norme relative alla santissima
eucaristia, quanto piuttosto di riprendere (…) alcuni elementi, che risultano tuttora
validi nella normativa già esposta e stabilita, per rafforzare il senso
profondo delle norme liturgiche» (n. 2).
AFFINCHÉ
IL “MINIMO”
SIA
SALVAGUARDATO
Un
documento di carattere giuridico-disciplinare deve essere letto rispettandone
la natura e le finalità proprie. Un tale documento infatti mira generalmente (e
non solo in ambito liturgico) a fare in modo che “il minimo” venga
salvaguardato, che non si vada cioè sotto la soglia di accettabilità di un
comportamento o del modo di eseguire una determinata azione.
Un’altra
preoccupazione di un documento giuridico-disciplinare può essere quella di
intervenire a regolamentare alcuni “casi limite” nei quali è necessario
stabilire delle regole per evitare che i diritti di qualcuno vengano
calpestati. Tuttavia il “minimo” e il “caso limite” non sono la normalità della
vita. Non si può impostare la vita a partire da indicazioni che dovrebbero
riguardare principalmente alcune situazioni concrete di difficoltà, non si può
vivere l’eucaristia vedendo il rischio di abusi dietro ogni angolo.
La
vita concreta di una comunità che si riunisce per celebrare l’eucaristia deve
invece puntare più in alto, non può fermarsi al minimo che possa garantire la
validità di una celebrazione. L’eucaristia per una comunità che la celebra è
ben più delle «cose che si devono osservare ed evitare», è invece – come
afferma il concilio a proposito della liturgia in genere – «il culmine verso
cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana
tutta la sua energia» (SC 10). Questo di per sé non è un limite del documento,
sarebbe invece il rischio di una interpretazione superficiale ed errata di
esso.
UNA
CELEBRAZIONE
CHE
SIA AUTENTICA
A
partire da questa premessa fondamentale per una giusta comprensione e recezione
dell’istruzione, cerchiamo ora brevemente di riprendere solamente alcuni temi
di fondo che in essa emergono, senza tuttavia entrare nelle singole
indicazioni. Tante altre infatti potrebbero essere le questioni particolari che
meriterebbero di essere affrontate in modo più approfondito: la partecipazione
attiva (nn. 36-47), il soggetto della celebrazione (n. 42),
l’adattamento-inculturazione, la teologia del ministero ordinato, il rapporto
eucaristia-penitenza (n. 76.86)…
Innanzitutto
RS insiste molto sul “diritto” da parte dei fedeli a una celebrazione
dell’eucaristia autentica e conforme alle indicazioni del magistero della
Chiesa (nn. 11.12.18.24.57. 58.139.162.163.184). Di conseguenza invita anche i
ministri, in particolar modo vescovi e presbiteri, ad avere grande rispetto di
questo diritto, a non considerare la celebrazione eucaristica come una realtà
della quale essi possono disporre liberamente, indipendentemente dal servizio
che sono chiamati a compiere in favore di tutti i fedeli (cf. nn. 18.186). Uscendo
dalle ristrette indicazioni di un documento di carattere
giuridico-disciplinare, questa indicazione può essere molto preziosa perché
venga recuperato un giusto rapporto tra il ministro ordinato che presiede la
celebrazione e la “gestione” della celebrazione stessa.
Sempre
in riferimento al diritto a una celebrazione autentica e in linea con le
indicazioni del magistero della Chiesa ci sono due altri temi che ritornano
frequentemente. Si tratta da una parte della necessità di non lasciarsi andare
a una sfrenata rincorsa al cambiamento per il cambiamento, che a volte può
portare allo snaturamento della celebrazione eucaristica, dall’altra
dell’esigenza di non soffocare per la paura di eccessi ogni forma di
creatività, comprese quelle possibilità di scelta e di adattamento previste dai
libri liturgici stessi.
Inutile
dire che tra questi due elementi c’è tensione e che l’istruzione RS è
naturalmente sbilanciata – proprio per la sua natura di cui abbiamo parlato –
verso il primo aspetto. Tuttavia non è assente un significativo richiamo alla
necessità di non appiattire tutto a livello di una meccanica esecuzione delle
rubriche e anche questo viene definito come “un diritto” dei fedeli. Infatti
nella parte dedicata ai vescovi (nn. 19-25) si afferma: «il vescovo vigili
sempre che non venga meno quella libertà, che è prevista dalle norme dei libri
liturgici, di adattare, in modo intelligente, la celebrazione sia all’edificio
sacro sia al gruppo dei fedeli sia alle circostanze pastorali, cosicché
l’intero rito sacro sia effettivamente rispondente alla sensibilità delle
persone» (n. 21). In altri passi si parla dell’attenzione da avere nei
confronti della concreta assemblea riunita per la celebrazione (n. 39). Questo
non è compito solamente del ministro ordinato che presiede la celebrazione, ma
anche degli altri ministri (cf. n. 59).
IL
RISCHIO
DI
UNA LETTURA PARZIALE
Se
ci si lascia fuorviare dalla presenza nel documento di un gran numero di
divieti e di richiami al rispetto delle normative liturgiche, si potrebbe correre
il rischio di darne una lettura parziale tutta sbilanciata verso una “cieca
obbedienza” alle norme (cf. n. 5) che non è, come affermarono i vescovi
italiani nella nota Il rinnovamento liturgico in Italia (1983), automaticamente
garanzia di essere in linea con la più autentica tradizione della Chiesa.
Scrivono
infatti i vescovi italiani: «non sempre l’osservanza letterale e scrupolosa
della norme, che eludesse la possibilità di scelta e di adattamento che essa
offre, è segno di fedeltà meritoria, ma piuttosto frutto di pigrizia» (n. 16).
Nello stesso documento troviamo un’altra affermazione molto suggestiva circa la
“vera” creatività liturgica: «chi sa leggere tra le righe del libro liturgico e
tra le pieghe del cuore umano sa che non ha bisogno di stravolgere i riti per
risultare creativo» (n.16).
Il
ritorno a una fissità generalizzata non dovrebbe essere nelle preoccupazioni
dell’istruzione RS dal momento che esso, in quanto documento disciplinare,
tende unicamente a correggere ed eventualmente a prevenire abusi che possano
condurre ad avventurose soluzioni rituali incapaci di garantire alla Chiesa una
celebrazione autentica, «spezzando i legami che i sacramenti hanno con Cristo
stesso, che li ha istituiti, e con gli eventi su cui la Chiesa è fondata» (n.
10).
Una
lettura parziale e miope che portasse a dichiarare finita ogni possibilità di
creatività e di adattamento (soprattutto nelle sedi appropriate, quali le
conferenze episcopali nazionali) non solo non sarebbe in linea con la
Tradizione più autentica della Chiesa che ha prodotto lungo i secoli quel
tesoro inestimabile di testi liturgici e di riti di cui oggi noi possiamo
beneficiare, ma nemmeno con le indicazioni del magistero in materia di
inculturazione, come ad esempio emerge nell’enciclica di Giovanni Paolo II
Redemptoris missio (cf. nn. 52-54).
Il
nostro modo di inserirci in questa Tradizione non può essere quello di semplici
“conservatori”, ma quello di “veri custodi” che sanno mantenerne vivo il
processo. Solo così potremo consegnare alle future generazioni di credenti non
un insieme di “cimeli” del passato privi di vita, ma una esperienza viva e
vitale di celebrazione del mistero di Cristo.
Su
un altro tema è necessario richiamare la nostra attenzione per non cadere in
superficiali prese di posizione che non possono essere accolte dopo il cammino
che la Chiesa ha fatto con il concilio Vaticano II e con la riforma liturgica
che ne è seguita. Tale argomento è il richiamo alla necessità di mantenere
nella sua integrità il “rito romano” (cf. n. 11) come principio su cui fondare
le indicazioni che si intendono dare circa la celebrazione dell’eucaristia. RS
afferma che comportandosi nei confronti dell’eucaristia “con arbitrio
personale” si «lede la sostanziale unità del rito romano, che va tenacemente
salvaguardata» (n. 11). Poco più avanti (cf. n. 11.12) troviamo un altro
argomento, non più incentrato sulla necessità di salvaguardare «la sostanziale
unità del rito romano», ma sulla natura dell’eucaristia di “sacramento di
unità” (cf. n.12), che «in modo eminente e per sua natura, mira a significare e
realizzare mirabilmente la comunione della vita divina e l’unità del popolo di
Dio» (n. 11). La celebrazione dell’eucaristia deve compiersi, dice la nostra
istruzione, «in modo tale che appaia come vero sacramento di unità, escludendo
completamente ogni genere di difetti e gesti che possano generare divisioni e
fazioni nella Chiesa» (n. 12).
Riguardo
a questo tema, che viene sottolineato in questi numeri che appartengono al
proemio del documento e quindi ne esprimono i principi di fondo, occorre fare
alcune precisazioni. Innanzitutto l’eucaristia è “sacramento di unità” non
perché la si celebri secondo un identico rito ovunque, ma perché tutti
condividiamo l’unico pane spezzato e l’unico calice. Questo è quanto possiamo
ritrovare chiaramente già in Paolo: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor
10,17; cf. Didaché 9,4). Anche Agostino, proprio quando parla dell’eucaristia
come “sacramento di unità”, afferma: «Un unico pane e noi, pur essendo molti,
siamo un unico corpo. Ecco tutto… quanti pani siano oggi posti sugli altari di
Cristo in tutto il mondo, si tratta di un unico pane. Per la grazia con la
quale siete stati redenti, voi siete quanto ricevete; quando rispondete: Amen,
lo sottoscrivete. Quel che vedete è sacramento di unità» (Serm 299/A, 1).
La
cosa appare ancor più evidente se pensiamo che la Chiesa non ha mai considerato
l’uniformità dei riti – anche se la tentazione a volte c’è stata – come segno
di unità e di comunione, ma considera una ricchezza la varietà dei riti
d’oriente e d’occidente (cf. SC 4). Occorre quindi fare attenzione – proprio
per l’indole dell’istruzione di cui abbiamo parlato – nel giungere ad affrettate
conclusioni.
DUE
POSSIBILI
OBIEZIONI
Sempre
su quest’ultimo punto si può sollevare un altro problema.
In
RS si parla della necessità di evitare ogni possibile lesione dell’integrità
del rito romano affinché non si generino “divisioni” o “fazioni” all’interno
della Chiesa (cf. n. 12). Se si volesse realmente affermare questo principio,
due potrebbero essere le obiezioni da sollevare.
In
primo luogo dopo la riforma del concilio Vaticano II non è più possibile
parlare del rito romano come si faceva prima. Infatti sono sorti i messali
nelle varie lingue nazionali che non sono semplici traduzioni, ma veri e propri
adattamenti alla cultura e alla sensibilità di una determinata regione, pur
partendo da un punto di riferimento comune, cioè dall’editio typica.
La
seconda obiezione potrebbe venire dalla possibilità concessa ad alcuni gruppi
(cf. l’indulto del 1984 e del 1988) di utilizzare il rito romano della messa
come si trova nel Messale di Pio V. Ora non è forse questa la più grave e reale
“lesione” dell’unità del rito romano dal momento che si permette a gruppi
particolari di utilizzare un libro liturgico non più in uso? È forse normale e
in linea con la tradizione della Chiesa la convivenza di due diversi stadi di
evoluzione di un medesimo rito? Non è forse questo un vero fattore di lesione
all’unità del rito romano che può creare “divisioni” e “fazioni”? Forse questo
ultimo documento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei
sacramenti dovrebbe far riflettere la comunità ecclesiale anche su questo
concreto problema.
Concludendo
queste brevi riflessioni sull’istruzione RS, possiamo provare a guardare al
futuro, ai frutti che un tale documento potrebbe suscitare nella vita della
Chiesa.
Proprio
a partire dalla sua natura giuridico-disciplinare e alla sua principale
preoccupazione di far cessare abusi che possano portare a uno snaturamento
della celebrazione dell’eucaristia, possiamo affermare che si tratta di un
documento che non può rimanere isolato. Perché il documento venga accolto e
recepito, e perché vengano meno le cause che hanno prodotto gli abusi che esso
intende colpire (infatti dietro ad “abusi” possono anche nascondersi reali
esigenze), occorre che nel futuro si percepisca nella comunità ecclesiale un
senso di apertura, di fiducia e di attenzione alle esigenze di una autentica
Tradizione. Concretamente questo potrebbe voler dire riscoprire il ruolo delle
conferenze episcopali nazionali e di altre istituzioni che, con competenza e in
accordo con la sede apostolica, possano mantenere vivo quello spirito della
liturgia che il movimento liturgico ha riportato in luce e che il concilio
Vaticano II ha raccolto e valorizzato.
Matteo Ferrari, osb-cam
Eremo San Giorgio (VR)