RILETTURA DEL MESSAGGIO EVANGELICO
BEATITUDINI OGGI
In
un mondo lacerato da guerre e discordie la Chiesa e la vita consacrata sono
chiamate a testimoniare lo spirito delle beatitudini. Ma prima bisogna contemplare,
ascoltare, lasciarsi trasformare, se vogliamo scendere nel difficile quotidiano
e affrontare la nostra missione con atteggiamenti rinnovati.
Oggi lo Spirito ci prende per mano e ci conduce sul
monte della Trasfigurazione, per contemplare Gesù di Nazareth, l’uomo nuovo,
immagine sfolgorante del Dio invisibile, il più bello tra i figli dell’uomo,
l’uomo beato, l’uomo che ha proclamato e vissuto le beatitudini.
Il cammino delle beatitudini è il cammino della
filocalia, dell’amore alla divina bellezza, della trasformazione che la divina
bellezza opera, della trasfigurazione del nostro essere a somiglianza
dell’essere di Cristo, cuore e stupore del creato.
Le beatitudini ricreano e ricostruiscono l’uomo, lo
trasfigurano, lo introducono nel mondo divino, o, come dicono i nostri fratelli
orientali, lo divinizzano.
Lo Spirito c’invita ad ascoltare una volta ancora
le grandi parole delle beatitudini con lo sguardo rivolto al volto trasfigurato
e luminoso di Cristo: ascoltare le sue parole e contemplare il risultato di
queste parole per diventare creature nuove e per rinnovare il piccolo e il
grande mondo che ci circonda. Contemplare, ascoltare, lasciarsi trasformare,
per scendere poi nel difficile quotidiano ad affrontare la nostra missione, con
atteggiamenti rinnovati.
Lo Spirito ci dice che se è assolutamente
necessario salire sul monte, è necessario anche discendere per immergerci nella
realtà opaca per trasfigurarla, per attraversare le oscure situazioni del
nostro tempo con la luce delle beatitudini che ricreano continuamente “la
faccia della terra”.
Lo Spirito dunque, dopo averci portati a
contemplare il Cristo beato nella gloria ci sospinge a scendere nei meandri del
nostro tempo per portare la gioia delle beatitudini dentro le sue amarezze, per
trovare le nuove piste che Egli ci sta tracciando, per comprendere quello che
egli ci vuol dire nella confusa situazione del momento presente.
Inoltriamoci in alcune esemplificazioni, guardando
la situazione concreta della vita consacrata, soprattutto quella dell’Occidente.
Beati i poveri in spirito
La VC sta attraversando, qui in Occidente, un
periodo di povertà crescente, una povertà di personale e di nuove leve, di
difficoltà a far fronte alle nuove esigenze, una povertà d’adeguamento di
strutture, di leadership, d’immagine e di prestigio.
Il fatto che fa sentire più acuta questa povertà è
la sensazione di non avere risposte a molte delle difficoltà. Un certo senso
d’impotenza afferra di quando in
quando il cuore di chi deve prendere delle
decisioni, di fronte a situazioni sempre più complesse e spesso inafferrabili.
È una povertà non solo personale, ma anche
collettiva, che fa guardare con incertezza al domani, che fa della VC una
realtà che «non ha né bellezza né splendore», «davanti alla quale ci si copre
il volto», quasi appartenesse a un’epoca ormai passata, arcaica.
È una povertà che talvolta la umilia: dai fasti dei
decenni appena lasciati alle spalle, si è passati alle difficoltà attuali, che
comportano inquietanti domande circa l’immediato futuro.
Persino là dove, in un passato non lontano, la vita
consacrata ha dato le migliori prove di sé, nel servizio agli ultimi, oggi è in
difficoltà. Da operatrice di generoso servizio ai poveri, la vita consacrata
spesso si sta facendo povera e bisognosa di servizio, trovandosi nelle
condizioni di chiedere aiuto agli altri.
Appartiene alla povertà evangelica accettare questa
forma di povertà: il passare dall’essere benefattori ad aver bisogno d’aiuto,
il dover chiedere aiuto per sé e non solo per gli altri, esige molta umiltà,
molta povertà di spirito. È una nuova stagione, nella quale si è chiamati a
passare dalla gioia di dare alla gioia di ricevere.
Questa situazione ci può aiutare a ritornare più
realisticamente vicini a Cristo, al Cristo delle beatitudini, al Cristo
storico, così come è apparso in mezzo a noi, umile e umiliato, povero e
marginale, senza potere e vittima del potere.
Lo sguardo rivolto al mistero di Cristo ci fa
comprendere che è attraverso il suo amore senza potere che Dio ha voluto
salvare il mondo.
Gesù era un profeta senza prestigio presso le
classi alte, senza appoggi politici: ma è attraverso questa povertà che egli ha
potuto annunciare l’amore gratuito di Dio, e portare così al mondo la ricchezza
di Dio.
Queste sono state le vie di Dio, manifestate nel
mistero di Cristo.
È con la sua povertà che egli ci ha arricchito,
afferma san Paolo.
E se il Signore volesse oggi spingerci a una
contemplazione più profonda del mistero di Cristo, per meglio assimilarci a lui
e meglio servire il nostro tempo? E se il Signore volesse che noi curassimo
soprattutto la qualità evangelica della nostra vita? E se intendesse dirci che
il sale non può diventare insipido, né il nostro segno essere opaco? E se
fossimo chiamati ad arricchire il mondo attraverso la povertà dell’umiltà e
dell’umiliazione, che deriva dal nostro arretramento su molti fronti? E se
fosse giunto il momento di guardare con più attenzione alla forma di vita di
Cristo, all’essere di Cristo prima che al suo dire e al suo fare? E se fossimo
invitati a guardare e contemplare il mistero della nostra consacrazione come
conformazione al Cristo che confessa davanti al mondo che solo Dio è la
ricchezza, l’amore e la realizzazione dell’uomo? E ciò grazie ad una vita
serena, pur in mezzo alle povertà presenti? E se fossimo sospinti a ripensare
in senso nuovo la constatazione di Pietro: «Ecco abbiamo
lasciato tutto e ti abbiamo seguito»: «ecco ci stai
spogliando di tutto, ma siamo sempre pronti a seguirti, come e dove tu vuoi?»
La situazione presente, infangata in alcuni luoghi
da pesanti scandali creati attorno a consacrati, ci sta spogliando non soltanto
di un riconosciuto prestigio, ma anche d’alcune nostre pretese di grandezza
spirituale, rendendoci piccoli davanti agli uomini.
«Piccoli, non importanti, non dei superuomini:
senza privilegio, senza diritto, senza possesso, senza superiorità. Piccoli e
dolci perché anche noi siamo vittime del male e da esso contaminati: abbiamo
tutti la vocazione di perdonati, non di innocenti». Che fare se non tacere e
pregare ? Pregare per non entrare in tentazione, per crescere nell’abbandono in
Dio.
Ma – può aggiungere qualche istituto
particolarmente provato – non è in pericolo la nostra stessa sopravvivenza?
Certamente. E ciò diventa ancor più doloroso, anzi drammatico. D’altra parte,
non possono valere anche per la vita delle nostre care e sudate istituzioni le
parole del Signore: «Chi non odia la sua propria vita non può essere mio
discepolo?».
Una possibile declinazione della beatitudine della
povertà, per l’oggi. Nel mondo occidentale, la beatitudine della povertà della
vita consacrata, potrebbe essere declinata in alcune di queste forme
esemplificative:
Beati voi se non vi lasciate scoraggiare dalla
situazione del momento presente, ma date anzi un esempio di serenità a chi vi
avvicina.
Beati voi se non vi amareggiate, né amareggiate gli
altri, quando dovete chiudere alcune vostre opere o siete costretti a passarle
in mano ad altri.
Beati voi se manifestate al popolo di Dio che «non
abbiamo quaggiù una permanente abitazione», ma «aspiriamo alla futura» e che
quindi considerate anche le vostre realizzazioni delle realtà utili, ma
provvisorie e precarie, destinate a durare fino a quando il Signore vorrà.
Beati voi se non siete aggressivi verso questo
mondo che vi comprende poco, ma nel quale siete chiamati a vivere: piuttosto
pregate incessantemente per i figli di Dio, distratti e spesso distrutti.
Beati voi se manifestate la vostra incrollabile
fiducia nel Signore della storia con la vostra gioia, che scaturisce dalla coscienza
di partecipare al mistero pasquale di morte e di risurrezione.
Beati voi quando sapete condividere i vostri
carismi con gli altri, in uno scambio arricchente di doni, guardando al bene
del popolo di Dio come supremo criterio di azione.
Beati voi quando, nelle sconfitte storiche del
momento presente, riuscite a dire: «Grazie Signore, perché abbiamo Te come
nostra ricchezza e nostro appoggio. E tu sei il nostro vero rifugio e
conforto».
E nelle circostanze più tradizionali, delle varie
parti del mondo:
Beati voi quando non vi lasciate incantare dal
luccichio del mondo ricco e soddisfatto, ma avete occhi e mani per vedere e
soccorrere i poveri, specie i nuovi poveri, a cui nessuno o pochi badano.
Beati voi quando non ponete la vostra fiducia nel
denaro o nelle realizzazioni costose per fare avanzare il Regno di Dio, ma
coltivate lo spirito di povertà usando il denaro secondo le priorità
evangeliche.
Beati voi quando gestite opere efficienti e
ammirate di servizio ai poveri, e non vi sentite per questo dei benefattori.
Beati voi quando avete occhi per vedere la povertà
dell’uomo sazio, la sua aridità, la sua insoddisfazione, e non siete tranquilli
fino a quando non trovate qualche via di accesso al suo cuore.
Beati voi quando vi preoccupate di scuotere l’indifferenza
della massa cristiana, carente dell’amore di Dio, povera dei beni promessi da
Cristo, chiusa nei suoi orizzonti terrestri.
Beati voi quando vi sentirete impotenti di fronte
alle sfide di un mondo sicuro di sé, ma per questo non lasciate cadere le
braccia, moltiplicando anzi la preghiera perché il Signore abbia pietà del suo
popolo e mandi nuovi profeti e nuovi apostoli.
Beati gli afflitti
La più acuta afflizione del cristiano è il vedere
che Dio non è amato.
Colui che ha riflettuto anche per poco su quanto
Dio ami e desideri essere riamato, colui che ha fatto, anche una sola volta,
l’esperienza di questo amore, non può non fare proprio il programma degli
uomini e delle donne di Dio: amarti e farti amare.
Il vero cruccio della persona consacrata è il
costatare che colui al quale ha dato il proprio cuore e la propria vita, sembra
essere preso poco sul serio. Non pochi dei nostri contemporanei danno la chiara
impressione di vivere senza pensare a lui e spesso e volentieri senza di lui.
Il sentimento di essere di fronte ad un’apostasia silenziosa da colui che è
venuto per portare la buona novella, da colui che è la gioia nel mondo, non può
che riempire d’afflizione.
C’è anche la sofferenza delle poche vocazioni, per
le quali si prega, ma senza un riscontro confortante. A volte sentiamo tutto il
peso della logorante nostra infecondità. C’è il pericolo di cadere nella
tristezza e nella sfiducia del rassegnato «ormai c’è poco da fare».
Se andiamo a Nazareth, dove sono state coltivate le
beatitudini, incontriamo la santa Famiglia che ci suggerisce che questa può
diventare una “felice afflizione”. Il rammarico espresso nelle sofferte parole
di Maria, per lo smarrimento di Gesù: «Tuo padre e io, angosciati, ti
cercavamo», esprime soprattutto l’afflizione di aver perduto Gesù,
un’afflizione che conduce alla sua ricerca.
E quindi si tratta di una beata afflizione, perché
dice l’amore che abbiamo per Gesù, dice l’orientamento positivo del nostro
cuore, dice un’afflizione destinata alla consolazione che viene da Dio. È la
beata afflizione che ci fa partecipare alle doglie del parto di quel Regno che
è tutto di Dio e che solo lui conosce. Ma che sappiamo essere il suo Regno,
misterioso ma luminoso, il Regno della luce senza ombre. È la beata afflizione
che dice che siamo coinvolti con tutto il nostro essere, razionale ed emotivo
nella causa del Regno, e che quindi tutto il nostro essere sarà accolto nel
Regno.
Ma c’è anche il monito evangelico: “non vi
affannate”: «Non vi affannate», dirà continuamente Gesù. Affliggetevi per il
male, perché questa afflizione è cosa buona, ma non vi affannate nel cercare
rimedi ad ogni costo. Non lasciatevi vincere dallo sconforto quando non ci
riuscite. Non affliggetevi al punto di perdere la speranza. Il mistero
dell’iniquità è al servizio del mistero della salvezza.
Lavorate sodo, impegnatevi e poi, con serenità,
«presentate a Dio il vostro affanno ed egli vi esaudirà» quando e come meglio
crederà. Gesù è il Signore anche di questo momento storico. Voi preoccupatevi
di farlo crescere,come Maria e Giuseppe, e poi lasciate spazio e tempo a lui
che ha creato il cosmo e il cuore degli uomini ed è il Signore dei secoli. A
voi il compito di farlo crescere in voi, nelle vostre comunità, nella vostra
dedizione alla sua crescita nel mondo. Quando sarà giunta la sua ora, egli
agirà per fare quello che non potete fare voi.
Non fate i piagnoni: nel libro degli Atti degli
apostoli (14,22; 5,41-42; 9,16) mentre si dice e si ripete che «è necessario
passare per molte tribolazioni, per entrare nel Regno dei cieli», si dice
ancora più spesso: «erano pieni di gioia e di Spirito Santo». Il che vuol dire:
non lasciatevi vincere dalla tristezza e dall’amarezza.
«A voi è stata concessa la grazia non solo di
credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui»(Fil 1,29). A voi è stato dato
lo Spirito che infonde, assieme alla forza, anche pace, gioia, serenità.
Nel suo secondo discorso nel libro degli Atti,
Pietro, dopo la guarigione o ricostruzione del paralitico, parla della seconda
venuta del Signore come dei tempi della consolazione e i tempi della
restaurazione di tutte le cose, tempi in cui si riverserà la benedizione
messianica su tutte le famiglie della terra (At 3,20-25). Pietro presenta Gesù
come il restauratore della persona menomata e quindi come il consolatore:
attraverso le opere di risanamento, di sollievo, di attenzione.
Anche noi siamo chiamati a testimoniare la sua
capacità di consolazione, non solo per il tempo presente, ma per la
consolazione e la restaurazione definitiva. Lo faremo nella misura in cui ci
dedichiamo alla ricostruzione fisica e spirituale delle persone.
Ma anche quando siamo disposti a lasciarci
consolare e restaurare da Lui, senza troppe ricerche di consolazioni
alternative. Colui che cerca la consolazione in Cristo consolatore, sarà in
grado di “consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione” (2
Cor 1,4)
Beati i miti, perché erediteranno la terra
Gesù è l’Agnello di Dio che dice : «Imparate da me
che sono mite e umile di cuore». E vuole che i suoi discepoli siano agnelli e
miti. «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3).
Beati i miti, perché possederanno la terra, cioè il
cuore dei fratelli. La mitezza è la carta di identità dell’apostolo che vuol
conquistare i cuori all’amore di Dio.
La potenza del vangelo si manifesta nella mitezza
di chi lo vuole annunciare. Si tratta di testimoniare che noi crediamo a quello
che il Signore ha promesso : dare il suo aiuto agli agnelli, non ai lupi. E che
la terra, promessa ai miti, cioè la terra del cuore degli uomini, sarà data a
chi pazientemente semina fraternità e non a chi vuole emergere o dominare, o
far valere le proprie idee, con aggressività, dentro e fuori la propria
comunità, dentro e fuori la propria famiglia religiosa, dentro e fuori la
Chiesa.
Il cristiano ha solo la potenza disarmata
dell’amore, nel quale crede e confida. Egli sa che la violenza può conquistare
terre, ma non i cuori. Sa che con l’abbondanza dei soldi e la potenza dei mezzi
si possono fare cose degne d’ammirazione, ma non sempre si è capaci di toccare
i cuori.
Le difficoltà del momento presente non potrebbero
diventare un’occasione per guardare assai più dentro noi stessi invece che
fuori di noi, per dare assai più importanza alla costruzione dell’uomo
interiore modellato sulla dolcezza di Cristo che alle pur necessarie opere
esteriori?
E se l’attuale debolezza esterna della VC fosse una
provocazione per una crescita dell’uomo interiore in quella forza tranquilla
che è la mansuetudine, forza a cui il Signore ha garantito la conquista della
terra o dei cuori?
La mitezza è anche l’atteggiamento più costruttivo
di una fraternità. La mitezza è fortezza nei confronti delle proprie
aggressività, è rispetto delle particolari condizioni dell’altro, è permettere
che l’altro sia quello che è e non quello che vorremmo che fosse.
La comunità, dove la mitezza è tenuta in onore,
prepara apostoli per la società pluralistica: persone che sanno rispettare le
idee altrui, anche se non rinunciano a proporre educatamente e con fermezza le
proprie convinzioni. Onorare la mitezza significa avere fiducia nella forza
dell’amore in una società dove ben altre fiducie dominano. Significa credere
che la pazienza costruisce più che la violenza. Significa credere che i cuori
si conquistano più con l’attenzione e il servizio che con lo sfoggio di sapere
o di potere. Le grandi parole dell’amore hanno valore quando si traducono nei
piccoli gesti quotidiani ispirati alla bontà umile, paziente, servizievole,
dolce, comprensiva.
Una comunità irraggiante la mitezza diventa una
comunità missionaria, perché rende tangibile la forza umanizzante del vangelo.
Coltivare la fraternità non solo rafforza i nostri cuori, ma sorregge i nostri
fratelli e sorelle che, nel loro impegno di difficile testimonianza nel mondo,
possono talvolta essere tentati di reagire duramente alle provocazioni del
mondo, promovendo una religione di contrapposizione, di muro a muro, di
intransigenza, di “scontro di civiltà”, di intolleranza, mettendo tra parentesi
la mitezza evangelica. Aiutiamoli a non deturpare il volto del Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Una fresca indicazione, che viene da uno dei più
dolci padri cistercensi: «Per trovare riposo nelle delizie della carità
fraterna, il discepolo deve fissare lo sguardo sulla serena pazienza del suo
diletto Signore e Salvatore» (Elerdo)
Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia
Per avvertire la gioia che viene dal fare la
volontà di Dio, una persona consacrata dovrebbe ricordare alcune condizioni.
1. Accettare di essere realmente in cammino per
imparare a dare tutto e non solo qualche cosa di sé. La gioia può venire solo
da un amore totale. È vero che nessuno in questa vita è capace di amore totale,
ma tutti possiamo (e dobbiamo) tendere proprio a questo, perché per questo è
nata la vita consacrata ed essa non ha alcun senso se non tende a questo
ideale, ogni giorno, in tutte le età.
2. Leggere la propria vita “prima di tutto” (anche
se non esclusivamente) in termini teologici e spirituali e non prammatici e
operativi: altrimenti siamo al massimo delle “brave persone”, ma non delle
persone “consacrate”. Questo significa mettere “le cose di Dio” al primo posto,
non solo nella scala dei valori, ma nell’orario della giornata: il primo posto
per la parola di Dio e per la preghiera, perché la vita sia condotta sotto lo
sguardo di Dio e sia attenta alle sue ispirazioni.
3.Avere fame e sete di giustizia significa avere la
passione per il Regno, per la missione, per l’evangelizzazione. Ora sembra che
il momento attuale abbia bisogno di uno scossone, per rilanciare questa
passione, dal momento che lo slancio per l’annuncio del vangelo ai vecchi e ai
nuovi pagani pare intiepidito, intimidito, demotivato.
L’annuncio del Vangelo è fatto in primo luogo dalla
potente testimonianza di vite che credono fermamente in Cristo Salvatore e
modello supremo, da ripresentare il più possibile nella propria esistenza,
nella consapevolezza che il «tendere ad essere come Cristo in tutto» è il primo
e più solido atto di evangelizzazione.
L’evangelizzazione è fatta in secondo luogo da
comunità che credono nella fraternità e tendono a realizzarla con tutte le
forze. Le nostre comunità non possono non tendere a diventare luoghi gioiosi,
dove si sta volentieri, dove ci si aiuta spiritualmente e umanamente, dove si è
convinti di “crescere insieme”, dove s’impara insieme a cercare e fare la
volontà di Dio, come saziare la fame e la sete di giustizia, come fare le
scelte che riguardano la propria vita e quelle che riguardano il servizio
apostolico. È in comunità fraterne che si alimenta la passione per il Regno,
passione che mette in atto il necessario processo di discernimento della
volontà di Dio, la ricerca cioè sincera e disinteressata di quello che il
Signore vuole che si faccia.
L’evangelizzazione è fatta infine di creatività,
che viene dal «guai a me se non evangelizzo», che sospinge e sorregge in ogni
circostanza, nel mettere la propria intelligenza e le proprie energie a
servizio del Vangelo.
In definitiva è dalla continua riscoperta di Cristo
come tesoro del mondo che viene il coraggio e la gioia di annunciarlo: se
Cristo è la mia gioia e la mia beatitudine, come non annunciarlo?
Beati i misericordiosi
Quanto più la persona si avvicina a Dio, tanto più
il suo cuore si riempie di misericordia. Con questo cuore essa può vedere la
natura umana, in una prospettiva simile a quella di Dio: una realtà degna di
compassione, perché fragile, suggestionabile, destinata alla morte, peccatrice,
da soccorrere e aiutare più con la misericordia che col giudizio.
La persona consacrata in missione, avvertendo la
sua personale fragilità, nonostante i doni ricevuti, le alte mete perseguite,
l’intenso lavorio interiore, l’abbondanza della parola di Dio meditata, come
non potrà guardare con misericordia i fratelli immersi in un mondo seduttore e
a volte ostile, alle prese con problemi che lo assorbano e lo turbano, spesso
incapaci o non in grado d’essere attratti o consolati dalle cose spirituali?
La persona consacrata si vedrà come un capolavoro
della misericordia di Dio, che gli dà il compito di avere uno sguardo di
misericordia per tutto e per tutti. Per tutti si spenderà senza pretese e con
comprensione, perché un lampo della bontà del Signore tocchi i loro cuori.
E se la durezza della situazione non gli
permettesse nessuno spazio di azione, allora si apre per il suo cuore la strada
per comprendere e partecipare in profondità alla preghiera misericordiosa del
Signore Gesù: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”,
preghiera pronunciata da Gesù in un momento di estrema impotenza.
Preghiera che preannuncia la salvezza anche per
coloro che sembrano respingerla con tutte le forze.
L’accoglienza di tutti, specie i feriti da questa
vita, le vittime della propria debolezza e fragilità, un’accoglienza cordiale,
che non giudica, che non è dura nei confronti di chi sbaglia, un’accoglienza
che sorregge e incoraggia, fin dal primo impatto con un volto sereno e
rasserenante: ecco una dimensione della misericordia di cui ha bisogno la
povera creatura umana e che la vita consacrata non può far mancare al mondo
d’oggi. «Mi basta che tu ci sia da qualche parte per non perdere il gusto della
vita» (Ivan Karamazov).
Amare il mondo come Dio l’ama: questo significa in
definitiva essere misericordiosi.
Amare il mondo non perché è amabile, ma perché Dio
gli ha donato il suo unico Figlio. E pregare sempre per tutti: i peccatori, i
poveri, gli afflitti, i non credenti, i nemici, affidandoli in primo luogo alla
misericordia di Dio. Nella consapevolezza che lui è morto per tutti.
Beati i puri di cuore
Beati quelli che non frappongono ostacoli tra loro
e Dio. Tra i molti ostacoli oggi sembra essere particolarmente insidioso quello
della sensualità, anche se non sembra di moda parlarne.
Forse si comprende meglio questa beatitudine se si
parla, sulla scia dei Padri del deserto, di cuore purificato: «Beati coloro che
si impegnano nella purificazione del cuore, perché comprenderanno le cose di
Dio». Il cuore dell’uomo non nasce puro: è un guazzabuglio, è un insieme di
nobili slanci e di desideri vergognosi. Il Siracide prega :«Signore che io non
serva desideri vergognosi, non abbandonarmi al loro volere» (cf. Sir 23, 4.5.6.
1).
Sant’Agostino conobbe il giogo dell’impero dei
sensi che tentava di rovinare ogni risveglio spirituale del suo cuore
d’africano ardente. Ancora lontano dalla fede, osservando con perplessità il
grande Ambrogio, non sapeva spiegarsi il suo celibato, «questa penosa e inutile
fatica». Una volta conquistato da Cristo, riflettendo sulla forma di vita del
Verbo fatto carne, volle far tacere le bellezze esterne con la contemplazione
della bellezza trascendente di Cristo, manifestazione della divina bellezza
nella carne umana. Agostino è un testimone di questa tensione interiore e delle
vie per uscire dalla tirannia del piacere: «Tardi ti ho amato, o Bellezza
antica e sempre nuova».
La purificazione del cuore, particolarmente
necessaria per le persone consacrate, che hanno riservato il loro cuore tutto
per Dio, è raggiungibile da chi è profondamente convinto del grande dono della
castità consacrata. Senza la stima per questo dono portato al mondo dal Signore
Gesù, è semplicemente inimmaginabile avvicinarsi soltanto al grande ideale di
un cuore che sappia “vedere”, gustare, preferire le cose di Dio.
La stima ben radicata per la castità consacrata,
come partecipazione alla forma di vita di Cristo, rende vigili, impegna in un
serio e impegnativo combattimento, introduce nel mondo rinnovato, inaugurato
dal Signore Gesù. In tal modo sarà possibile anche avere un occhio
particolarmente acuto per leggere l’azione di Dio nel cuore dei fratelli e
delle sorelle, perché l’occhio purificato va oltre le apparenze, l’età, il
genere, le condizioni sociali, le forme, la fama. L’occhio di chi ha un cuore
purificato va dritto al cuore e al cuore sa parlare perché «lo Spirito conosce
le cose dello Spirito». Lo Spirito che abita nei cuori purificati comprende
l’azione dello Spirito nel cuore dei fratelli.
La novità cristiana, la sua “alterità” nei
confronti di un mondo che oggi appare sempre più tranquillamente pagano, è
rappresentata, come alle origini, dalla fraternità e dalla serietà della vita.
Serietà di vita che trova nella verginità-castità un elemento di testimonianza
chiara ed eloquente della alterità del regno di Dio nei confronti delle cose di
questo mondo.
I grandi padri del IV secolo, da Atanasio a Basilio
ai due Gregorio di Nissa e di Nazianzio, da Ambrogio ad Agostino, sono stati
promotori e cantori della verginità, quale segno della perenne capacità di
seduzione di Cristo e «dell’infinita potenza dello Spirito Santo mirabilmente
operante nella sua Chiesa». Essi inoltre trovavano nella castità consacrata le
energie spirituali per la ricostruzione di una società in decadenza.
Sembra proprio che siano ritornati i tempi della
necessità, in un mondo di facili opinioni e di facilissimi costumi, di
riprendere le convinzioni ben radicate dei Padri, convincimenti che permettono
di perseverare nella testimonianza ferma e serena del primato dell’amore per
Cristo, espresso dall’assunzione della sua forma di vita, nella potenza dello
Spirito.
E ciò con la massima comprensione per le persone
concrete, fratelli e sorelle nostri, persone in carne e ossa, spesso fragili e
vulnerabili, non fatte certamente di ferro, che vivono sotto un continuo
bombardamento di pubblicità ed erotismo, sotto la costante pressione di una
cultura che esalta il sesso, che turba e stordisce, persone che faticano e
soffrono per restare fedeli.
Oggi, come sempre, la beatitudine dei cuori
purificati permette di far vedere Dio operante con il suo amore in fragili
persone umane. Le persone consacrate che si lasciano trasfigurare dall’amore di
Cristo, che, pur nella loro debolezza e nella loro combattuta fedeltà, non
cessano di credere nella grandezza della loro vocazione, possono far balenare
anche nel nostro mondo qualche raggio dell’eterna, intramontabile, seducente
Bellezza che inquieta e appaga l’insondabile cuore della creatura umana.
Bellezza che dà gioia, la gioia di Dio nel creare il mondo bello e buono, la
gioia del Figlio nell’annunciare l’amore del Padre ad ogni creatura, la gioia
dello Spirito che vuole far brillare in ogni cuore l’immagine divina, in tutto
il suo splendore beatificante.
Beati gli operatori di pace
Trovare la pace del cuore per diffonderla agli
altri è la realizzazione più sicura di questa beatitudine. Trovare la pace
nell’abbandono alla santa e amabile volontà di Dio, in questo momento in cui ci
si interroga su che cosa voglia dirci il Signore con le prove con le quali sta
visitando la vita consacrata è una delle testimonianze più limpide della nostra
appartenenza filiale e fiduciosa al Signore: in te Signore speriamo, non saremo
confusi in eterno.
Forse uno dei doni più preziosi che abbiamo da
offrire ai nostri fratelli e sorelle è la nostra fiducia illimitata nel Signore,
che si manifesta nel sereno abbandono alla sua santa volontà.
«Se in primo luogo, manterrai te stesso nella pace,
potrai dare pace agli altri. Colui che è turbato dalle passioni trasforma anche
il bene in male, pronto com’è a vedere il male dappertutto, mentre colui che
ama il bene e la pace trasforma ogni cosa in bene.
Le verità è che la vera pace, in questa nostra
misera vita, la dobbiamo far consistere nel saper sopportare con umiltà,
piuttosto che non avere contrarietà. Colui che saprà meglio sopportare,
conseguirà una pace più grande. Vittorioso su se stesso, questi è l’amico di
Cristo e l’erede del cielo» (Imitazione di Cristo, II,3).
Anche le comunità esperimentano questa beatitudine,
non però quando sono senza conflitti, ma quando sanno gestire i conflitti
fraternamente. La pace delle nostre comunità non è la pace dell’uniformità, ma
la pace che viene dall’accettazione, dal discernimento, dal perdono.
Il nemico di questa beatitudine non è la differenza
d’opinioni o di scelte che spesso ingenerano tensioni, ma dalla sclerocardia,
dalla durezza di cuore, nel rifiuto del confronto leale e sereno, nella
convinzione implicita che sono gli altri che devono cambiare, senza porsi
seriamente la domanda se non tocchi a me il cambiare.
Per essere operatori di pace occorre chiedersi in
primo luogo: che cosa posso fare per contribuire alla serenità dei miei
fratelli e delle mie sorelle?
Beati i perseguitati
L’unica beatitudine di Gesù che si ritrova identica
sia in Matteo che in Luca è questa: «Beati i perseguitati per causa della
giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
Essere perseguitati a causa della giustizia non
significa necessariamente essere molestati fisicamente. La persecuzione è anche
essere contraddetti perché si agisce in modo retto e conforme al Vangelo. È non
essere compresi, venire fraintesi, venire emarginati, essere considerati
ingenui per le affermazioni e lo stile di vita che si conduce, venire
ridicolizzati dai media, venire neutralizzati da una cultura che si considera
postcristiana.
È essere considerati superati, magari proprio dai
nostri familiari o amici, perché il Vangelo è importante per noi, perché Gesù è
il nostro unico Signore e Salvatore, perché non ci “aggiorniamo” secondo il
mondo, ma vogliamo restare aggiornati su Cristo, valido ieri oggi e sempre.
C’è anche la sofferenza vicaria, che santa Edith
Stein ci ricorda : «Sotto la croce ho intuito il destino del popolo di Dio e ho
pensato che chi capisce che tutto questo (cioè la persecuzione) è la croce di
Cristo, dovrebbe prenderla su di sé a nome di tutti». Prendere la croce a nome
di tutti, nel silenzio e nel nascondimento, vuol dire, per noi, vivere
l’avventura della beatitudini della persecuzione, a nome di tutti.
Fanno meditare le parole del patriarca ecumenico di
Costantinopoli: «La Chiesa deve appoggiare la sua forza nella sua debolezza
umana, nella follia della croce e la sua speranza nella risurrezione di Cristo.
Priva d’ogni potere mondano, perseguitata e quotidianamente messa a morte, fa
sorgere santi, che hanno la grazia di Dio in vasi s’argilla, che vivono dentro
la luce della trasfigurazione e vengono condotti da Dio al martirio e al
sacrificio, non all’instaurazione violenta nel mondo di un sedicente Stato di
Dio. I suoi santi non sono semplicemente operatori sociali o filantropi o
taumaturghi. Mettono in comunione la persona umana con la persona di Cristo,
conducono alla divinità increata l’uomo creato, provocano in lui non un
semplice miglioramento o perfezionamento morale, ma un cambiamento ontologico.
Perché la speranza della Chiesa non si trova in questo mondo» (30 giorni, 1,
2004).
Per concludere
«Spira il profumo di Cristo, scrive Sant’Ambrogio,
se qualcuno può dire con fiducia: “il mondo è stato crocifisso per me”. Il
mondo è crocefisso per chi non ama le ricchezze, per chi non ama gli onori
mondani, per chi non ama quel che è suo, ma quel che è di Cristo, per chi non
ama le cose visibili, ma le invisibili».
Le beatitudini non sono «un unguento di poco
valore, se per suo mezzo il nome di Cristo si spande per ogni dove».
«Noi siamo il buon profumo di Cristo», possono dire
coloro che sono impegnati, pur nella debolezza umana, in una tensione
conformativa al Cristo delle beatitudini.
Di fronte alle nostre difficoltà e perplessità, lo
stesso Ambrogio riafferma con forza che l’unica cosa importante è cercare
Cristo: «Lo cercheremo là dove lo ha cercato Giovanni e lo ha trovato. Egli lo
cercò nel principio, lo trovò che viveva presso il Vivente, il Figlio presso il
Padre.
Noi dobbiamo cercarlo fino alla fine dei tempi e
abbracciare i suoi piedi e adorarlo, perché dica anche a noi: non temete, vale
a dire: non temete i peccati del secolo, non temete le iniquità del mondo, non
temete i flutti delle passioni del corpo: Io sono la remissione dei peccati:
non temete le tenebre: io sono la luce. Non temete la morte: io sono la via.
Chiunque viene a me non vedrà la morte, è beato in eterno».
Se è nostro dovere aggiornarci continuamente per
rispondere alle sfide del nostro tempo, non possiamo dimenticare che la sfida principale
è, oggi come sempre, forse oggi più che mai, quella di aggiornarci su Cristo,
il Cristo delle beatitudini, al quale ci riporta
continuamente la nostra forma di vita, abbracciata per averlo incontrato e
averlo trovato “il più bello tra tutti gli uomini”.
Una bellezza misteriosa e impegnativa perché povera
e serva, casta e orante, obbediente e misericordiosa, ma al cui fascino il
Signore dell’universo ha legato la salvezza d’ogni uomo che viene in questo
mondo. Una bellezza che sarà fonte della perenne beatitudine, «senza dubbio al
di sopra di quanto possiamo concepire, perché il premio promesso oltrepassa
ogni preghiera, il dono è al di sopra della speranza, perché l’uomo da mortale
diviene immortale, da corruttibile incorruttibile, da effimero eterno, in una
parola, da uomo diventa Dio» (Gregorio di Nissa).
Le beatitudini non solo configurano al Cristo
terreno, ma preparano la nostra configurazione al Cristo glorioso. Beati voi,
perché vostro è il Regno dei cieli.
Pier Giordano
Cabra
1 La presente relazione è stata tenuta da p.
Pier Giordano Cabra alla riunione dell’Associazione membri curie generalizie,
il 17 aprile scorso.