LA VERGINITÀ PER IL REGNO (6)
LA LIETA NOTIZIA DELLA CASTITA’
La
castità è un atteggiamento di fondo, come un modo
d’essere e d’osservare la vita e rapportarsi con sé e gli altri che va oltre il
fatto puramente genitale-sessuale, ma che consente poi di coglierne la verità e
realizzarne gli scopi. Ed è virtù propria di tutti.
La scelta di vivere vergini suppone un rapporto
corretto con la sessualità e il proprio corpo, assieme alla capacità di
concentrare la propria energia affettiva in un unico amore (= purezza). Ma come giungere all’uno e all’altra?
È la castità che consente di fare questo importante percorso di vita, castità come virtù
morale che regola l’esercizio della sessualità secondo lo stato di vita della
persona, in funzione dei suoi valori e nel rispetto della natura della
sessualità stessa.
Se cuore puro è il cuore di chi ha un solo amore e
concentra tutta la sua energia affettiva in quell’unica
direzione (in linea con la sua propria identità), ha
un cuore casto chi ha imparato e sta imparando a orientare l’eros (=energia e
pulsioni affettivo-sessuale) verso il suo fine
specifico secondo le sue personali scelte di vita.
Di qui alcune conseguenze rilevanti.
IL “VANGELO”
DELLA CASTITÀ
Anzitutto la castità è una bella notizia; è tutta
da sfatare l’idea negativa e riduttiva di questa virtù, come fosse legata a un’idea ambigua di perfezione, fatta di rinunce che
nascono dalla svalutazione del corpo o dalla paura del sesso, e che finiscono
per render triste e impoverire il finto asceta. La castità è un atteggiamento di fondo, come un modo d’essere e d’osservare la vita e
rapportarsi con sé e gli altri che va oltre il fatto puramente
genitale-sessuale ma che consente poi di coglierne la verità e realizzarne gli
scopi.
Ed è virtù propria
di tutti, sia di chi esercita la sessualità nel matrimonio, sia di chi ha
deciso di non esercitarla. Comporta certo una rinuncia, ma ancor prima e
soprattutto «significa energia spirituale che sa difendere l’amore dai pericoli dell’egoismo e dall’aggressività e sa promuoverlo
verso la sua piena realizzazione…, virtù che promuove in pienezza la sessualità
della persona e la difende da ogni impoverimento e falsificazione»,1 o da tutto
ciò che la rende meno umana. La castità è «la sessualità messa al servizio
dell’amore» (L. Rossi).
Per questo è “buona notizia”, poiché indica la
maturazione di tutto l’essere dell’uomo a vivere l’amore e a
esprimerlo col corpo nella sincerità e verità. E sarebbe troppo poco dire che
la castità è un modo di regolare la vita sessuale, poiché essa educa invece il corpo
a esprimere realmente l’amore, educa i sentimenti alla
tenerezza e alla sensibilità, al gusto della bellezza e al fascino della
verità, fino alla libertà del dono di sé. Immagine della castità consacrata è
Francesco che bacia teneramente il lebbroso, non il triste osservante.
IL MISTERO
DEL CUORE CASTO
All’inizio delle nostre riflessioni sulla verginità
abbiamo detto che la sessualità è espressione e cifra del mistero umano, punto
centrale e incandescente ove convergono, ritrovando unità, opposte polarizzazioni (es. femminilità e mascolinità, identità e alterità, amor di sé e dell’altro, tentazioni e
aspirazioni…); anche la castità esprime questo mistero. In essa,
infatti, non c’è solo la tensione verso i valori dello spirito, ma anche verso
quelli inscritti nella corporeità e genitalità; la
castità non è fedeltà solo alla scelta verginale, ma pure alla propria
sessualità; anzi, la scelta verginale è casta solo quando attinge e promuove
bellezza e funzione della sessualità, con tutta la fatica che questo comporta:
solo allora è scelta verginale.
Duplice “obbedienza”
La castità del vergine è sintesi di due attenzioni
e passioni: per la propria scelta verginale soggettiva, e pure per i valori
oggettivi della sessualità, e prim’ancora della sua
corporeità. Il corpo non è forse già da sempre «il soggetto stesso d’una fede
che osa affermare col suo tessuto esile ed esaltante l’indissolubile comunione
della carne con Dio».2
Castità, allora, vuol dire rinunciare, per il
Regno, all’esercizio genitale senza rinunciare al fine naturale della
sessualità (cf. terza scheda). O significa, più in positivo, realizzare lo scopo specifico della sessualità
attraverso la scelta verginale. Per questo non basta, per esser casti, negarsi
i cosiddetti “piaceri della carne”, ma occorre cogliere nella luminosità e
ambiguità della carne l’incancellabile presenza dello Spirito, la scintilla
pasquale, e favorire la potente spinta che la
sessualità imprime alla relazione con l’altro-da-sé,
perché sia feconda.
Rinuncia sana
Non è casta, allora, la vita di chi per mantenere
fedeltà a uno dei due poli valoriali (o a una delle
due “obbedienze”) rinuncia all’altro, in modo più o meno inconscio.
Se, ad es., la rinuncia all’esercizio della mia genitalità
mi chiude alla relazione con l’altro o mi rende sterile e improduttivo, triste
e insignificante, quella rinuncia non è sana né casta, e ha pure poca tenuta,
di solito, anche se fatta in nome della mia verginità (per proteggerla, come un
tempo si pensava).
Così come, al contrario, se la pretesa di esser
come gli altri e di gratificare certe esigenze affettive m’impedisce, di fatto,
di testimoniare Dio come l’unico grande amore, il primo e l’ultimo, che mi apre
verso tutti, la mia rinuncia sarebbe solo fittizia e
falsa al limite. È sana la rinuncia che rispetta e “obbedisce” a entrambi i piani e i valori, quella che mi fa esser uomo
spirituale e carnale, e che lascia trasparire il senso del corpo sessuato reso
misteriosamente fecondo proprio dalla rinuncia.
Tale rinuncia mirata e motivata non intristisce
l’animo di chi la pratica e diventa una bella testimonianza di come Dio riempia il cuore del vergine. Di fatto favorisce la
concentrazione dell’amore ed è più possibile e meno faticosa d’una
rinuncia che non nasce da questa sintesi o meno attenta alla grammatica del
corpo.
Peccato contro la castità,
allora, è non solo la sessualità incontrollata, o per eccesso, ma anche
la sessualità rimossa, o per difetto, o quella disintegrata, non ben
equilibrata e integrata con l’amore
LA VERITÀ
DEL CORPO CASTO
La castità, abbiamo detto in apertura, è virtù che
regola; è dunque norma, legge comportamentale, coi
suoi obblighi e divieti. Forse anche per questo non è tra le virtù più
gettonate, anche nei nostri ambienti, tanto meno è stile di vita proposto nella
cultura odierna. Per una serie di equivoci che forse
anche noi abbiamo contribuito a far nascere.
Forma e norma
Ogni norma, se non vuole rischiare il legalismo o
il fariseismo ipocrita, ha bisogno d’agganciarsi a una
forma, nel senso pieno del termine, forma come modo d’essere e stile
esistenziale; anzi, la norma nasce da una forma ed è in funzione d’essa.
D’altro canto ogni forma, se non vuol divenire evanescente e insignificante,
deve concretizzarsi in norme.
Ma quale è la forma verso
cui tende la vita cristiana, e tanto più, chi sceglie d’esser vergine per il
regno dei cieli? È la forma di Gesù e dei suoi sentimenti, o ancor più
precisamente, è la forma del corpo del crocifisso e
risorto. Non solo perché Gesù è stato vergine, ma soprattutto
perché il suo corpo ha espresso, lungo i giorni della sua vita terrena fino
all’epilogo del Golgota, la verità del corpo umano,
che è frutto e segno d’un amore ricevuto che tende, per natura sua, a divenire
bene donato. «Il corpo è vero, e non mente, quando si ritrova nella
forma dell’offerta».3
La castità è la norma al servizio di questa forma,
è ciò che mira esplicitamente a questa connessione, ponendosi tra l’una e
l’altra (sempre nella logica del mistero), affinché «la forma del corpo di Gesù
diventi la forma (o la norma) del nostro corpo; e non ci sia contraddizione tra
il confessare Gesù e la forma del nostro corpo».4 O, giocando ancora
sull’assonanza dei termini, la castità è norma che nasce da una forma per
seguire le orme del crocifisso Signore.
In altre parole, la castità è la virtù che spinge e
provoca il corpo a esser vero e ritrovare verità nel
dinamismo dell’offerta, a non chiudersi in se stesso (es. le forme varie di
masturbazione, non solo fisico-genitale), a non
mettersi al centro della vita e delle relazioni (es. le sottili forme di
narcisismo).
Ma allora ci sono
altri passaggi importanti sempre nella direzione della verità del corpo casto.
Spirituale e carnale
Spirituale non significa immateriale, né designa
una sostanza superiore o un ente misterioso, ma un dinamismo, un modo d’essere
che può esser anche acquisito, anzi, che ogni uomo deve lentamente conquistare.
Come o qual è questo dinamismo?
È «il dinamismo di apertura
all’alterità»5 per fare dono di sé, poiché, secondo Lévinas, «il donare è il movimento originario della vita
spirituale»,6 ma il donare, a sua volta, se non vuol esser illusorio e
generico, è possibile solo mediante il corpo, solo allora è concreto ed
effettivo donarsi e soprattutto è dono di sé, della propria vita. Come dire: lo
spirituale si manifesta nel carnale, ne ha bisogno, mentre il corpo è chiamato
a divenire spirituale e lo diventa entrando nel dinamismo del dono. Dobbiamo
divenire esseri spirituali e carnali al tempo stesso.
Divenire spirituale è vivere il proprio corpo come
donato e fatto per il dono e la relazione. Diventare carnale è ascoltare il
proprio corpo e decifrarne il linguaggio, intuirne la dignità in quella ricerca
e bisogno profondo di amore e verità che si cela
spesso dietro certe richieste; ma accettare anche d’esser sensibili,
vulnerabili, deboli, capaci di comprendere la debolezza altrui. Quando il cuore di pietra diventa cuore di carne, il
soggetto diventa tenero da duro che era. E scoprendo la propria debolezza non
rifiuta più quella dell’altro… «Lungi dall’essere disincarnazione, la spiritualizzazione è incarnazione».7
La castità è l’espressione di questo processo, e
assieme è ciò che consente il passaggio dal cuore di pietra a quello di carne,
dall’essere spirituale a quello incarnato (e viceversa);8
non è casto il cuore presuntuoso e duro, chi non perdona né s’apre alle
necessità altrui, o chi vive il proprio dono come cosa eccezionale ed eroica e
non capisce che «i bisogni materiali del mio prossimo, sono bisogni spirituali
per me».9 È la castità che consente di realizzare quel tipo d’uomo che s’è reso
«carnale fin nel suo spirito, e spirituale fin nella sua carne» (s. Agostino).
“Dolum” e “donum”
Sembrerebbe semplice il compito di questa virtù, ma
non lo è perché il corpo è colmo di violenze e ambiguità, di risentimenti e autoripiegamenti, che spesso falsano il rapporto con
l’altro, strumentalizzando il tu e vanificando quella
tendenza eterocentrica che la sessualità attiva in
ogni essere umano.
È sottilissimo il meccanismo che pone l’io del
vergine al centro della relazione col tu; spesso sfugge anche al soggetto
(anche perché al centro ci si sta bene…), ha tutta l’apparenza dell’amore, ma
in realtà è inganno che erode gli affetti più intensi e deforma il volto
d’entrambi perché, dietro la finta del dono o dello scambio (“io t’appartengo”,
“tu sei importante per me”, “non ti posso perdere”, “tu sei mio”, “nessuno m’ha dato quel che m’hai dato tu”…), cela strategie varie di
assoggettamento del tu e d’invadenza dell’io. Il proprio corpo, allora, non è più nella forma dell’offerta, diviene falso o de-forme (ha
smarrito la sua forma), e strumento di conquista del corpo altrui, a sua volta
terra di conquista.
È dolum (=inganno), non donum, ma è difficile accorgersene. Castità è la premura
vigile d’un cuore attento a quel che avviene nelle sue
profondità recondite, vigile perché geloso dell’amore che lo abita, attento
perché attratto dal mistero del corpo umano, tempio di Dio!
Morte e Resurrezione
La castità del vergine è rinuncia, è dir di no a una delle realtà più attraenti e ricche di mistero
dell’esistenza umana come la comunione piena dei corpi e della vita; è morte.
è importante riconoscerlo
senza trastullarsi in patetiche restrizioni mentali per giustificare miserabili
compromessi («fin qui si può», «ma cosa c’è di male a volersi bene?», «basta
coi tabù, certe esigenze vanno gratificate»). Anche
qui basterebbe saper leggere il proprio corpo, il quale, se stimolato, è capace
d’una miriade d’emozioni, che aiutano a discernere la qualità del rapporto.
Allora restituiremmo al corpo la dignità di essere «la nostra buona coscienza»;10 ma soprattutto,
grazie proprio alla lucidità e coerenza con cui vergini viviamo la nostra
morte, diverremmo capaci di ritrovare le parole della vita, per dire all’uomo e
alla donna di oggi l’inaudito cristiano del destino ultimo del corpo.
«Risorgerà ogni corpo che nel suo stare al mondo
avrà in qualche modo ripresentato le movenze del corpo di Gesù. Vivrà per
sempre nella gioia di Dio ogni corpo che avrà assimilato, come sostanzioso
nutrimento, la forma del corpo di Gesù: il dono, la comunione».11
La nostra castità è profezia di quel giorno bello e
radioso!
Amedeo Cencini
1 CEI, Direttorio di pastorale familiare per
la Chiesa in Italia, Roma 1993, 44 e note 12–14.
2 M. Neri, Linguaggio del corpo: splendore e
senso, in Settimana, 11(2004), 11.
3 M. Antonelli, Alla
ricerca del corpo perduto. Un invito alla riflessione, Milano
2004, p.83.
4 Ibidem., 11.
5 J. Lacroix, Il corpo di
carne. La dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore,
Bologna 1996, p.236.
6 E. Lévinas,
«Textes messianiques», in Difficile liberté, Albin Michel 1976, p.87.
7 Lacroix, Il corpo di
carne, 235.
8 Significativa, nella
profezia di Ezechiele, la sequenza tra cuore nuovo e spirito nuovo, tra cuore
di pietra e cuore di carne (cf Ez
36, 26).
9 I. Salanter, cit. da S. Malka, Leggere Lévinas, Brescia 1986, p.56.
10 Antonelli, Alla
ricerca, 42.
11 Ibidem., 116.