MEDITAZIONE DI FRONTE ALLA MALATTIA
QUANDO TUTTO RITORNA ALL’ESSENZIALE
Quando
la malattia, soprattutto se grave, bussa alla porta, ci si sente creature
mortali. Questa presa di coscienza è un invito a non dilapidare il tempo che
passa. Ogni istante diventa più prezioso. È anche il momento di abbandonarsi
nelle mani di Dio.
Un anno fa, il 23 maggio 2003, moriva p. Bruno
Chenu, all’età di 60 anni, stroncato da un tumore. Religioso sacerdote
assunzionista, teologo e giornalista, era molto conosciuto soprattutto in
Francia per la sua copiosa attività editoriale e il suo impegno nel campo
dell’ecumenismo e di giustizia e pace. Autore di una quindicina di opere, e di
centinaia di articoli, dal 1988 al 1997 era stato anche capo redattore del
quotidiano La Croix. Per molte persone la sua figura era diventata un sicuro
punto di riferimento culturale e spirituale. Al momento della scomparsa, era
superiore in carica della sua comunità religiosa.
È stato un uomo che ha saputo vivere il tempo della
malattia in un atteggiamento di fede e di serenità come lui stesso ha
raccontato in una conferenza tenuta a Guebwiller (Alto Reno) il 3 aprile 2003,
a circa un mese e mezzo dalla morte. Il quotidiano La Croix ne ha pubblicato i
passaggi più rilevanti in occasione del venerdì santo, giorno in cui la
liturgia, ai piedi della croce di Cristo, invita a riflettere sul mistero della
sofferenza e della morte. Ai responsabili della pubblicazione non è sembrato
trovare meditazione più adatta di questa per i propri lettori per aiutarli a
vivere intensamente il mistero celebrato nella liturgia.
Come giornalista consumato Chenu avrebbe potuto
enfatizzare la sua esperienza usando gli orpelli del mestiere. In realtà, ha
detto, «quello che ho vissuto in questi ultimi mesi è del tutto banale», visite
mediche, cure prolungate, applicazione della chemio ecc. Inoltre, ha aggiunto
«penso che l’intimo è intimo e non ha bisogno delle telecamere. In ciascuna
delle nostre vite c’è una parte segreta, che può essere una zona d’ombra, di
peccato, ma che è anche quella del dialogo che ciascuno cerca di intrattenere
con il suo Dio, è quella del combattimento della fede. È una lotta interiore
che si sviluppa senza testimoni, e nessuno deve cedere al voyeurismo a questo
livello».
Ha quindi sviluppato il suo discorso mettendo a
fuoco soprattutto tre punti: vivere sotto la minaccia; vivere accompagnati;
vivere della grazia.
VIVERE SOTTO
LA MINACCIA
Per p. Chenu la minaccia era un tumore scoperto un
anno prima, nel maggio 2001. La parola “tumore”, ha detto, fa sempre paura.
Assieme all’Aids è la grande malattia che spaventa. Il problema è che esso si
introduce in maniera del tutto subdola: nessun avvertimento, nessun dolore,
nessuna stanchezza eccessiva. Il tumore prende di sorpresa e rode lentamente,
clandestinamente.
Ma i medici l’avevano rassicurato: nel suo caso la
probabilità di guarigione era molto elevata, tanto più che non c’erano
metastasi. Nonostante tutto, quando si sa di avere un tumore, volere o no, si
vive come sotto una minaccia. Che cosa comporta tutto questo?
In una situazione del genere, ha sottolineato, la
prima cosa che si capisce è di essere mortali. «Direte che è un fatto evidente
per tutti. Ma finché si è in buona salute, non ci si pensa allo stesso modo. Si
rimanda a più tardi la presa di coscienza della fine terrena del nostro itinerario.
La prova invece mette davanti agli occhi e alla coscienza la possibilità di una
fine vicina e ineluttabile. Ciò che stava in fondo alla coscienza emerge in
primo piano».
Questa presa di coscienza della finitezza della
propria esistenza è un invito a non dilapidare il tempo che passa. Ogni istante
diventa più prezioso. Non è più possibile dire a se stessi: «Ho davanti a me un
buon numero di anni».
Presto tutto terminerà. Nello stesso tempo non si
tratta di buttarsi nella iperattività, come se si avesse ancora qualcosa di
importante da fare. Non si tratta di cercare di produrre, di una nuova missione
da compiere: si tratta piuttosto di gustare l’istante che passa e che, forse,
non si riproporrà. Si tratta di essere totalmente se stessi, più nella gratuità
riconoscente che nella frenesia dell’attivismo.
Vivere sotto la minaccia vuol dire anche e
necessariamente andare all’essenziale. E l’essenziale non è un oggetto, una
conquista, un qualcosa da afferrare, ma è un allentare la presa, un modo di
stare davanti a Dio e in mezzo agli altri, nell’incertezza della propria
salute.
Vivere sotto la minaccia vuol dire accettare che il
tumore possa ritornare, che possa riprendere. La spada di Damocle è lì, anche
se, per fortuna, non ci si pensa tutto il giorno. L’unico rischio è di
inquietarsi per ogni piccolo dolore che si avverte, per ogni minimo indizio
passeggero. Non bisogna passare il tempo ad auscultarsi.
In una condizione del genere è inevitabile anche
interrogarsi sul senso cristiano della sofferenza. La prima convinzione da
richiamare è che la sofferenza è uno scandalo e che la fede cristiana non è un
modo scaltro di ridurre questo scandalo. In effetti tutto il ministero di Gesù
mira a sconfiggere la sofferenza, è una lotta per l’integrità dell’uomo, una prassi
di guarigione. E il recupero della salute fisica non è che una parabola della
salute spirituale: manifesta che il regno di Dio definitivo non conoscerà «né
lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4).
Più precisamente, e in contrasto con una certa
tendenza della tradizione spirituale, l’atteggiamento di Gesù mostra che la
sofferenza non ha un valore in se stessa. Essa piuttosto distruttura e
disumanizza. Scava un fossato in tutte le relazioni e più ancora all’interno di
se stessi. Tira verso il basso anziché verso l’alto.
È dunque blasfemo dire che Dio gode della
sofferenza o che la manipola come uno strumento di castigo dell’umanità
peccatrice. Dio non trova alcun piacere sadico in una realtà che offusca la sua
immagine umana. Nella Bibbia egli si rivela come un Dio della vita e non della
morte, di liberazione e non di frustrazione. Nei confronti della sofferenza non
invita alla compiacenza, ma alla resistenza.
Che cosa fare allora di questa sofferenza senza
valore intrinseco, che tuttavia appare come ineluttabile nel cammino della vita
umana? Guardando al comportamento di Gesù sembra che la sofferenza abbia senso
a partire da un’altra cosa, diversa da sé. Il suo significato è sempre un
valore aggiunto alla nuda esperienza.
Uno dei suoi effetti più immediati è il
ripiegamento, per non dire la chiusura in se stessi. L’essere umano è solo al
mondo. E, peggio ancora, ha l’impressione di essere abbandonato. Gesù non
esprime qualche cosa di questa angoscia col suo grido: «Mio Dio, mio Dio,
perché mi hai abbandonato?».
Se il dolore rinchiude in se stessi, esso immerge
anche nell’abisso del presente. L’avvenire assume il colore della morte. La
disperazione rode i caratteri più forti: si finisce per darsi per vinti e di
lasciarsi cadere le braccia.
Un’operazione salutare consisterà nel riannodare i
fili della propria storia, nel ritrovare il cammino di fiducia nella vita. Gesù
forse non ha ridato la speranza al buon ladrone?
Ma il gesto più difficile da compiere consiste nel
liberarsi di se stessi e di rimettersi nella mani di Dio: «Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito». Un atteggiamento di fede, assieme all’amore e
alla speranza. Dio non è il commendatario della sofferenza, ma il compagno
nella prova. Nel suo Figlio crocifisso, egli garantisce la sua presenza a tutti
coloro che soffrono e il limite posto alla realtà della morte. L’ultimo nemico
è la morte, ma anch’esso sarà annientato (cf. 1Cor 15,26).
VIVERE
ACCOMPAGNATI
Una delle esperienze più positive che Chenu ha
detto di aver vissuto nella sua prova è stata di sentirsi circondato e
sostenuto da molte persone. Si è trattato di un accompagnamento concreto, fatto
di presenza fisica, e di accompagnamento spirituale, di preghiera promessa e
certamente adempiuta. «Tra la malattia e me un certo numero di amici ha
innalzato un muro di preghiera. Ciò mi faceva dire che Dio si sarà sentito
stanco di tanta preghiera e che per questo mi aveva concesso un rinvio».
Ma, nella sua esperienza un posto rilevante ha
avuto anche la comunità religiosa a cui apparteneva. «Ho trascorso la parte
essenziale del mio tempo, ha detto, nella mia comunità e mai in essa sono stato
considerato come un malato. In certi momenti ero certo obbligato a comportarmi
come una persona stanca a causa delle cure, ma nessuno ha fatto delle osservazioni
che mi avrebbero chiuso ancor più nella prova. Ho continuato ad assumere le mie
responsabilità di superiore della comunità. Ho continuato a lavorare secondo le
mie forze. Credo che sia molto importante coltivare un rapporto naturale con
chi è malato, considerarlo una persona in senso pieno, il cui problema di
salute non deve troppo interferire nel rapporto. Non c’è niente di più
drammatico per un malato che leggere sul volto dell’altro lo sconcerto che
questi si sforza di mascherare, dicendo che non c’è in definitiva ragione di
aver paura. Per favore, non rincariamo la gravità del male altrui. Ho avuto
anch’io degli amici che mi sprofondavano nella paura invece di sostenermi nella
fiducia. Non bisogna mai essere più pessimisti del malato stesso».
Per spiegarsi meglio p. Chenu ha letto la seguente
pagina di Maurice Bellet: «L’amore di amicizia ha tre volti: la presenza,
l’ospitalità, l’ascolto. La presenza è molto semplice: visite, telefono, oppure
mandare a dire attraverso qualcuno, “penso a te”. Così io continuo ad esistere
attraverso gli altri, io vivo in essi. E sono liberato dal richiudermi in me
stesso, dal ridurmi a me stesso. L’ospitalità: sono stato accolto
meravigliosamente, attorniato, curato. L’ascolto: il telefono è a portata di
mano. Basta staccarlo, comporre qualche numero: c’è qualcuno che lo stacca, che
ti ascolta, a cui posso parlare in tutta confidenza. È un amico medico al quale
dico ciò che mi preoccupa, al quale chiedo consiglio. Posso chiamarlo quando
voglio, a qualsiasi ora. Immensa è la sicurezza che questo medico suscita in
maniera confidenziale e personale di fronte all’enorme macchina che è
l’ospedale».
ABBANDONO
IN DIO
L’altra esperienza: vivere della grazia. Tocchiamo
qui, ha sottolineato Chenu, la dimensione più segreta della prova. È difficile
dire grandi cose poiché tocchiamo la parte intima della persona. Quando capita
ciò che è capitato a me non c’è che una sola via di uscita: l’abbandono, la
consegna di sé nelle mani di un altro, sia questi uno specialista che prescrive
le medicine o sia questi Dio, destino ultimo delle nostre vite mortali.
«Lasciare che gli altri facciano, non dipendere più
da se stessi, avere fiducia. Io ho cercato di mettermi in questo atteggiamento,
per la semplice ragione che è la sola via di uscita di fronte alla grandezza
della sfida. Tutto ciò porta a una preghiera molto spoglia, senza orpelli,
senza grandi formule. Si ritorna alle espressioni semplici, piene di fiducia:
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, alla preghiera di Gesù: “Gesù,
Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me”.
Per me, ha sottolineato ancora, ciò implicava
domandare anche la guarigione… È difficile non pregare per la propria
guarigione. La liturgia in particolare ci invita a farlo. Un’espressione che
per me ha avuto importanza è quella che diciamo subito prima della comunione:
«Signore, non sono degno di riceverti, ma di’ soltanto una parola e io sarò
sanato».
Ha aggiunto di avere scritto così a un gruppo
ecumenico: «Senza cadere in una spiritualità dolorifica, io vivo questi momenti
delicati come un invito a una comunione più profonda con il Cristo sofferente»;
e di avere apposto accanto alla firma in una lettera a delle claustrali: «Nella
gioia di essere giudicato degno di partecipare alla passione di Cristo». In effetti,
«non sempre è possibile essere a fianco di Cristo trionfante; dobbiamo
condividere anche la sua passione per giungere, se possibile, alla sua
risurrezione».
Ha quindi concluso la sua meditazione citando una
frase della lettera ai colossesi, un’affermazione di Pascal, e un’altra di
Maurice Bellet. Paolo, scrivendo ai colossesi dice: «Sono lieto delle
sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai
patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (1,24); Pascal da
parte sua afferma: «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo»; infine
Maurice Bellet: «Io non offro che la mia fede che nemmeno possiedo. È un
desiderio umile, molto umile che non vuole mai stancarsi – come una fontanella
da cui fluisce l’acqua con rumore leggero nell’immensità dei giorni e delle
notti».
«Tutto questo, ha concluso p. Chenu, mi ha fatto
dire che se il mio corpo era affaticato dalla chemio, la mia anima era
riposata. Tutto si mette a posto nella vita personale, tutto si gerarchizza. Si
instaura una specie di pace interiore. Non rimane allora che ripetere col
salmista: “La tua grazia, Signore, vale più della vita” (Sal 64,4)».