NUOVE VIE DI RICERCA
UNA SPIRITUALITÀ PER LA VITA ATTIVA
La
vita consacrata oggi si preoccupa più della vita concreta, dei problemi
quotidiani e della solidarietà che dell’osservanza. Come vivere con equilibrio
il primato di Dio e l’attenzione al mondo? L’urgenza di una spiritualità integratrice.
Contro ogni previsione dei teologi e sociologi
della secolarizzazione, oggi si assiste a una forte domanda di spiritualità. Il
fenomeno è sotto gli occhi di tutti, e va ben oltre gli ambiti della vita
consacrata. Su richiesta della Conferenza dei religiosi del Brasile, il gesuita
p. Luis Gonzales-Quevedo ha tentato di darne una lettura interpretativa, che
qui presentiamo in sintesi.1
Va riconosciuto che in questi ultimi decenni il
concetto di “spiritualità” è cambiato ampliandosi notevolmente, quasi che ogni
cosa possa rientrare sotto questa etichetta prestigiosa. A rischio di eccessive
semplificazioni, p. Gonzales-Quevedo annota che fino al concilio Vaticano II la
spiritualità nella vita religiosa si identificava con l’osservanza delle
Regole. Spirituale era il religioso, o la religiosa, che faceva, nel modo più
perfetto possibile, tutto quanto era prescritto.
Dopo il Vaticano II e gli importanti appuntamenti
di Medellin e Puebla, la spiritualità è cambiata. Il modello del consacrato
divenne quello della persona gioiosa, aperta alle relazioni e particolarmente
impegnata nell’azione sociale, soprattutto in un contesto sociale come quello
latinoamericano. Spirituale diventava chi appoggiava i senzatetto o i senza
terra, il minore abbandonato e la donna emarginata, il sieropositivo e il
tossicodipendente.
La tendenza attuale nella vita religiosa sembra
meno interessata dell’osservanza regolare e più della vita, dell’amore fraterno
e dell’azione solidale nei confronti dei fratelli.
La necessità di una visione più equilibrata, di una
spiritualità integrata – secondo il gesuita – suppone il superamento di analisi
semplicistiche per cercare di individuare ciò che è più caratteristico e
importante in ogni autentica spiritualità: l'unificazione della vita nelle sue
diverse dimensioni (personale e comunitaria, intellettuale e affettiva,
contemplativa e attiva, religiosa e politico-sociale). Sono da intendere in
questa linea le parole del papa nella esortazione apostolica post sinodale
Ecclesia in America (1999), in cui elenca le idee fondamentali di una vita
spirituale: l'incontro personale con Gesù Cristo porta alla conversione
permanente; la conversione conduce a una vita nuova: in questa vita nuova non
deve esserci separazione tra fede e vita, ma integrazione, nella risposta
quotidiana alla chiamata alla santità. Il papa continua ricordando che la
conversione possiede una dimensione sociale che richiede di rivedere tutti gli
ambiti e dimensioni della vita, soprattutto ciò che dice riferimento all'ordine
sociale e al conseguimento del bene comune. Un'autentica spiritualità cristiana
non coinvolge una parte della vita ma, secondo il pontefice, “una vita intera
guidata dallo Spirito Santo”.
L’autentica esperienza spirituale che cerchiamo
attinge a tutto il nostro essere: corpo, psiche e spirito, mente e cuore,
sensibilità periferica e affettività profonda. In una parola il nostro io più
autentico.
INCONTRARE DIO
ATTRAVERSO IL CRISTO
A partire dalla spiritualità ignaziana, p.
Gonzales-Quevedo fa notare che ogni autentica spiritualità si configura come un
cammino di ricerca e di incontro con Dio nel mondo. Gli stessi Esercizi di s.
Ignazio si caratterizzano per l’intento fondamentale di portare
all’integrazione dei desideri dell’uomo in un solo desiderio: cercare Dio e il
servizio del Regno.
La priorità assoluta di tutta la vita religiosa è
Dio. La spiritualità di ieri e di oggi consiste nel cercare il suo volto, ed è
il primo punto della “ri-fondazione” della vita religiosa. Senza di esso tutto
il resto diventa ornamentale, dinamica di gruppo, beneficenza, marketing
pastorale. Senza preghiera – cioè, senza incontro personale, consapevole, con
Dio – o almeno, senza il desiderio di pregare (che è già una forma di
preghiera), la vita religiosa non si alimenta.
Oggi, chi lavora nei centri di spiritualità o nelle
case di esercizi constata un aumento della disponibilità di metodi di preghiera
che aiutano a sperimentare la presenza del Signore nelle diverse circostanze
della vita. Ed è tipico che, alla fine di un periodo di ritiro spirituale, la
persona si senta gioiosa e desideri portare ad altri ciò che ha vissuto in
quell’esperienza prolungata di preghiera. Così come sentirsi più vicini alla
tradizione spirituale del proprio istituto, ravvivata dall’incontro personale
con il Signore.
Parlando di incontro con il Signore nella preghiera
non si può tralasciare l’ascolto della Parola. La spiritualità cristiana è
erede dell’antico popolo d’Israele, popolo della Parola. Il nostro Dio ci vede,
ci ascolta, ci conosce e ci ama, e ci ha parlato per mezzo di profeti, apostoli
ed evangelisti. Il concilio Vaticano II raccomanda ai sacerdoti e responsabili
di tenere un contatto intimo con la Parola, con la lettura assidua e lo studio
costante per non risultare «predicatori vani della parola di Dio, senza
ascoltarla dentro se stessi» (DV 25).
L’ascolto della parola di Dio, tanto dell’antico
come del nuovo testamento, conduce in ultima istanza a Gesù Cristo. Il
cristianesimo – ricorda p. Gonzales-Quevedo – non è un insieme di verità da
credere, né una serie di norme morali da osservare. Il cristianesimo è prima di
tutto incontro con una persona: Gesù di Nazaret, figlio di Dio fatto carne,
morto e risuscitato per la nostra salvezza. Egli è il centro della rivelazione
cristiana, unico mediatore della salvezza. Ciò non significa esclusione nei
confronti delle altre grandi religioni dell’umanità. Il concilio Vaticano II,
infatti, insegna che anche fuori della Chiesa, perfino nell’ateismo o
agnosticismo di buona volontà, è possibile la salvezza grazie a Cristo.
Affermazioni come questa danno alla Chiesa, nel suo insieme, e soprattutto ai
religiosi/e postconciliari una libertà che sa di novità.
La vita religiosa postconciliare risente di questa
difficoltà di gestione della propria libertà. Noi religiosi – rileva il gesuita
– parliamo sempre di più di poveri, mentre trascuriamo la povertà religiosa. Un
nuovo modo di parlare della castità nel celibato ha recuperato i valori
affettivi nelle nostre comunità., e molti/e hanno lasciato la vita religiosa per
realizzarsi affettivamente al di fuori di essa. L’obbedienza religiosa si è
umanizzata rivalutando il dialogo e la corresponsabilità. Eppure mai, come
oggi, è tanto difficile trovare religiosi/e che accettino di buon grado di
svolgere incarichi di coordinamento nelle comunità. Queste ultime, poi, sono
cambiate: da istituzioni totali sono divenute piccole comunità di fratelli e
sorelle convocate dal Signore per un’unica missione.
Che cosa rimane della vita religiosa
tradizionale?La sequela radicale di Gesù! Conoscerlo, amarlo e seguirlo è
questione di vita o morte per la vita religiosa. E il documento Ripartire da
Cristo invita la vita religiosa a rinnovare il proprio impegno nel terzo
millennio. L’esortazione non appare superflua. Come annotano i mass media,
anche cattolici, la vita consacrata mostra i segni evidenti di una crisi, che
non ha nel palese calo numerico il suo principale sintomo. Il papa afferma
chiaramente che il problema non sta nel calo numerico ma nella diminuzione
dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione. «Le
dolorose situazioni di crisi sollecitano le persone consacrate a proclamare con
fortezza la fede nella morte e risurrezione di Cristo, per divenire segno
visibile del passaggio dalla morte alla vita» (VC 63).
UNA SPIRITUALITÀ
PER IL MONDO D’OGGI
La vita consacrata può essere compresa soltanto in
un orizzonte ecclesiale. Perciò religiosi/e hanno bisogno di una forte
spiritualità ecclesiale. «L’essenza della Chiesa – diceva mons. Oscar Romero –
sta nella sua missione di servizio al mondo. La Chiesa è nel mondo per rendersi
solidale con speranze e desideri, angosce e tristezze degli esseri umani».
La vita religiosa è essenzialmente comunitaria ed
ecclesiale, e ha un ruolo importante in una Chiesa che ha bisogno di “esperti
di comunione”. Le tensioni presenti nella comunità dei credenti tra consacrati
e gerarchia – ricorda p. Gonzales-Quevedo – sono comprensibili, analoghe a
quelle esistenti tra fratelli, tra padri e figli. Sono circostanze utili per la
crescita, non negazioni della comunione. L’obiettivo permanente consiste sempre
nel “sentire con la Chiesa” e operare, quando necessario, una critica
dall’interno: questa è la testimonianza attesa dai consacrati.
Nata per servire il mondo, la Chiesa vive sempre una
certa tensione con questo mondo. La vita religiosa, che si definisce come una
certa “separazione” dal mondo, è chiamata a essere alternativa alla logica del
mondo, nelle forme più consone alle caratteristiche di ciascun istituto. Nella
pratica, tuttavia, incontriamo religiosi/e più impegnati della maggioranza dei
laici nelle lotte di questo mondo. Ancor di più – sottolinea p.
Gonzales-Quevedo – la gran parte dei religiosi, nel contesto brasiliano, non
accettano più la definizione della vita religiosa come “separata dal mondo”, e
la considerano ormai obsoleta. Una realtà del tutto opposta al concetto di
inserimento nelle condizioni di vita dei più poveri.
La tensione tra vita religiosa e mondo permane, e
questa differenza è condizione necessaria per il dialogo. La comunicazione tra
la prima e il secondo è irrinunciabile; se mancasse, la vita religiosa
morirebbe. Proprio per questo è quanto mai necessario approfondire la propria
identità e viverla con libertà nel confronto, evitando quel rischio di mondanizzarsi
capace di rendere sterile ogni tentativo di dialogo. Religiosi diversi, come
Teilhard de Chardin o madre Teresa di Calcutta, sono stati molto ammirati dal
mondo della scienza e dell’impegno sociale non per essersi adattati agli usi e
costumi del mondo, ma per aver vissuto con criteri diversi da quelli del loro
ambiente.
Una questione scottante dei nostri tempi è quella
ecologico–ambientale. Cresce sempre più la certezza che l’umanità finirà col
restare vittima del proprio consumismo. I religiosi non possono rimanere
insensibili alla questione della salvaguardia del creato e di atteggiamenti
culturali alternativi a quello dello sfruttamento senza criterio delle risorse
naturali e umane. Si potrebbe dire che la teologia dei tre voti religiosi
enfatizza una loro “dimensione ecologica”.
Applicata al voto di povertà questa dimensione
ecologica si manifesta come denuncia di ogni cupidigia e consumismo,
atteggiamenti responsabili dell’attuale situazione, e scelta di vivere una vita
laboriosa e frugale. Se nell’era industriale i religiosi erano considerati con
disprezzo come esseri improduttivi, pesi morti per il progresso dell’umanità,
oggi si assiste a un’implicita loro rivalutazione. Nella prospettiva ecologica
sono apprezzati per la loro frugalità, come custodi della natura e dei beni
dell’umanità, capaci di valorizzare più l’essere che il fare o l’avere.
La dimensione ecologica del voto di castità nel
celibato si comprende nella rinuncia all’istinto di dominazione e di
soddisfazione immediata degli istinti primari o dei bisogni socialmente
condizionati. La rivalutazione odierna del corpo umano è positiva. La vergine e
il celibe di oggi non disprezzano il corpo né la sessualità. Al contrario,
rispettano e valorizzano il mistero dell’amore e della vita e sono un segno per
coloro che si prostituiscono o gli approfittatori dell’industria del sesso.
Ben intesa, l’obbedienza religiosa comporta
l’impegno di ascoltare con amore la natura e amministrarla in modo
responsabile.
UNA TESTIMONIANZA
DI SPERANZA
L’uomo d’oggi, come quello di sempre, può vivere
senza pane, senza casa, con una salute precaria, ma non può vivere senza
speranza. Gabriel Marcel diceva che sperare consiste nel passare dal “tempo
chiuso” al “tempo aperto”, dalla fugacità dell’avere alla pienezza dell’essere.
La vita consacrata è stata vista nel corso dei
secoli come una convincente testimonianza di speranza. È il tema della
testimonianza escatologica, che l’eccessivo assorbimento nei problemi più
urgenti del tempo attuale potrebbe farci dimenticare.
La vita cristiana nel suo insieme, e in particolare
la vita consacrata, dovranno investire molto di più nella dimensione
escatologica, poiché viviamo una crisi di speranza. Scriveva il filosofo
Habermas: «Si è persa la speranza nella risurrezione, e ciò lascia dietro di sé
un vuoto notevole».
Sì – afferma con forza p. Gonzales-Quevedo – come
cristiani e religiosi dovremmo parlare più spesso della nostra speranza nella
risurrezione e nella vita eterna. E non solo parlarne, ma dare testimonianza
con la nostra vita della speranza che abita in noi. Oggettivamente la vita
consacrata, nella sua essenza, è una testimonianza di speranza. Diceva François
Mauriac: «Credo nella risurrezione di Gesù. Credo che egli vive perché, a causa
sua, migliaia di donne nella Chiesa non si sposano».
Ma, per tornare al tema di una spiritualità
integratrice dopo la panoramica sugli aspetti caratterizzanti della vita
consacrata, ci si potrebbe chiedere: che cos’è che dovrebbe fare integrazione e
invece non integra? La risposta sembrerebbe essere: la spiritualità.
Ciò che appare deficitario nella vita consacrata,
oggi, è la sensibilità spirituale, intesa come gestione responsabile e
attualizzazione del patrimonio spirituale lasciato dal fondatore/fondatrice, la
vita di preghiera in generale, i ritiri annuali e mensili, i corsi di
formazione permanente, incontri e riunioni d’istituto e intercongregazionali.
Lì dove queste occasioni di esercizio e approfondimento della spiritualità sono
vissuti in modo adeguato e con serietà, i frutti ci sono, e sono un fattore
importante nella perseveranza e nel rinnovamento spirituale di religiosi/e che
li vivono.
1 GONZALES-QUEVEDO L. sj, Uma Espiritualidade para
a Vida Ativa, Convergência, 370/2004, pp. 96-107.