INDAGINE SUGLI ABBANDONI
RAGIONI AFFETTIVE AL PRIMO POSTO
Ci
si preoccupa delle nuove vocazioni e si ignorano le cause di tanti abbandoni.
Più che per crisi di fede si lascia per ragioni affettive. Colpa della teologia
post-conciliare sulla vita consacrata? Pare di no. Non esistono patenti di
immunità e adeguati vaccini anti-defezioni.
Perché tanti religiosi abbandonano il proprio
istituto? Proprio in questi ultimi anni, afferma il francescano OFM Lluís
Oviedo Torró,1 docente di teologia presso l’ateneo Antonianum di Roma, «sembra
di assistere ad una seconda ondata di defezioni clericali», sia tra i religiosi
che tra il clero diocesano.
Anzi, il fenomeno pare oggi non solo peggiorato, ma
anche privo di soluzioni. Mentre ci si preoccupa un po’ ovunque dell’animazione
vocazionale per far fronte all’invecchiamento e ai sempre più numerosi decessi
negli istituti religiosi, raramente ci si interroga sulle motivazioni reali di
quanti, e sono sempre tanti, a un certo punto decidono di cambiare strada.
Finora le ricerche empiriche su questo argomento
sono state alquanto scarse. Da qui l’opportunità dell’indagine di p. Oviedo,
per verificare, anzitutto, alcune teorie formulate sugli abbandoni della vita
consacrata e poi per ipotizzarne spiegazioni più plausibili.
COLPA
DEL CONCILIO?
La ricerca è stata effettuata su un campione di
popolazione molto omogeneo. Sono stati presi in considerazione solo casi
accaduti negli ultimi 15 anni, dal 1988 in poi. Con 24 domande chiuse e una
aperta, si è cercato di chiarire i diversi aspetti che possono aver incentivato
l’abbandono del proprio istituto: età, tempo di professione, livelli di
soddisfazione, tipo di attività svolta, livelli di preghiera, di vita comune,
tendenze ideologiche e, in particolare, le cause immediate che hanno fatto
precipitare la crisi e il cambiamento di vita. Gli intervistati hanno fornito
dati su uno o più (fino a un massimo di quattro) ex-religiosi che hanno
personalmente conosciuto o sui quali disponevano comunque di sufficienti
notizie. Delle 184 schede di casi raccolti, due terzi riguardano ex-membri
dell’ordine francescano (ofm), l’altro terzo, invece, concerne ex-religiosi di
13 diverse congregazioni, appartenenti complessivamente ad almeno 30 nazioni di
tutti i continenti.
L’analisi dei dati si è avvalsa dei più accurati
metodi statistici e delle teorie più ricorrenti, come guida per formulare e per
verificare poi ipotesi più verosimili. Ci si è avvalsi anche dei dati forniti
annualmente dalla curia generale dei francescani sul numero dei nuovi arrivi e
su quello degli abbandoni. A conferma della seria impostazione dell’indagine,
tutti questi dati sono stati a loro volta correlati con altri valori
statistici, come il numero di ingressi, il numero medio di frati, e poi anche
con il coefficiente calcolato in una precedente indagine sui fattori che
favoriscono invece la crescita vocazionale: rigore, senso di identità,
orientamento dell’attività, orientamento dottrinale, promozione vocazionale e
tipo di devozione.
Intanto l’indagine non sembra confermare affatto la
tesi secondo la quale l’aumento degli abbandoni sarebbe dovuta ai cambiamenti
teologici post-conciliari. Secondo i sostenitori di questa teoria, infatti, una
teologia più tradizionale sia del sacerdozio che della vita consacrata, avrebbe
sicuramente incoraggiato nuove vocazioni e scoraggiato defezioni. Sarebbero
venuti meno, dopo il concilio, gli incentivi ideologici che in precedenza
rendevano ragionevole l’impegno vocazionale. L’insistenza del concilio sulla
universale chiamata alla santità e sul superamento dei cosiddetti stati di
perfezione, avrebbe poi di fatto livellato tutti gli stati di vita cristiana e
avrebbe appiattito il senso di eccellenza su cui da sempre si era radicato
l’impegno vocazionale.
Ora, se può essere vero che «certi fattori e
orientamenti contribuiscono sensibilmente all’incremento o al declino nelle
entrate di nuove vocazioni», il discorso è diverso per quanto riguarda gli
abbandoni. Non è un dato scontato, cioè, che i «religiosi più progressisti
abbandonino in numero più significativo di quelli tradizionalmente orientati».
Di fatto, gli abbandoni colpiscono praticamente sia gli uni che gli altri. Se,
come emerge dall’indagine, abbandonano di più i progressisti «è semplicemente
per il fatto che ce ne sono di più nella fascia di età più a rischio o più
colpita dai casi di defezione». Infatti, le perdite vocazionali sono
prevalentemente associate alla quantità di frati giovani presenti in una
provincia religiosa, cioè dai 20 ai 40 anni. Questo, senza equivoci, ci dice
che i fattori demografici «giocano un ruolo più importante che non una certa
ideologia nelle dinamiche della crisi vocazionale».
Anche la teoria della secolarizzazione va
notevolmente ridimensionata. Secondo questa teoria, infatti, più sono alti i
livelli di secolarizzazione in un ordine religioso, più si attenuano i legami
di adesione e maggiore, quindi, è il numero di defezioni. A una maggior
secolarizzazione, cioè, corrisponderebbe un maggior indice di abbandoni. Un
indice significativo, a questo proposito, potrebbe essere il livello di
preghiera caratteristico degli ex-religiosi prima della loro uscita
dall’istituto. Ma il fatto di pregare di più o di meno, non pare assolutamente
determinante in ordine agli abbandoni. Anche in base alle statistiche fornite
dall’ordine francescano, «non risulta nessuna evidenza riguardo all’influsso
della secolarizzazione ambientale nei livelli di abbandono clericale». Ad
esempio, se negli ultimi dieci anni in Francia la percentuale degli abbandoni
di professi temporanei e solenni arriva al 10%, in Polonia essa sale al 25%.
Neppure le tradizionali teorie psicologiche e
teologiche sembrano spiegare il fenomeno.
Da questa indagine, infatti, risulta che il numero
di abbandoni per motivi psicologici (vale a dire per instabilità psichica,
depressione, difficoltà di vita comunitaria, problemi familiari ecc.), sono il
19,5%. Così pure gli abbandoni per crisi di fede si aggirano sul 10%, una
percentuale che sale al 20% quando si sovrappongono problemi di obbedienza o
conflitti con i propri superiori.
PROFILO STANDARD
DI CHI LASCIA
Ma allora, si chiede p. Oviedo, «cosa accade?». Se
le diverse e più note teorie esplicative del fenomeno paiono non reggere alla
prova dei fatti, «qual è la spiegazione più adatta alla crisi?». La risposta
più immediata, per certi versi, è anche la più scontata. Il problema, cioè, è
notevolmente più complesso di quanto non sembri. Intanto non si dovrebbe
rimuovere troppo in fretta il processo demografico naturale, tipico delle
comunità religiose. La maggior parte di quelli che lasciano hanno un’età che va
dai 31 ai 40 anni, con una percentuale complessiva del 54,5% dei casi studiati.
Se poi si aggiungono anche quelli compresi tra i 20 e i 30 anni, allora i tre
quarti delle defezioni avvengono prima dei 40 anni, anche se l’età media della
maggior parte delle province occidentali si situa al di sopra dei 50 e persino
dei 60 anni. «Sembra che la crisi abbia a che fare con un fatto di indole
personale, come l’opportunità di lasciare con sufficienti possibilità di
organizzare la propria vita».
Il dato, però, più significativo dell’indagine è
quello che vede una stretta correlazione tra abbandoni e problemi affettivi. Il
71,2% dei casi analizzati, infatti, è strettamente connesso «a questioni nel
campo dei rapporti personali e dell’affettività». Fra quanti hanno lasciato, si
ritrova un 44,5% di sposati e un altro 15,7% di impegnati con altre persone,
«anche se non in tutti i casi tali rapporti erano anteriori o concomitanti con
la crisi».
Come interpretare questi dati? Può forse stupire il
fatto che il 65,5% di quanti hanno lasciato, aveva un livello molto alto di
soddisfazione nella propria vita e nella propria attività all’interno
dell’istituto. Anche la preghiera, la vita fraterna, l’attaccamento
all’istituto erano valori fortemente sentiti e vissuti da almeno il 66% dei
casi.
Ora tutto questo depone a favore del ruolo
determinante giocato dal problema affettivo. «Quando qualcuno si innamora,
scrive p. Oviedo, resta piuttosto poco spazio per una scelta razionale». Quando
ci si innamora viene immediatamente capovolta «la scala di valori che dominava
l’orizzonte di comprensione del singolo, e che serviva come base a ogni
scelta».
Proprio tenendo presenti i dati dell’indagine è
possibile tracciare un profilo standard del religioso che abbandona il proprio
istituto per ragioni affettive. Solitamente di tratta di un uomo tra i 30 e i
40 anni, che ha tra 5 e 10 anni di voti solenni o di ordinazione, che non ha
avuto cariche di responsabilità, che svolgeva un lavoro entro l’istituzione
religiosa, non aveva seguito altri studi, sentiva un livello di affetto
abbastanza grande per la sua provincia, era assai soddisfatto del suo lavoro,
poteva pregare più o meno, faceva abbastanza vita comune, era un buon
confratello, e che ha avuto problemi affettivi, si è innamorato e ha dovuto
lasciare la congregazione per legarsi ad un’altra persona e fondare una
famiglia.
IL CASO
NON È CHIUSO
Dopo aver analizzato e valutato criticamente
tipologie diverse, soprattutto di carattere psicologico, che consentono di
orientarsi di fronte ai possibili scenari di crisi, dopo aver esplorato modelli
teorici diversi esplicativi di questa crisi, come, ad esempio, l’analogia con
le decisioni di divorziare nei casi di coppie di sposati, p. Oviedo arriva alla
conclusione che sarebbe azzardato e ingenuo parlare di caso chiuso, «come se
tutti i problemi fossero stati risolti e a tutte le questioni vi fossero
risposte». I problemi, invece, sono aperti più che mai e su più fronti.
A livello metodologico, potrebbe destare una certa
perplessità il fatto di aver raccolto i dati facendo ricorso ad una terza
persona, e non invece con una intervista diretta all’ex-religioso. A parte le
ragioni di convenienza nel muoversi in questo modo, specialmente a Roma dove
risiedono molti consacrati di diverse nazionalità, volutamente si è pensato di
evitare testimonianze di carattere auto-giustificativo, ritenendo che quelle
fornite da altri potessero contenere informazioni più oggettive.
Parlando più specificamente di problemi aperti, è
doveroso chiedersi, anzitutto, fino a che punto sussista o meno una diretta
correlazione, in parte confermata dall’indagine stessa, tra mancanza del senso
di eccellenza dello stato religioso e il grande numero delle defezioni dopo il
Vaticano II. Sarebbe quanto mai utile verificare se un incremento
dell’auto-stima, o forse anche una diversa teologia della vita religiosa, sia
in grado o meno di migliorare gli indici di perseveranza degli istituti
religiosi maschili.
Inoltre ci si dovrebbe interrogare più a fondo, per
quanto riguarda sempre gli abbandoni, sul reale influsso dei fattori
ambientali: secolarizzazione, incremento delle opportunità per gli
ex-religiosi, ambiente sociale ed ecclesiale meno ostile nei loro confronti. È
un fatto, ad esempio, che il 56,6% di quelli che lasciano la vita religiosa non
hanno incontrato problemi per trovare un nuovo lavoro o per adattarsi ad una
nuova forma di vita. Se è facilmente documentabile un incremento significativo
delle defezioni dopo il Vaticano II, è altrettanto certo il numero sempre
significativo di abbandoni anche nei decenni precedenti. Solo che prima del
concilio, i fattori ambientali rendevano sicuramente più difficile una tale
scelta.
Il problema aperto più pressante, però, è quello di
sapere che cosa è possibile fare per ridimensionare eventualmente queste
emorragie.
Da subito, infatti, non si dovrebbero tralasciare
alcuni tentativi, come migliorare la formazione in vista di prevenire le
situazioni di crisi affettiva, fermare l’azione di certi battitori liberi con
effettive misure disciplinari, provare i livelli di rigore per aggiustarli ai
bisogni di protezione dell’impegno vocazionale, migliorare, infine, il senso di
eccellenza e di identità differenziata in rapporto agli altri stati di vita
cristiana. «Si ha l’impressione, osserva p. Oviedo, che in molti istituti il
tema affettivo sia stato affrontato negli ultimi anni in modo troppo ingenuo e
maldestro, malgrado i tanti rinforzi psicologici che in diverse occasioni si
sono applicati nel periodo di formazione». Anzi, a volte si ha l’impressione
«che tale ricorso può aver reso le cose ancora più difficili per le persone
sottoposte a ipotetiche tensioni e prove».
NESSUN VACCINO
ANTI-DEFEZIONE
Tra le cose da fare, non si dovrebbe, infine,
dilazionare più di tanto l’analisi di tutte le debolezze istituzionali che
possono incoraggiare possibili defezioni. Se è vero, come emerge dall’indagine
che, almeno in un terzo dei casi di abbandono, sussiste un senso di
insoddisfazione riguardo all’istituzione, allora è doveroso chiedersi se a
volte non ci sia stata una incapacità manifesta nell’adattare un quadro
istituzionale ereditato da altri tempi alla situazione attuale.
Dai dati dell’indagine emerge senza alcuna ombra di
dubbio uno stato di precarietà della vocazione religiosa. Quando si pensa che
la maggioranza degli ex-religiosi osservava fedelmente le regole della vita
comunitaria, allora non si può non osservare che «anche chi prega molto e chi
trattiene ottimi rapporti fraterni è soggetto al rischio di defezione».
Coltivare una buona vita di preghiera e curare i rapporti fraterni, è, certo,
molto importante, ma non è una patente di immunità dai rischi di una crisi
affettiva. È molto difficile trovare un vaccino anti-defezione. Se a posteriori
è facile trovare motivi che giustificano i fallimenti, a priori invece è facile
trovarsi di fronte a casi «per i quali nessuno prevedeva un tale esito, o
nessuno poteva spiegare perché quello se n’è andato, mentre quest’altro è
rimasto».
È ancora troppo diffuso, forse, un certo angelismo
tutte le volte che si fa riferimento alle fortissime dinamiche che presiedono,
anche solo a livello fisico, all’attrazione affettiva. «Soltanto una
considerazione antropologica più realista può ispirare orientamenti di
formazione e di spiritualità adatti a fronteggiare la crisi che vive la vita
religiosa». L’abbandono di ogni massimalismo e la ricerca di un maggior
equilibrio tra un eccessivo rigore e la troppa tolleranza e ingenuità, si
impongono ormai con sempre maggior urgenza.
E questo va detto partendo proprio dalla
convinzione che la crisi della vita consacrata «non manifesta una specie di
destino ineluttabile». Se i segni dei tempi possono essere segni di vita o di
morte, di grazia o di peccato, allora è il caso di convincerci che i segni
negativi di morte e di peccato «rivelano piuttosto le mancanze e gli errori in
un determinato tempo nella vita religiosa».
La conclusione a cui giunge p. Oviedo fa seriamente
riflettere. Se si può fare abbastanza per avere nuove vocazioni, si può fare
invece piuttosto poco per evitare gli abbandoni che oggi si aggirano
nell’ordine del 20% dei giovani consacrati. Solo assumendo tutte le misure che
favoriscono una convocazione più ampia e una risposta maggiore, si può sperare
che «la formazione e la naturale selezione rendano i consacrati fedeli al
carisma che hanno scoperto e abbracciato, e che la vita religiosa possa
sopravvivere».
Angelo Arrighini
1 Perché lasciano la vita consacrata. Un’indagine
empirica, in Antonianum LXXVIX (2004) 79-100.