STATO VEGETATIVO
E DIGNITÀ DELLA PERSONA
Importante
presa di posizione del papa al congresso internazionale su “I trattamenti di
sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e
dilemmi etici” (17-20 marzo 2004, Augustinianum).
(…) Di fronte a un paziente in simili
condizioni cliniche (n.d.r. in stato vegetativo), non manca chi giunge a
mettere in dubbio il permanere della sua stessa “qualità umana”, quasi come se
l’aggettivo “vegetale” (il cui uso è ormai consolidato), simbolicamente
descrittivo di uno stato clinico, potesse o dovesse essere invece riferito al
malato in quanto tale, degradandone di fatto il valore e la dignità personale.
In questo senso, va rilevato come il termine in parola, pur confinato
nell’ambito clinico, non sia certamente il più felice in
riferimento a soggetti umani.
In opposizione a simili tendenze di pensiero, sento il dovere di
riaffermare con vigore che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le
circostanze concrete della sua vita. Un uomo, anche se gravemente malato o
impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo,
mai diventerà un “vegetale” o un “animale”.
Anche i nostri fratelli e sorelle che si trovano nella condizione clinica
dello “stato vegetativo” conservano tutta intera la loro dignità umana. Lo
sguardo amorevole di Dio Padre continua a posarsi su di loro, riconoscendoli
come figli suoi particolarmente bisognosi di assistenza.
Verso queste persone, medici e operatori sanitari, società e Chiesa
hanno doveri morali dai quali non possono esimersi, senza venir meno alle
esigenze sia della deontologia professionale che della solidarietà umana e
cristiana.
L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del
recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria
di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla
prevenzione delle complicazioni legate all’allettamento. Egli ha diritto anche
ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa.
In particolare, vorrei sottolineare come la
somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali,
rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto
medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio,
ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in
cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che
nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento
delle sofferenze.
L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in
simili casi” comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e
idratazione. La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di
recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione
delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La
morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito
alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se
consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una
vera e propria eutanasia per omissione.
A tal proposito, ricordo quanto ho scritto
nell’enciclica Evangelium vitae, chiarendo che “per eutanasia in senso vero e
proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle
intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”; una tale
azione rappresenta sempre «una grave violazione della Legge di Dio, in quanto
uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (n. 65).
Del resto, è noto il principio morale secondo cui anche il semplice
dubbio di essere in presenza di una persona viva già
pone l’obbligo del suo pieno rispetto e dell’astensione da qualunque azione
mirante ad anticipare la sua morte.
5. Su tale riferimento generale non possono prevalere considerazioni
circa la “qualità della vita”, spesso dettate in realtà da pressioni di
carattere psicologico, sociale ed economico.
Innanzitutto, nessuna valutazione di costi può prevalere sul valore del
fondamentale bene che si cerca di proteggere, la vita umana. Inoltre, ammettere
che si possa decidere della vita dell’uomo sulla base di
un riconoscimento dall’esterno della sua qualità, equivale a riconoscere che a
qualsiasi soggetto possano essere attribuiti dall’esterno livelli crescenti o
decrescenti di qualità della vita e quindi di dignità umana, introducendo un
principio discriminatorio ed eugenetico nelle relazioni sociali.
Inoltre, non è possibile escludere a priori che la sottrazione
dell’alimentazione e idratazione, secondo quanto riportato da seri studi, sia
causa di grandi sofferenze per il soggetto malato, anche se noi possiamo
vederne solo le reazioni a livello di sistema nervoso autonomo o di mimica. Le
moderne tecniche di neurofisiologia clinica e di diagnosi cerebrale per
immagini, infatti, sembrano indicare il perdurare in questi pazienti di forme
elementari di comunicazione e di analisi degli
stimoli.
Non basta, tuttavia, riaffermare il principio generale secondo cui il
valore della vita di un uomo non può essere sottoposto ad un giudizio di
qualità espresso da altri uomini; è necessario promuovere azioni positive per contrastare le pressioni per la sospensione
della idratazione e della nutrizione, come mezzo per porre fine alla vita di
questi pazienti.
Occorre innanzitutto sostenere le famiglie, che hanno avuto un loro caro
colpito da questa terribile condizione clinica. Esse non possono essere
lasciate sole col loro pesante carico umano, psicologico ed economico…
L’assistenza appropriata a questi pazienti e alle loro famiglie
dovrebbe, inoltre, prevedere la presenza e la testimonianza del medico e
dell’équipe assistenziale, ai quali è chiesto di far
comprendere ai familiari che si è loro alleati e che si lotta con loro; anche
la partecipazione del volontariato rappresenta un sostegno fondamentale per far
uscire la famiglia dall’isolamento ed aiutarla a sentirsi parte preziosa e non
abbandonata della trama sociale.
In queste situazioni, poi, riveste particolare importanza la consulenza
spirituale e l’aiuto pastorale, come ausilio per recuperare il significato più
profondo di una condizione apparentemente disperata.
In conclusione vi esorto, come persone di scienza, responsabili della
dignità della professione medica, a custodire gelosamente il principio secondo
cui vero compito della medicina è di guarire se possibile, aver cura sempre (to
cure if possibile, always to care).
A suggello e sostegno di questa vostra autentica missione umanitaria di
conforto e di assistenza verso i fratelli sofferenti,
vi ricordo le parole di Gesù: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”
(Mt 25,40).