I MISSIONARI/E DELLA CONSOLATA IN MONGOLIA
UNA SCELTA PIENA DI CORAGGIO
La scelta di andare in
Mongolia risponde alla decisione del X capitolo generale di avere un’attenzione
privilegiata per l’Asia, il continente più popolato del mondo e con meno
presenza cristiana, ove s’incontrano grandi religioni e paesi immersi nella
povertà. Insieme missionari e missionarie.
Il beato Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dei missionari e
missionarie della Consolata, soleva dire: «Ci vuol fuoco per essere apostoli!».
Questo fuoco, non solo non minaccia di spegnersi, ma porta oggi
l’istituto (IMC) a tentare l’avventura dell’evangelizzazione assieme alle
Missionarie (MC) nel continente asiatico, precisamente in Mongolia,1 celebrando
con questa nuova apertura un secolo di missione ad gentes. Padre Piero
Trabucco, superiore generale, in una lettera del 15 novembre 2003, riflette su
questa iniziativa e ne spiega le ragioni, in un momento in cui il calo
numerico, l’invecchiamento e la mancanza di vocazioni sembrerebbero consigliare
una “prudenza” che però non fa parte della parresia evangelica né dello spirito
dell’istituto.
Il senso del progetto Mongolia è pienamente espresso dall’invio
missionario che il card. Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli, ha fatto nel santuario della Consolata a Torino,
il giorno di Pentecoste del 2002. Dopo avere ricordato i cento anni dalla
partenza dei primi missionari per il Kenya, egli così esortava nella sua
omelia: «L’Asia ha bisogno di missionari. Questi fratelli e sorelle che oggi
ricevono il crocifisso andranno con lo stesso spirito con cui sono partiti i
primi quattro, cent’anni fa: portando con loro solo la fede, il coraggio di
Cristo, la santità dello Spirito che rende testimoni autentici dell’amore...
Partite per l’Asia perché il mondo intero possa glorificare Dio che ci è Padre,
che ha mandato il Figlio e ci ha donato lo Spirito».
LA LEZIONE
DELLA MONGOLIA
Padre Trabucco nella lettera afferma: «La Mongolia sta già offrendo
all’istituto una lezione, ancora prima che i nostri confratelli abbiano dato il
via alla loro attività missionaria». Quindi immagina alcune domande che questa
scelta ha già suscitato e può legittimamente ancora suscitare.
Alla prima espressa in forma provocatoria – Perché una nuova apertura
quando l’istituto non sta crescendo numericamente? – risponde richiamando il X
capitolo generale dell’IMC: «L’annuncio del vangelo a popoli e gruppi umani non
ancora evangelizzati, con preferenza per quelli più bisognosi e trascurati, sta
al primo posto tra le attività corrispondenti al nostro fine (cf. Cost. 17). In
questo contesto il capitolo riserva un’attenzione privilegiata all’Asia, perché
è il continente più popolato del mondo e con meno presenza cristiana, ove
s’incontrano le grandi religioni e paesi immersi nella povertà. I documenti
stessi della Chiesa invitano a scegliere l’Asia con urgenza come priorità della
missione ad gentes (cf. RM)». Questa motivazione si radica nell’intuizione del
fondatore che sognava i suoi missionari costantemente in moto per evangelizzare
il mondo: «L’opera è sua, il Signore l’ha benedetta… io non vedrò, ma forse
andrete anche nel Giappone, Tibet; come san Francesco Saverio che voleva girare
dalla Cina, alla Russia, alla Germania, e convertire tutto il mondo» (Conf. I,
610).
Da qui la necessità di recuperare il valore dell’itineranza: «(Il
missionario) va, predica, forma comunità e poi si dirige altrove verso nuovi
lidi e frontiere alla ricerca di un ad gentes che mai mancherà. La stessa
itineranza è pertanto anche una componente essenziale di ogni istituto
missionario, il quale deve mantenere sempre fisso il suo sguardo verso nuovi orizzonti,
se vuole essere fedele alla propria indole missionaria. Compiuta la sua opera,
egli si ritira o ridimensiona la sua presenza in un dato paese o chiesa per
rivolgersi altrove, senza attendere la piena maturazione della sua
seminagione». A questo proposito p. Trabucco ricorda quanto scriveva Marion
Brésillac, fondatore della Società delle missioni africane: «Missionario
apostolico, tu non sei né parroco, né vescovo del luogo che amministri. Più a
lungo vi dimorate, più vi dovete umiliare davanti a Dio, poiché è una prova che
Dio non ha benedetto i vostri sforzi. Lo sbaglio forse non dipende da te, ma
forse tu non puoi esimerti dal fare qualche rimprovero. Felice il missionario
che fonda chiese, e appena le vede stabilite corre altrove per fondarne delle
nuove!». E cita anche, su questa linea, il beato Paolo Manna: «Si dice che i
missionari sono e sono stati pochi; ma chi si avvede che la quasi totalità dei
missionari oggi sparsi pel mondo sta facendo un lavoro che dovrebbe essere
fatto dai sacerdoti indigeni? Se i missionari facessero i missionari e non i
parroci, essi non sarebbero pochi».
Il secondo interrogativo – Perché andiamo in Mongolia se non ci sono
cristiani? – p. Trabucco dice di averlo ascoltato da più di un confratello
preoccupato del peso di tante attuali comunità. «La risposta è talmente ovvia
da appartenere all’abc del nostro credo missionario: andiamo in Mongolia
proprio perché non ci sono cristiani! L’istituto è stato fondato per
evangelizzare i non cristiani e per la stessa ragione ciascuno di noi ha deciso
di diventare missionario della Consolata. I cento anni di vita dell’istituto
hanno accresciuto il ventaglio di scelte apostoliche in ambito cristiano; la
seminagione fatta nei primi tempi in tanti paesi dell’Africa è diventata oggi messe
rigogliosa; l’aiuto alle chiese in necessità, soprattutto in America, ci ha
spinto ad assumere la cura pastorale di comunità cristiane numerose. E così, a
poco a poco e quasi inavvertitamente, quello che doveva essere un servizio
temporaneo è diventato la nostra maniera abituale di fare missione, al punto
che ci stupiamo perfino se l’istituto decide ora di dare una decisa sterzata
nel senso giusto, cioè verso i non cristiani… I cristiani in Mongolia sono poco
più di un centinaio, pertanto la preoccupazione prima e precipua dei nostri
missionari sarà quella di annunciare Cristo e testimoniarne il Vangelo a coloro
che non lo conoscono. Sarà inizialmente questa la loro esclusiva area di
attività e l’obiettivo primo di ogni loro preoccupazione apostolica».
INSIEME
“A MANI VUOTE”
La terza domanda – Perché una fondazione assieme alle missionarie della
Consolata? – permette di riflettere ancora sull’intuizione originaria: «Il
comune fondatore volle che la missione si compisse al maschile e al femminile.
Con la fondazione dell’istituto delle missionarie della Consolata, egli
intendeva ottenere una complementarietà feconda per l’evangelizzazione e anche
per lo spirito di famiglia e l’unità di intenti con cui voleva si compisse… non
possiamo più programmare la nostra missione di oggi e di domani senza mettere
il massimo impegno perché essa si esprima “al maschile e al femminile”. Questa
complementarietà deve essere perseguita da noi come un grande valore che tocca
la nostra stessa identità, così come volle il beato Allamano».
Così il progetto della Mongolia dovrà nascere e svilupparsi con il
rispetto di alcuni criteri: a) ogni aspetto va studiato fin dall’inizio di
comune accordo e va poi accompagnato in unità di intenti in tutte le sue fasi
di realizzazione; b) va sempre rispettata una reale parità delle donne e degli
uomini; c) va ricercata e rispettata la dimensione della complementarietà.
«La Mongolia, afferma p. Trabucco, ci fa intravedere come possano
esistere nel futuro del nostro istituto altre vie per fare missione, diverse
forse da quelle passate e realizzate in altri continenti, il cui significato
trova la sua ragion d’essere nella parabola evangelica del seme che cade in
terra e muore per dare vita, oppure in quella del lievito posto nella farina
che, scomparendo, fa lievitare una grande quantità di pasta. La chiesa
costituisce senza dubbio un’infima minoranza in Mongolia. Tale realtà
costituisce una situazione di privilegio, se vogliamo osservarla partendo
dall’ottica evangelica, che difficilmente possiamo riscontrare invece in altri
continenti dove svolgiamo attualmente la nostra missione. Tale situazione
spinge a puntare tutta l’attenzione sulla qualità della vita e della azione
apostolica più che sui numeri. Essa esige cioè il massimo impegno perché ciascuno
sia sale che dà sapore e seme che genera vita. Se l’Asia è il continente
missionario del ventunesimo secolo – come è stato detto più volte e ribadito da
più parti nei documenti della Chiesa – ne consegue che questo è il nuovo metodo
della missione con cui dobbiamo sempre più familiarizzarci e che anche il
nostro istituto deve poco a poco imparare».
Questa missione, caratterizzata da piccolezza e modestia, sottolinea e
favorisce anche un’altra importante dimensione dell’evangelizzazione: «Fare
missione quando non siamo noi la forza determinante o il gruppo egemonico
spinge spontaneamente ad allacciare ponti con tutte le forze vive della chiesa,
iniziando dal vescovo, dai sacerdoti e religiosi, dal laicato attivo, fino a
includere tutto il popolo di Dio. Con loro ci sentiamo allora chiesa viva e
ricca di tanti carismi diversi, ma sempre un solo corpo. Quello che manca a noi
in personale e in mezzi apostolici lo troviamo presente in altre forze e realtà
ecclesiali».
Alla luce di tutto ciò, nell’ultima parte della lettera, p. Trabucco si
interroga sulla strategia necessaria per una missione tanto diversa da quella
condotta finora: «Dobbiamo confessare che di fronte all’enigma della Mongolia
ci sentiamo veramente “a mani vuote”… In Asia il nostro istituto ha solo
un’esperienza limitata alla Corea, mentre della realtà della Mongolia non ha
alcuna conoscenza. Eppure il cuore ci dice che questa situazione deve essere da
noi considerata un “vantaggio” perché ci permette di avviare questa missione in
umiltà, in punta di piedi, veramente come persone che vanno a mani vuote, ma
che allo stesso tempo sono tanto desiderose di imparare».
L’accento va messo allora su qualità e stile di vita, sugli
atteggiamenti d’animo che permettono di crescere in una spiritualità missionaria
per l’Asia. Si sottolineano in questo senso due dimensioni. In primo luogo uno
sguardo attento e contemplativo: «Esso ci permette di percepire con chiarezza
che quella missione è il Signore che ce l’ha preparata. È lui che ha guidato i
nostro passi verso quel paese e quel popolo. Dobbiamo pertanto continuare a
interrogare costantemente il Signore, nella preghiera e nel discernimento
comunitario, per avere da lui indicazioni utili sui sentieri da intraprendere,
su quelli cioè che lui vuole da noi. Questo sguardo attento e contemplativo ci
permetterà di leggere attorno a noi i “segni” che rivelano il suo intento e la
sua volontà. Certamente sarà esigente il cammino di purificazione che viene
richiesto, perché tante possono essere le certezze che dovranno lasciare luogo
al solus Deus, a quel silenzio paziente di fronte a Dio, proprio della mistica
orientale. Paradossalmente questa fede in Dio ci porterà ad appoggiarci su chi
ha percorso il cammino prima di noi, sulla chiesa locale e sulle intuizioni che
possono venire da coloro che hanno più esperienza di noi. L’Asia, forse più di
ogni altra missione, ci fa sentire che non siamo mai protagonisti ma sempre e
solo dei collaboratori».
La seconda dimensione è quella di una spiritualità “a mani vuote” che consiste
nell’apertura al dialogo. Un dialogo che, a partire dalla cura del rapporto
quotidiano con Dio nell’ascolto della sua Parola, permette di guarire dalle
forme di egoismo e dalle chiusure che nascono inesorabilmente nella vita
missionaria e apre positivamente a tutte le realtà circostanti. La chiesa
dell’Asia richiede la spiritualità del dialogo come prerequisito indispensabile
per l’evangelizzazione: il dialogo con i poveri che consiste non solo
nell’essere solidali con chi è nel bisogno ma nel sapere cogliere nel loro
gemito o nella loro protesta la Parola stessa di un Dio liberatore che
interpella e chiama a conversione; il dialogo con le culture come impegno di
tutta la vita e che richiede di vivere con simpatia il linguaggio, il cibo, i
rapporti umani, i costumi familiari, le tradizioni filosofiche e mistiche; il
dialogo con le religioni che significa non solo conoscere le religioni della
gente con la quale viviamo, ma sapere trovare in esse la parola di Dio che
parla. Vivere la fede cristiana in profondità significa viverla in questa
atmosfera di apertura sincera e fraterna con coloro che aderiscono ad altre
convinzioni religiose, cercando di incontrare il Dio di questi fratelli e
sorelle, di gioire di fronte alla sapienza dei loro libri sacri, di apprezzare
la varietà di culto al Dio di ogni persona.
Le scelte dei missionari e delle missionarie della Consolata
costituiscono un invito, per tutti gli istituti che attraversano le stesse
difficoltà a ravvivare la coscienza di una vita consacrata che si spende fino
in fondo e con coraggio nelle nuove frontiere dell’evangelizzazione, ricordando
che a rinnovare la vita consacrata, prima ancora di qualsiasi altra strategia,
è proprio la missione.
Mario Chiaro
1 La Mongolia è una repubblica popolare con una superficie di 1.588.500
kmq e una popolazione di circa due milioni e mezzo di abitanti. Dal punto di
vista religioso è costituita da lamaisti (seguaci del buddismo tibetano) per il
96% e da un 4% di musulmani. I cristiani sono poco più di un centinaio.