CONGRESSO INTERNAZIONALE SULLA VITA CONSACRATA
TRA SFIDE E OPPORTUNITÀ
Nelle icone della
samaritana e del samaritano sono state individuate le sfide e le opportunità
per la vita consacrata del futuro. Se il vino è “nuovo”, gli otri, spesso, sono
ancora “vecchi”. Da questo congresso una fiduciosa attesa di “rifondazione” e
di rivitalizzazione della vita
consacrata per rispondere, oggi, alle attese dello Spirito.
A dieci anni dalla celebrazione del sinodo dei vescovi sulla
vita consacrata, l’Unione dei superiori generali si sta preparando a tenere a
Roma, per il prossimo mese di novembre, un congresso internazionale per
continuare la riflessione e il discernimento sviluppatisi in quell’assise, alla
luce dei cambiamenti avvenuti in questi anni. Come tema, dopo aver ascoltato
suggerimenti giunti da ogni dove, è stato scelto Passione per Cristo, Passione
per l’umanità.
Non sarà una semplice commemorazione. Si terrà con lo
sguardo rivolto in avanti. L’obiettivo centrale di questo Congresso infatti,
come leggiamo nello strumento di lavoro reso pubblico lo scorso mese di
febbraio, «è discernere insieme, con una consapevolezza globale, cosa sta
facendo nascere tra noi lo Spirito di Dio, verso dove ci conduce e, di
conseguenza, come rispondere alle sfide del nostro tempo e costruire così il
Regno di Dio per l’utilità comune».
Il congresso è una pietra miliare nella storia della vita
consacrata. «Siamo mondo, Chiesa e vita consacrata, osserva lo strumento di
lavoro, e sperimentiamo, assieme all’esuberanza della vita, terribili segni di
morte. Lo Spirito ci conduce verso le fonti della vita e, al tempo stesso,
verso quelle sorelle e quei fratelli che giacciono prostrati e moribondi lungo
la strada».
Senza una radicale rivilitazzazione sarà però difficile
scoprire le fonti della vita.
Il criterio centrale che ha guidato la stesura del documento
è suggerito dalle quattro grandi fedeltà ben note fin dai tempi del concilio:
fedeltà all’uomo e al nostro tempo, fedeltà a Cristo e al Vangelo, fedeltà alla
Chiesa e alla sua missione nel mondo, fedeltà alla vita religiosa e al carisma
proprio dell’istituto. Questa fedeltà oggi, però, è costantemente sfidata da
diversi fenomeni nuovi quali la globalizzazione con le sue ambiguità e i suoi
miti, la mobilità umana con i suoi fenomeni migratori e i suoi processi
accelerati, il sistema economico neoliberista ingiusto e destabilizzante, la
cultura di morte e la lotta per la vita con tutte le sfide della biotecnologia
e l’eugenetica, il pluralismo e la crescente differenziazione, gli aspetti
della mentalità postmoderna, la sete di amore e il “disordine amoroso” e
affettivo, la sete di sacro e il materialismo secolarizzato.
SFIDE
E OPPORTUNITÀ
Tutte queste sfide «ci collocano in un campo di tensioni e
forze contrapposte che non possiamo dimenticare né trascurare». Ma dove ci sta
seriamente conducendo lo Spirito in questo “novo millennio ineunte”? Quali
opportunità ci offre per crescere, innovare e rifondare la vita consacrata?
Quali decisioni pratiche ci ispira per crescere e irrobustirci? Verso quali
processi di formazione ci sta lanciando? Quali difficoltà o ostacoli dobbiamo
affrontare? Dietro tutti questi interrogativi si celano non solo delle sfide,
ma anche delle opportunità straordinarie. La globalizzazione, ad esempio,
potrebbe rivelarsi come una possibilità reale non solo di inculturazione e di
contestualizzazione dei più diversi carismi, ma anche di una più stretta
collaborazione inter-congregazionale.
Di fronte a tutti i flussi migratori che stanno cambiando il
volto delle nostre nazioni, la vita consacrata ha oggi l’opportunità «di
incontrarsi con la persona umana nella sua mobilità, di condividere con tanti
uomini e donne lo sradicamento della propria identità culturale e il processo
di adattamento e creazione di nuove sintesi», anche a costo di dover affrontare
una profonda ristrutturazione del proprio stile di vita, della sua mentalità e
dei suoi programmi.
Quanto spesso anche le persone consacrate rischiano oggi di
rimanere coinvolte nei sempre più numerosi processi di economia non solidale!
Anche questa è una sfida che mette seriamente alla prova «la verità della
nostra solidarietà nei confronti dei poveri, degli esclusi e di coloro che
vedono minacciato il loro diritto alla vita e all’impegno per la loro
liberazione». Perché allora non sentirsi provocati da tanti sistemi economici
ingiusti, fino al punto da «confrontare il nostro stile di vita con il Vangelo
e con le necessità urgenti dei poveri, di istaurare un’economia solidale verso
di loro e critica verso il sistema economico vigente, di mettere le nostre
risorse e istituzioni al servizio dei poveri e della protezione della natura,
partecipando attivamente alla difesa e promozione della vita, della giustizia e
della pace, collaborando con altre organizzazioni religiose o civili?».
Sono sotto gli occhi di tutti i segni di violenza e di morte
del mondo attuale. La vita del pianeta è minacciata dall’inquinamento e
mancanza d’acqua, dalla deforestazione, dai rifiuti tossici. La vita umana è
sempre più compromessa, dal suo concepimento fino alla morte, dall’aborto,
dalla violenza contro donne e bambini, dalla violenza sessuale, dai
totalitarismi, dal terrorismo, dalle guerre, dalla pena di morte,
dall’eutanasia. Le fonti stesse della vita e della fecondità senza scrupoli e
al di fuori di ogni criterio etico, sono quotidianamente manipolate. Anche
questa drammatica situazione apre a nuove opportunità, soprattutto ai tanti
consacrati impegnati nel campo della sanità. Non è possibile vivere senza
sentirsi profondamente coinvolti da questa situazione. «Dobbiamo restare
vigili, per non essere corresponsabili di una cultura di morte. I nostri
programmi apostolici non avranno senso se non ci stimolano a servire con
maggiore dedizione coloro che vivono una vita menomata e non ci spingono a
instaurare una vera cultura della vita».
Oggi, molto più che non in passato, siamo sensibili alle
differenze etniche, culturali, religiose, generazionali e di sesso. La vita
consacrata accogliendo la pluralità e la diversità, è chiamata «ad essere
plurale e diversa nei suoi membri e nei carismi che lo Spirito concede». Non è,
perciò, più possibile sentirsi a proprio agio «in sistemi ecclesiastici o
sociali uniformi, monoculturali e non partecipativi o aperti». La sfida del
dialogo, a tutti i livelli, dovrebbe pertanto configurare il nuovo stile di
vita consacrata, proprio partendo dalla consapevolezza che «anche nella nostra
vita si impongono spesso alcune forme culturali, alcuni modi di agire, alcuni
fanatismi etnici e di casta».
Quanto spesso anche la vita e la missione delle persone
consacrate recepiscono le conseguenze negative della cosiddetta mentalità
postmoderna, una mentalità che tende a relativizzare tutto, a favorire
l’emozione e la provvisorietà! Ma anche questa sfida può trasformarsi
nell’opportunità di riconoscere i propri limiti, evitando i trionfalismi di
altri tempi. Il senso di provvisorietà e la difficoltà culturale della
stabilità «potrebbero anche portarci a studiare la possibilità di forme di vita
consacrata ad tempus, senza dover necessariamente bollare come disertori quanti
pensassero, a un certo punto, di cambiare strada.
Si avverte nel mondo di oggi una profonda sete di amore e di
intimità, sentimenti che si esprimono «in modi così diversi che a volte ci
sconcertano». Quanto spesso, però, il dialogo dell’amore «risulta molto
difficile e sempre più spesso viene interrotto o addirittura fallisce e sfocia
nell’egocentrismo». La crisi dell’istituzione matrimoniale e familiare è quanto
mai evidente. Sono comparse pian piano altre possibilità di relazione tra le
persone di diverso e dello stesso sesso. Tutto questo ingenera un “disordine
amoroso” difficile da gestire. La Chiesa giustamente si rammarica che il suo
messaggio e la sua dottrina non siano sufficientemente accolti e seguiti, non
solo dalla società, ma dagli stessi fedeli. Anche i religiosi non possono non
sentirsi interessati e coinvolti da questa situazione, sia nel vivere il
celibato o la castità consacrata, che nei rapporti interpersonali e comunitari.
I frequenti abbandoni, gli scandali sessuali e l’immaturità affettiva stanno a
indicare la profonda insoddisfazione in cui vivono tanti consacrati e la
mancanza reale di mezzi per superare tutti gli ostacoli e gli impedimenti in
proposito.
La riflessione antropologica e teologica, dal canto suo, non
può limitarsi solo al tema e ai problemi relativi al celibato o alla vita di
comunità. Ci sono numerosi altri campi a cui deve estendere la sua riflessione
e la sua attenzione: da quello della formazione e delle vocazioni, a quello dei
molteplici rapporti interpersonali, delle forme di governo e di organizzazione,
del linguaggio. «Se non si presta attenzione al substrato umano che deve
sostenere la vita consacrata ci si può facilmente ritrovare a costruire sulla
sabbia».
Ultimo problema, ma non meno importante, è quello del
materialismo secolarizzato da una parte e quello della sete di sacro e di
spiritualità dall’altro. Se questo tema viene richiamato solo alla fine, una
ragione c’è. Qui, infatti, «sta la chiave che dà senso» a tutto il resto. Da
una spiritualità sana e vigorosa, infatti, «nascono le migliori prospettive per
un autentico rinnovamento della vita consacrata oggi e per una rivitalizzazione
della sua missione». Da molti segnali si avverte in un mondo secolarizzato come
il nostro, una forte sete di sacro, un desiderio di spiritualità, una ricerca
di senso e di trascendenza. Quante volte però, anche nella Chiesa e nella vita
consacrata il secolarismo dell’ambiente circostante «favorisce una deviazione
idolatrica che si esprime nel culto dei mezzi, dei potenti, delle istituzioni, dell’abito,
dei riti, delle leggi, che rendono sempre più difficile la conversione
all’unico assoluto e necessario e alla passione per il Dio del regno e per il
regno di Dio». Da qui allora l’opportunità di un recupero della propria
identità, di una nuova creatività evangelizzatrice, di una spiritualità
all’altezza delle sfide e delle aspettative delle donne e degli uomini del
nostro tempo. Solo a partire da una profonda esperienza di vita nello Spirito
si può incoraggiare e animare una nuova tappa della storia della venuta del
regno di Dio e della storia della vita consacrata.
BLOCCHI
E IMPEDIMENTI
Se sfide da una parte e opportunità dall’altra sembrano
pareggiare i conti, sappiamo tutti comunque quanto sia difficile o anche
impossibile «camminare nella direzione che lo Spirito ci indica». La vita
consacrata, infatti, «è in ritardo, è frenata e bloccata da diversi ostacoli e
impedimenti», alcuni dei quali provengono da noi stessi e altri dalla Chiesa e
dal mondo in cui viviamo.
I nostri istituti sono spesso bloccati dai limiti delle
persone che li compongono. Il progressivo invecchiamento delle persone e delle
istituzioni, la provenienza delle nuove vocazioni, a volte vittime di traumi
familiari o sociali, e inadeguatamente accolte e accompagnate nei processi
formativi, il sovraccarico di lavoro, la superficialità nel discernimento o la
mancanza di una formazione iniziale e di una formazione permanente serie,
«limitano molto la nostra capacità di risposta alle sfide dei nostri tempi».
Troppo spesso i programmi stilati in tanti autorevoli documenti vanno «al di là
delle possibilità reali» e non raramente sono all’origine di utopie irreali.
Tutto questo poi rischia di ingenerare «sensi di ansia e di frustrazione». Non
si dovrebbe mai dimenticare che «i solenni proclami teorici e il linguaggio
poco vicino alla vita rivelano più una astuzia mondana che saggezza
evangelica». Anche un sempre più diffuso stile di vita borghese come la
mancanza di semplicità evangelica «soffocano la nostra disponibilità e il
nostro spirito missionario, offuscano il nostro sguardo contemplativo, ci
rendono insensibili nei confronti dei poveri e degli esclusi ed impediscono
un’autentica vita in comunione».
Il coinvolgimento diretto o indiretto in scandali a sfondo
sessuale, in scandali economici o in abusi di potere, quante volte «ci toglie
credibilità, autorità morale ed evangelica e paralizza la realizzazione dei
nostri progetti». Non è possibile chiudere un occhio su questi fatti gravi,
dalle conseguenze imprevedibili.
È facile, infatti, convincersi «che tutto ciò mette in
discussione il senso della radicalità evangelica della vita consacrata laddove
dovrebbe brillare con particolare intensità».
C’è ancora troppa paura del rischio, una paura che non solo
blocca l’azione dello Spirito e porta a cercare posizioni sicure, ma «ci rende
tradizionalisti, conservatori, chiusi al rinnovamento e all’innovazione».
Purtroppo quando i superiori si lasciano prendere dalla paura, «nasce una
leadership debole, compiacente con tutto e con tutti e, pertanto, indecisa, o
troppo sottomessa alle rispettive autorità superiori; in una parola, una
leadership più disposta a compiacere che ad agire». In questo modo però
«diventa difficile sia l’esercizio evangelico dell’autorità che quello
dell’obbedienza». Dispiace certo dover prendere atto di come manchino
attualmente uomini e donne «con la sufficiente autorità morale per guidare le
comunità in fedeltà creativa al carisma».
Nonostante tutto il rinnovamento postconciliare della vita
consacrata, «i gruppi conservatori impongono le loro leggi riguardo a certi
aspetti della vita e a certi luoghi; fanno sì che il carisma collettivo diventi
abitudinario e decadente». Le persone creative e innovatrici «sono guardate con
sospetto e controllate». Le uniche concessioni sono «certi adattamenti
superficiali che non attentino allo status quo. Chi non vede come, in questo
modo il vino nuovo continua a essere versato in otri vecchi. Purtroppo «la
paura ci fa cercare sicurezze che ci portano a chiuderci nel nostro mondo – religioso
o ecclesiastico, provinciale o nazionale –, ad attaccarci in modo smisurato
alla nostra lingua o alla nostra cultura e ad isolarci nella nostra tradizione
carismatica o religiosa». Con quali conseguenze? «Diventiamo ciechi e incapaci
di scoprire i segni dello Spirito e uccidiamo ogni iniziativa e creatività per
rispondere alle grandi urgenze del nostro tempo». Dov’è finito il soffio con il
quale il Vaticano II aveva cercato di infondere nella vita consacrata «audacia
e lucidità per essere fedeli al vangelo»?
Se è vero che nella Chiesa oggi la vita consacrata trova
nuovi spazi di vita e di crescita, è altrettanto certo, però, che si sente
bloccata «lì dove vige un sistema ecclesiastico chiuso, che diffida e sospetta
della libertà evangelica», la sola capace di animarla, sia a livello di Chiesa
universale che di chiese particolari. Troppe volte la vita consacarata «si
sente messa in disparte rispetto ad altri gruppi più docili e di fatto poco
apprezzata». In alcuni posti «le sue iniziative e le sue opere sono ostacolate
e discriminate». Così succede che «se sceglie di uniformarsi a questa
situazione, perde la sua parte più profetica; se sceglie di esercitare il suo
profetismo, si vede esclusa».
Nonostante tutti questi ostacoli, «il nostro tempo è il tempo
del Dio dell’Alleanza, del Dio sempre più grande, che con i suoi doni supera i
nostri desideri». Se è vero che i consacrati oggi vivono momenti cruciali,
nell’umanità e nella Chiesa, devono prendere decisioni di grande importanza per
l’immediato futuro, si trovano di fronte a scelte decisive quali: incoraggiare
la vita o ostacolarla, crescere nella comunione o creare ulteriori distanze,
allora «non c’è tempo da perdere». A nuove situazioni, nuove risposte, purché
radicate nella vita reale e alimentate dal contatto con la parola di Dio che
incessantemente «illumina, provoca, educa, purifica, guida ed offre nuove
ispirazioni». Se è vero che il momento che sta vivendo la vita consacrata non è
forse il migliore della sua storia, non è, però, neanche il peggiore.
Semplicemente «è il nostro momento: quello che ci è dato da vivere e da
affrontare con una fede che agisce grazie alla carità e rende possibile la
speranza».
Non è più possibile muoversi secondo un ideale di vita
consacrata che sia troppo distante dalla realtà, né dimenticare quest’ultima
per parlare del futuro, prescindendo dal contesto reale. Tanto meno è possibile
«organizzare il futuro prima ancora che lo stesso diventi presente, seguendo un
paradigma ormai superato». Sarà bene allora «recuperare la capacità di reale
rivitalizzazione dei modelli che si propongono, accettando di procedere con
soluzioni fragili e provvisorie, senza voler tutto stabilire» fin dall’inizio.
LA SAMARITANA
E IL SAMARITANO
Dopo aver analizzato le sfide e tutte le relative
opportunità che si offrono alla vita consacrata, dopo aver guardato con
coraggio all’interno dei tanti blocchi che sembrano spesso immobilizzarla su un
passato ormai lontano, prima di chiedersi in che direzione muoversi verso il
futuro, l’Instrumentum laboris si sofferma brevemente nella contemplazione
delle due icone bibliche, quella della samaritana al pozzo di Giacobbe e quella
del buon samaritano in cammino verso Gerico, proposte come icone di riferimento
per tutti i lavori del congresso. Entrambe le icone «possono ispirare anche
oggi, all’inizio di questo nuovo secolo, il nostro discernimento e darci nuove
prospettive e orientamenti sapienziali».
Contro il pregiudizio – diffuso ai tempi di Gesù – secondo
il quale non ci si sarebbe aspettato da un samaritano o da una samaritana una
condotta conforme alla volontà di Dio, questi due protagonisti sono coinvolti
in un processo di trasformazione capaci di ispirare la vita consacrata di oggi.
In entrambe le icone, infatti, «la vita consacrata, quella femminile come
quella maschile, vede riflessa la propria avventura spirituale di passione per
Dio e di compassione per l’essere umano».
Nell’icona della samaritana, di questa donna che «porta nel
cuore una storia di relazioni ferite» e che dopo l’incontro con Gesù «diventa
un’altra persona», è possibile scoprire «l’icona della nostra vocazione, come
esperienza di incontro con Gesù e impegno nell’annuncio del Vangelo». La sete
di Gesù e la sete della donna «sono il filo conduttore di un dialogo liberatore
che risana ferite interiori, incurabili fino a quel momento e che i pregiudizi
razziali e religiosi hanno reso più penose».
È facile, infatti, vedersi riflessi nella donna, quando
«siamo feriti nei nostri rapporti reciproci, assetati di verità e autenticità»,
quando «scopriamo che siamo incapaci di comprendere i nostri affetti, dietro ai
quali si nasconde il nostro cuore smarrito». La capacità di convocazione di
questa donna che ha una storia disordinata alle spalle, non può non
sorprendere.
I pregiudizi stessi con i quali i discepoli osservano il suo
incontro con Gesù, «rivelano una mentalità maschilista che è presente ancora ai
nostri giorni». Solo la serenità di Gesù, nata dalla chiara consapevolezza
della sua missione, «gli permette di aspettare pazientemente la domanda giusta
e il momento della totale confidenza». In città tornano sia i discepoli che la
donna; ma mentre i primi tornano per comprare da mangiare, questa «torna da
sola e farà sì che molti samaritani seguano il cammino della fede nel
“salvatore del mondo”».
Non meno eloquente è l’icona del samaritano, nella quale
«vediamo che Gesù emargina, nella sua valutazione, coloro che sono segno del
potere religioso, quando non si lasciano muovere a compassione». Il samaritano
non scarica su altri la sua preoccupazione, ma offre a tutti un segno concreto
di solidarietà attiva. L’esortazione finale di Gesù: «Va’ e anche tu fa’ lo
stesso», orienta verso «una coerenza pratica e non a principi teorici». La
strada del samaritano è oggi uno spazio immenso «dove si affollano uomini e
donne, bambini e anziani, che, mezzi morti, portano le ferite che ogni tipo di
violenza ha inferto loro, nel corpo e nello spirito». Sono troppi i volti
sfigurati dalla violenza e dall’ingiustizia: «volti di immigrati e di rifugiati
in cerca di una patria, di donne e giovani sfruttati, di anziani e malati
abbandonati a se stessi; volti umiliati dai pregiudizi razziali o religiosi,
volti di bambini traumatizzati nel corpo e nello spirito, volti sfigurati dalla
fame e dalla tortura. Questi sono i flagellati della terra, che giacciono al
margine della nostra storia e domandano una compassione creativa che trasformi
le tradizionali istituzioni caritative in risposta alle nuove urgenze e in
nuova testimonianza di cosa vuol dire farsi prossimo».
Questa icona ricorda soprattutto alla vita consacrata la
sfida più importante: «quella di entrare in azione, dando la priorità al
bisognoso, alle persone e non agli affari, ai percorsi terapeutici e non alle
norme sacre che ci spogliano della compassione, come accadde al sacerdote e al
levita». Purtroppo «gli uomini delle istituzioni non hanno saputo liberare
l’immaginazione della carità. Hanno proseguito il loro viaggio per mantenersi
puri nel senso legale e cultuale». Solo colui che viveva la religiosità e il
culto in un modo non corretto e persino disprezzato dai capi religiosi
ufficiali «si è rivelato l’unico capace di esercitare la carità». È necessario,
però, «scendere dalla cavalcatura che ci rende esseri privilegiati e ci separa
da tanti viandanti che non hanno dignità, né casa, né meta». È necessario
«versare sulle loro ferite l’olio della nostra contemplazione, perché non sia
una mera ricerca egoistica e solitaria, ed il vino della tenerezza e della
gratitudine perché torni la speranza e la voglia di vivere».
Queste icone, contemplate insieme, «ci mostrano che la vita
consacrata nasce da un’esperienza vocazionale che ha luogo nell’incontro e nel
dialogo di vita con Gesù che ci chiama e con gli esseri umani più bisognosi».
Entrambe le immagini «portano a sederci vicino a tanti “pozzi” dove cuori
inquieti e bisognosi di una nuova speranza liberatrice sazieranno la loro sete…
ci spingono ad andare per le strade in cui i poveri hanno bisogno del nostro
aiuto, a dialogare con calma e senza pregiudizi, senza calcolare il tempo né il
prestigio, a condividere la passione per l’acqua che disseta veramente,
vivifica e trasforma, a scendere dai nostri “giumenti” – privilegi, strutture
rigide, pregiudizi sacri – per unirci al destino dei crocifissi della terra e lottare
contro ogni violenza e ingiustizia, dando inizio così a una nuova tappa di
guarigione e solidarietà».
Tutto questo sarà possibile solo riprendendo da una parte il
vangelo come “prima norma” e dall’altra la fraternità come «proposta e profezia
in una società divisa e ingiusta, vivendo la passione per l’umanità con una
grande carica di immaginazione e di creatività». L’esperienza dello stare in
mezzo ai più poveri e agli esclusi ha dato nuova configurazione alla vita
consacrata come vita samaritana che annuncia il vangelo con sempre nuove
espressioni. Quante persone consacrate, leggiamo in Vita consecrata, «si sono
chinate, e continuano a chinarsi, come buoni samaritani sulle innumerevoli
ferite dei fratelli e delle sorelle che incontrano sulla loro strada!”.
SEGNI DI VITA
E DI SPERANZA
Le due icone non possono non essere, allora, stimolo e
programma di vita e di impegno. Spetta ai religiosi interpretarle e
trasformarle in realtà. Troppo spesso nella vita consacrata si sono date per
certe tante cose «solo per il semplice fatto di averle dette». Ora non è
affatto lecito «dare per certo più di quanto viviamo». Lo Spirito Santo
continua ad agire nel mondo, nella Chiesa e nella vita consacrata. Segni di
vita e di speranza appaiono ovunque. Si tratta solo di saperli leggere e
interpretare.
È indubbio che dal Vaticano II a oggi la vita consacrata ha
fatto grandi sforzi per tornare alle sorgenti, re-incontrandosi con la parola
di Dio, posta al centro della propria esistenza. Ma è necessario ascoltarla
insieme a tutto il popolo di Dio, nel contesto del nostro tempo. Solo una
spiritualità incarnata e inculturata sarà in grado di nutrire tutti gli aspetti
fondamentali della vita consacrata: preghiera, comunità e missione. In questo
modo sarà anche più facilmente garantito il ritorno all’ispirazione originaria
dei singoli istituti, pienamente consapevoli che il proprio carisma è un dono
per tutta la Chiesa. Avranno così un senso anche tutti gli sforzi fatti per
esprimere questa nuova realtà in un nuovo linguaggio: carisma condiviso,
spiritualità condivisa, missione condivisa, comunità condivisa. Sono ormai
maturi i tempi per «recuperare la fantasia creativa delle origini in nuovi
contesti e rispondendo a nuove necessità… ridefinire la nostra identità… per
partire dalla correlazione con tutte le forme di vita cristiana… per rispondere
alla richiesta di laici e ministri ordinati che chiedono di condividere la
nostra ispirazione spirituale».
Nei processi di rifondazione in atto si è passati pian piano
dall’isolamento e dalla distanza al dialogo, alla condivisione, alla
comunicazione, alla presenza e all’interazione. Tra gli incontri più
significativi e con maggiori conseguenze non si può non ricordare, anzitutto,
quelli tra uomini e donne e tra religiosi e secolari. Nell’uno come nell’altro
caso «si sta imparando, poco a poco, a bere dallo stesso pozzo e ad andare per
le vie della Chiesa e della società camminando con entrambi i piedi, ascoltando
con entrambe le orecchie e guardando con entrambi gli occhi».
Nello stesso tempo si stanno moltiplicando gli incontri tra
le diverse culture e i diversi gruppi generazionali, tra religiosi e poveri,
tra credenti e non credenti, tra membri di alcune religioni e altre, tra membri
di alcune Chiese e di altre. Sono sempre più numerose le barriere spezzate per
creare ponti e favorire comunione. Stiamo scoprendo la ricchezza delle forme di
vita religiosa esistenti in altre tradizioni religiose, attraverso il dialogo e
lo scambio reciproco. È sempre più frequente l’incontro con altre congregazioni,
dalla semplice collaborazione fino alla confederazione, la federazione e la
fusione; ora tutto questo permette di andare all’essenziale, valorizzando le
cose in comune della vita consacrata, senza perdere di vista lo specifico di
ciascun istituto. Lentamente si sta delineando un nuovo paradigma di vita
consacrata.
Si tratta sempre di incontri esigenti dai quali però stanno
scaturendo «forme di vita evangelica semplici, radicali, ecumeniche, in mezzo
al popolo, dalle strutture flessibili, accoglienti, attente al linguaggio
simbolico, agli attuali riti della vita e alle esigenze della comunione
profonda con Dio e con le persone». Non è un caso se oggi sempre più
frequentemente si è alla ricerca anche di più adeguate espressioni linguistiche
per esprimere tutti i segni di vitalità che lo Spirito sta suscitando nella
vita consacrata: nuovo paradigma, nuovo modello, nuove forme, rifondazione,
fedeltà creativa. In un progressivo sviluppo dell’ecclesiologia di comunione,
si è imparato a percorre insieme a tutto il popolo di Dio le vie della santità,
della evangelizzazione e della solidarietà. Mai come in questi ultimi anni si
sono estesi e qualificati gli incontri e i rapporti con i vescovi, con i laici
(in modo particolare, con coloro che condividono il carisma e la missione), con
i presbiteri diocesani che fanno da mediatori in molti altri rapporti
all’interno delle comunità cristiane che presiedono.
PASSARE
ALL’AZIONE
La riscoperta e la valorizzazione di questa rete di rapporti
sono una garanzia ulteriore per il futuro della vita consacrata, soprattutto
nel momento in cui si deve passare all’azione. Il congresso si attende dagli
istituti di vita consacrata passi decisi e seri e obiettivi chiari, in modo da
rendere la vita consacrata significativa oggi nella società e nella Chiesa.
Bisogna avere il coraggio di interrogarsi su ciò che non va, su ciò che sta
terminando, su ciò che non ha presente né futuro. Solo in questo modo potrebbe
essere più facile poi «concentrare le proprie forze su ciò che è più necessario».
Proprio per favorire e orientare l’opera di discernimento
che dovrà svolgersi durante il congresso, l’Instrumentum laboris elenca tutta
una serie di domande elaborate sulla base di un’ampia consultazione che aveva
preceduto la stesura del documento stesso.
Se annunciare Gesù con la propria vita è la quintessenza
della vita consacrata, allora è lecito chiedersi: quali sono i cambiamenti che
si rendono necessari nel nostro sistema religioso, istituzionale e comunitario,
per rendere più evangelica la nostra vita?
Oggi si è tutti convinti che senza autentica inculturazione,
la vita consacrata non potrà sopravvivere né compiere fino in fondo la sua
missione. Ben sapendo, però, quanto i processi di inculturazione siano
impegnativi, non si può non chiedersi allora: quali proposte faremmo perché ciò
possa essere una realtà? Quali ostacoli derivano dai tradizionali modelli
organizzativi, formativi, spirituali o antropologici? Quali conseguenze ha
questa prospettiva nelle nostre nuove strutture di governo, di formazione, di
esperienza pastorale, di linguaggio culturale e spirituale?
Se la nuova vita consacrata chiede comunità nuove, allora:
quali linee dobbiamo seguire per rifondare psicologicamente ed evangelicamente
le nostre comunità in questo nuovo tempo?
Nel “disordine amoroso” proprio della nostra epoca, la vita
comunitaria può diventare un elemento di stabilità affettiva e di convivenza,
ispirato dalla fede e aperto a una piena realizzazione. I rapporti sono meno
rigidi e impersonali rispetto al passato. Tuttavia, la mentalità e il contesto
eccessivamente erotizzato può essere un rischio in più per i religiosi. Di
fronte ad un nuovo modo di intendere il celibato, come conseguenza di una
visione più integrale della sessualità: cosa dovremmo dire e fare al riguardo?
La tante cose buone che stanno nascendo, non possono però
affermarsi senza una buona spiritualità. Però: come farlo? Cosa fare per far sì
che la vita consacrata – per vocazione e carisma – sia un laboratorio di
spiritualità, uno spazio per coltivare lo spirito e la parte spirituale che si
nasconde in ogni cosa?
La vita consacrata condivide i suoi carismi con altre forme
di vita cristiana, soprattutto con il laicato. Proprio a partire
dall’esperienza già in atto, è allora doveroso chiedersi: quali orientamenti
dobbiamo seguire in questa linea di correlazione e reciproca identificazione
nella forma di vita e nella missione?
La comunione reciproca tra pastori, laici e religiosi, si fa
sentire sempre con maggior forza, come esigenza intrinseca di docilità allo
Spirito. Sono sempre più evidenti certe dinamiche informazione, di dialogo e di
partecipazione in campo ecclesiale. Tutto questo, però, non dispensa dal
chiedersi: come pensare, sentire e agire insieme secondo il vangelo?
Purtroppo «la mancanza di immaginazione o la paura ci
trasformano in meri conservatori di segni ormai insignificanti o di un mero
valore museale e folcloristico. Mancano appropriate espressioni degli autentici
valori incarnati e vissuti nella vita consacrata». Ora, mentre ci si interroga
sulla propria significatività, è legittimo chiedersi ancora: Quale linguaggio
usare? Come presentarsi? Cosa trasmettere? Come vivere per arrivare a essere
significativi?
UN FUTURO
DA COSTRUIRE
Una vita consacrata che voglia avere garanzie di fecondità
«deve trovare le vie per essere come la samaritana «che cerca, assieme a tutti
gli assetati, l’acqua viva, attorno alle fonti, ai pozzi della memoria e della
felicità, per curare i volti feriti senza dimenticarsi di lottare contro i
sistemi violenti ed ingiusti che vi sono alla base». Ma anche qui: Come fare?
Cosa dire in merito a questa sfida?
Il ritorno alla vita povera, solidale e compassionevole è
stata sempre un elemento chiave dei processi di rifondazione nella storia della
vita consacrata.
Una scelta del genere permette «di essere generosi nel
condividere e nel dare, liberi di ricevere ed esigere»; ma ci pone anche degli
interrogativi: come può la vita consacrata aiutare a passare dal vivere in
funzione del superfluo al vivere in funzione del necessario?
In questo particolare momento storico, il dialogo
comunitario, interculturale, religioso, ecumenico, sta diventando «una
questione di vita o di morte» per tutta l’attività evangelizzatrice e
missionaria della Chiesa. Se è vero che questo discorso sta entrando sempre di
più anche negli istituti religiosi, nulla e nessuno li esime dal chiedersi:
quali iniziative intraprendere per dare alla nostra missione il carattere di
autentico dialogo?
Per quanto il congresso voglia essere una pietra miliare nella
storia della vita consacrata, è altrettanto certo che non si può ignorare il
passato. La fedeltà a quello che lo Spirito sta suscitando oggi nella vita
consacrata «ci porta a dare consistenza, continuità e garanzia al processo
iniziato». Si pone allora inevitabilmente l’esigenza di «discernere, descrivere
e proporre come dovrebbe essere la formazione che garantisca continuità a
questa vita consacrata nuova e come dovrebbe essere il governo che deve animare
questa nuova tappa del cammino della vita consacrata». Alle spalle, è vero, c’è
una storia gloriosa. Ora, però, «è il futuro che dobbiamo costruire». Ma questo
«richiede un cambiamento di mentalità istituzionale profondo, che renda
possibile l’urgenza di nuove istituzioni e forme di governo, nelle quali la
vita nascente non si veda soffocata». La riorganizzazione interna degli
istituti, il dialogo intercongregazionale e i ponti di collaborazione e
integrazione, sono tutte chiare iniziative «verso le quali lo Spirito ci
conduce». Se come appare con sempre maggior chiarezza, le strutture dovrebbero
essere «leggere ed essere guidate dal dialogo, dalla corresponsabilità e dal
vangelo», allora è doveroso chiedersi: cosa proporremmo su questa linea di
rifondazione delle istituzioni? Cosa devono fare i governi religiosi per
mettere le loro istituzioni e opere al servizio della missione?
Nessuno può negare che «la vita consacrata dipende in grande
misura dalle sue strutture economiche». Dal denaro, infatti, dipendono in gran
parte le sue opere missionarie, i suoi processi formativi, la sua
globalizzazione, ma anche la sua contro-testimonianza. Sebbene l’asse portante
della vita consacrata non sia l’economia, tuttavia la sua influenza è stata
sempre grande; tutte le riforme o nuove forme di vita consacrata hanno sempre
dato particolare rilievo al tema della povertà e dell’economia. Ebbene: Cosa
possiamo dire al riguardo? Come pensare a un’economia solidale? Come
organizzare un’economia al servizio della missione?
A monte, infine, di una vita consacrata autenticamente
samaritana, si impone un serio impegno nell’elaborazione e realizzazione di
percorsi formativo-spirituali. In una attenta ecclesiologia di comunione, sta
emergendo «un modello di formazione congiunta all’interno del popolo di Dio. Se
oggi viviamo in un tempo in cui l’ecclesiologia di comunione chiede di imparare
tutti insieme cosa significa essere christifideles, è inevitabile allora un
ultimo interrogativo: quali ripercussioni hanno queste prospettive
sull’elaborazione dei processi formativi?
«Non vogliamo restare in un passato glorioso», conclude
l’instrumentum laboris. «Vogliamo guardare al futuro». Più che difendere
“presunti diritti acquisiti”, i religiosi, fedeli alla propria vocazione,
vorrebbero «servire di più e meglio». Solo così è possibile diventare
«credibili in una Chiesa che rinasce in questo novo millennio ineunte. È un
impegno serio e urgente».
Angelo Arrighini