SE LA DEPRESSIONE AFFERRA ANCHE IL MONACO

LA PASQUA ANNULLA LE NOSTRE PAURE

 

Lettera dell’abate Tiribilli su un fenomeno che è presente anche nei monasteri. Si tratta di un disturbo difficile da sopportare ma da cui si può uscire, oltre che con l’aiuto della medicina, con il sostegno della fede e l’incontro con il Cristo risorto.

 

 

La depressione è un disturbo che può colpire chiunque. Non c’è ambiente dove non faccia la sua comparsa. Perfino i monasteri non ne sono del tutto esenti. Consapevole di questa realtà, l’abate generale della congregazione di S. Maria in Monteoliveto, d. Michelangelo M. Tiribilli, ha voluto scegliere proprio questo argomento per la lettera pasquale ai suoi monaci, allo scopo di portare a chi sta soffrendo per un motivo o per un altro di questa sindrome, un segno della sua vicinanza, e per invitare, nella luce della Pasqua, a una lettura attenta di un fenomeno che, afferma, «oggi colpisce molte persone e anche monaci e monache, con ripercussioni sulla vita comunitaria». Come si manifesta la depressione?

 

SEGNALI

DI CRISI

 

La depressione, osserva l’abate, si manifesta attraverso una generale insoddisfazione di tutto, un senso di noia, di torpore dello spirito, una malsana autosvalutazione, una melanconia cronica che assume i lineamenti di una protesta solitaria e silente.

Si tratta di un problema che in questi ultimi anni è spesso sotto il riflettore dei sociologi e degli psicologi. Anche a livello ecclesiale ha destato una singolare attenzione, come dimostra una recente conferenza internazionale organizzata dal Pontificio consiglio per la pastorale e la salute dedicata proprio alla depressione. Il papa ha ricordato ai partecipanti che «il diffondersi degli stati depressivi è diventato preoccupante».

Anche i consacrati, e tra essi i monaci, commenta l’abate Tiribilli, sono talvolta toccati e feriti dalla depressione. E anche chi ha fede non ne è del tutto immune, benché essa lo aiuti a superarla. Certamente abbiamo presenti le preghiere ispirate dei salmi; molti di essi contengono parole che esprimono angoscia, sofferenza interiore, un animo insoddisfatto: tutti tipici ingredienti della depressione. Una citazione fra le tante: “Abbi pietà di me, Signore, sono nell’affanno; per il pianto si struggono i miei occhi, la mia anima e le mie viscere. Si consuma nel dolore la mia vita, i miei anni passano nel gemito; inaridisce per la pena il mio vigore…” (Sal 30,10-11).

Se ci pensiamo bene, rileva l’abate, la depressione non è una triste scoperta dei nostri giorni. Nell’antica letteratura monastica – quella di Evagrio Pontico, di Cassiano, di Giovanni Climaco e di molti altri autori – se ne parla e viene descritta nelle sue svariate forme col nome di akedia, taedium cordis, atonia dello spirito che attecchisce tra i monaci e quanti hanno scelto la via nell’ascesi, specialmente fra gli anacoreti.

Un filo rosso attraversa gli antichi scritti monastici fino alle più recenti pubblicazioni scientifiche, legando l’accidia alla sua versione moderna chiamata appunto depressione.

Naturalmente la scienza moderna ha messo in risalto, oltre le componenti psicologiche, evidenziate dagli antichi autori, gli aspetti fisiologici, approfondendo le interazioni fra corpo e psiche.

Non è facile comunque definirla perché è sfuggente; rivela fragilità umane, psicologiche e spirituali. Si può dire pertanto che esistono tante definizioni quante sono le persone depresse.

 

LE SUE MANIFESTAZIONI

CONCRETE

 

Ma come si manifesta in concreto? La depressione si accompagna a una sensazione di vuoto che coinvolge tutto l’essere: mente, volontà, emotività, e si ripercuote sul fisico. L’accidia prende tutte le forme di una depressione psichica che, nel peggiore dei casi, può sfociare in un disperato tentativo di evasione dalla vita.

Il monaco che si trova in questa situazione avverte la difficoltà nel seguire i ritmi della vita comunitaria. Essi sono sentiti come un peso: lo svegliarsi presto, il pregare insieme, il ritrovarsi a ore stabilite diventa una fatica enorme. A volte il monaco traduce il suo disagio esistenziale ponendosi degli interrogativi: che senso ha la mia vita? Che cosa è diventata la mia preghiera? Che ne ho fatto della mia vocazione monastica?

Può succedere, quasi senza accorgersene, di trascurare la preghiera, di smarrirne la strada. Semplicemente non si prega più. Certo, si continua a celebrare la messa o a parteciparvi, così pure a essere presenti alle altre celebrazioni dell’opus Dei, perché così si deve fare, ma la presenza è solo fisica, la mente è altrove, si percepisce uno svuotamento interiore; di conseguenza, si rifugge dalla preghiera personale e silenziosa. A volte ci sono difficoltà nella vita di fede: una fede data per scontata che non illumina e non trasforma. Manca quel rapporto vero e personale con Dio che rende il monaco ricco di slanci generosi. Si vive di rimpianti, di sogni, di desideri. Si masticano presunte frustrazioni.

Anche i rapporti con i confratelli e con l’abate, prosegue la lettera, entrano in crisi: si diventa eccessivamente permalosi e irascibili; non si partecipa alla vita comunitaria (ad esempio, la ricreazione) e si assumono atteggiamenti di mutismo, di ostentato rifiuto se non addirittura di ostilità; si svaluta lo stile di vita monastica, sottolineandone supposti aspetti negativi, ci si fissa su particolari secondari. Anche l’osservanza dei voti incontra difficoltà. La vita reale non si svolge più in comunità, ma si cercano evasioni esterne (spesso all’insaputa dell’abate); la dimensione contemplativa si affievolisce sempre più, ma soprattutto si smarriscono le motivazioni della propria scelta vocazionale; ci si ritrova demotivati in tutto e per tutto.

Chi è colpito dalla depressione, sottolinea l’abate, soffre realmente e molto. Finisce per essere prigioniero di un’estrema angoscia, senza trovare sollievo in niente: vive la condizione di una sofferenza interiore quasi inspiegabile. A una persona depressa costa veramente fatica ciò che ad altri appare semplice.

Resta tuttavia vero che la malattia depressiva può essere una strada per scoprire altri aspetti di se stessi e ampliare la capacità di riflessione.

 

COME TROVARE

UNA VIA DI USCITA

 

Come rimediare, come uscirne fuori? Il papa, nel discorso citato, afferma: «Voi l’avete sottolineato: la depressione è sempre una prova spirituale, il ruolo di quanti si prendono cura della persona depressa consiste soprattutto nell’aiutarla a ritrovare la stima di sé, la fiducia nelle proprie capacità, l’interesse per il futuro…. Per loro, come per ciascun altro, contemplare Cristo e lasciarsi “guardare” da lui è esperienza che apre alla speranza e spinge a scegliere la vita».

La depressione, sottolinea l’abate Tiribilli, non è una malattia inguaribile. Tuttavia, essendo sempre una prova spirituale, insieme all’uso di giusti farmaci e di adeguate psicoterapie, è importante ricostruire la propria personalità coltivando la vita spirituale, fondamento di un’esistenza equilibrata.

Evagrio Pontico, parlando dell’accidia, che è strettamente legata alla depressione, suggerisce questa strategia: «L’accidia si guarisce con la costanza e con il fare tutto con gran cura e con timor di Dio. Fissati in ogni opera una misura e non desistere finché non l’hai completata. E prega con senno e fervore e lo spirito dell’accidia fuggirà da te». Ed è ancora Evagrio ad affermare lapidariamente: «Pazienza: disfatta dell’accidia… la pazienza affievolisce l’accidia».

Questa pazienza, questo perseverare guariscono anche quella radice malata che è l’egocentismo. Ma questa perseveranza non è una cieca sopportazione, bensì una cosciente attesa di Dio. Infatti, una via d’uscita dal circolo infernale della depressione si trova solo se l’uomo abbatte le mura del suo io, del suo disperato isolamento e si apre all’autenticità della sua persona, se si mette in trasparente relazione con l’altro, cioè se si apre alla vera carità che consiste nel trovare se stesso col darsi a un Tu.

L’uomo può trovare il suo essere personale solo attraverso l’incontro con Dio; poiché Dio è amore, solo l’incontro con lui ci guarisce dal male radicale dell’egocentrismo, che è soprattutto la paura di perdersi nel donarsi.

Nelle ore cupe del nostro vivere quando «il nostro spirito viene meno» e sembra che nessuno abbia cura della nostra vita e abbiamo l’impressione di toccare il fondo dell’angoscia (Sal 141) contempliamo la croce di Gesù, «sfogando al suo cospetto la nostra angoscia».

Ci si libera dalla sensazione di vuoto esistenziale ritrovando, rinnovando, rafforzando il rapporto personale con colui che è vincitore della morte, venuto propri a «fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1). «Esulterò di gioia… perché hai riconosciuto la mia angoscia, non mi hai consegnato nelle mani del male oscuro, hai guidato al largo i miei passi» (Sal 30,8).

 

UNO SPRAZZO DI LUCE:

CRISTO È RISORTO!

 

Quando la sera della depressione, fatta di presagi della notte, s’inoltra nel nostro vissuto quotidiano, abbiamo tutti quanti questa certezza: in mezzo a queste tenebre irrompe sempre il grido che è come uno sprazzo di luce che infrange il buio: «Cristo è risorto, è veramente risorto».

Nell’anima ferita, nella psiche disagiata, nel corpo disturbato, Gesù unico salvatore e Signore della nostra libertà e del nostro amore, può forgiare ancora una volta l’argilla del nostro essere riarso, inaridito, il deserto del nostro spirito, aprendolo a un festoso canto di risurrezione e di vita.

Sì, Cristo è risorto, l’alba della risurrezione è alba di primavera, della ripresa, della vita rigenerata, della novità che in un modo o nell’altro incide nella nostra persona, nella nostra vita non solo spirituale, ma anche psichica. Il nostro vissuto psichico, toccato, pervaso delle dinamiche della Pasqua ritorna «nuovo come lo fu dopo la Parola creatrice», ricreato in novitate vitae, e come lo sarà quando Dio farà «cieli nuovi e terra nuova».

Sì, scrive l’abate Tiribilli, lo splendore della Pasqua annulla le nostre paure, la sua luce illumina i nostri turbamenti e le nostre ambasce, e scioglie le nostre insicurezze; il suo dinamismo ci fa superare le nostre depressioni. Approfondendo il nostro rapporto personale con Cristo, invece della disperazione mortale e della insoddisfazione fatale, dell’isolamento dell’io, nasce una profonda serenità e gioia inesprimibile. Esse permettono di pregustare quella pace che Cristo ha promesso ai suoi discepoli la sera della sua passione e l’ha data a loro con pienezza, da risorto, il mattino di Pasqua.

Pace e gioia, non come il mondo può fingere di dare, ma come può darle solo colui che «è la nostra pace» sono l’ultimo passo che porta il depresso, nella sua infinita piccolezza, a incontrare l’infinitamente grande Dio. In esse la creatura mortale entra in quel luogo luminoso, che è contemplazione, amore di Dio, un amore che non smette mai di crescere, una conoscenza che di fronte all’infinità di colui che è conosciuto diventa una beata non-conoscenza.

 

PASQUA

SFIDA DELLA SPERANZA

 

Ciò che attende chi ha affrontato coraggiosamente la prova della depressione non è quindi un semplice sentimento di sollievo e di soddisfazione. Quella improvvisa risurrezione operata da Cristo significa la conquista della verità del proprio essere personale grazie all’incontro con la persona del Signore.

Luminosità di cuore, clima interiore di pace e di gioia insolite indicano il capovolgimento operato nel passaggio dalla depressione alla ripresa della vitalità, in questa vera Pasqua esistenziale.

Non c’è che da attendere come le donne, predisponendo quanto è necessario, e Cristo ci anticiperà con la sua risurrezione

Come Maria di Magdala non smettiamo mai di cercare, anche se il cielo del nostro spirito è cupo e i giorni sono tristi. Attendiamo pazientemente il germoglio di vita eterna e il dono della liberazione perché «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto».

Il risanamento, la vitalità, la ripresa operate dallo Spirito del Risorto, rileva l’abate Tiribilli, rendono nuovi i rapporti con se stessi, con gli altri, per ritornare ad amare la vita come dono di Dio, la vocazione monastica come grazia incommensurabile, l’apertura agli altri come possibilità di realizzare meglio se stessi.

Anche di fronte alla crisi di vocazioni, all’invecchiamento la Pasqua farà arretrare certe nostre «notti» dai tanti nomi, e sarà lo splendido schermo delle nostre risurrezioni personali e comunitarie. Avremo la convinzione che noi siamo più grandi dei problemi che ci assediano e facciamo parte di una comunità, anzi dell’umanità tutta, il cui nome non è, come ci ricorda Isaia dimenticata o abbandonata (62,4-5), ma mia gioia. Pasqua è perciò la sfida della speranza, perché anche se ci scoraggiamo, ci riprendiamo subito.Noi tutti siamo delle promesse, delle risorse: anche a settanta, ottant’anni… siamo delle promesse, dei segni paschalia nei nostri rispettivi monasteri.

Se conviviamo con le guardie della morte (Mt 18,4) di situazioni personali o comunitarie difficili e sofferte, conclude l’abate Tiribilli, lasciamo che l’angelo della risurrezione le getti a terra. Se qualche comunità, nonostante gli sforzi che si stanno compiendo in più direzioni, è ancora tenebra (Gv 20,1) non venga meno la speranza di un et ecce terremotus che opera un capovolgimento positivo… L’11 aprile, giorno della risurrezione «lo sia anche per ciascuno di noi e per ognuna delle nostre comunità, nonostante ceneri, macerie, fallimenti, debolezze e tensioni assortite poiché le cose vecchie sono passate, ecco ne sono sorte di nuove».