DINAMISMI COMUNITARI INCEPPATI.

II CORAGGIO DI CONFRONTARSI

 

La parresìa, ossia la franchezza, l’apertura e la libertà di parlare, spesso è sopraffatta dalla paura di esporsi. In questo modo ne soffre il dialogo e si rinuncia a costruire insieme quella comunione che è il fondamento dello stare insieme come Chiesa e come comunità.

 

«Se vuoi stare a galla, devi fare il morto» ci diceva in un serissimo corso di esercizi spirituali un dotto e arguto teologo e pastoralista. Il detto (oculatamente tenuto in grande considerazione in molti “palazzi”) fotografa molte comunità ecclesiali e di vita consacrata, dove spesso esporsi troppo con le proprie convinzioni genera diffidenza, sospetti, emarginazioni e, per coloro che ci tengono, lo stop alla carriera.

Per questo la tradizione religiosa ha generato un’astuta e accorta prassi, piuttosto frequente nelle comunità cristiane: strategici silenzi, tattici mutismi, conniventi sorrisi, scaltri compromessi. Il tutto, magari, accompagnato da qualche mormorio, ma privato e circospetto e comunque sempre aperto – caso mai lo si venisse a sapere – a multiformi intendimenti e interpretazioni.

Atteggiamenti senz’altro avveduti per stare in linea con le indicazioni “superiori”, ma contrari alla parresia biblica. Termine per molti alquanto ostico (e non solo linguisticamente), ma che tradotto connota le doti che dovrebbero essere in gran voga nelle comunità di Cristo, considerato che nella parola di Dio esso significa franchezza, apertura, libertà di parlare, virtù che sono o dovrebbero essere una caratteristica della Chiesa di Cristo.

 

VIRTÙ DEL DISCEPOLO

DI CRISTO

 

Un accenno soltanto alla parresia nell’AT, che pure ha pagine formidabili, rivelatrici della libertà e della sincerità che guidano il vero innamorato della verità di Dio. I profeti sono lì a dirci con quale forza e indipendenza di spirito occorre comunicare (in qualsiasi situazione esistenziale e sociale) la parola di Dio e le proprie convinzioni, senza tenere conto delle conseguenze personali, con l’atteggiamento etico dell’uomo libero, afferrato da Dio e che non teme di esporsi pubblicamente, sia nei palazzi del potere politico che nei palazzi del potere religioso. Nei salmi risuona più volte la voce “impertinente” del credente che si rivolge a Dio per interrogarlo sul suo silenzio, sulla sua sordità alle preghiere, sul suo ritardo a fare giustizia.

Nel NT il termine (vi compare 31 volte) risplende in tutta la sua ricchezza e importanza. Il modello di parresia è Cristo stesso: l’intera sua predicazione è un parlare apertamente, senza sottintesi e fughe nel vago, delle esigenze del Regno, delle distorsioni portate dalle tradizioni alla genuinità e all’originalità della parola di Dio, delle ipocrisie di certi comportamenti, dell’insensibilità alla legge di Dio. Più volte deve intervenire con fermezza per chiarire ai suoi discepoli recalcitranti la natura della sua missione e per richiamare senza mezzi termini la necessità della croce. Una vita, quella di Cristo, all’insegna della libertà interiore di proclamare le novità del Regno nella storia dell’uomo.

Ma i vangeli documentano anche il comportamento franco dei discepoli con Gesù, come quando essi – si fa portavoce Pietro – lo rimproverano apertamente per le sue parole che preannunciano la sua morte sulla croce. Ovviamente sbagliano, ma il fatto testimonia la circolazione di una libera dialettica all’interno del gruppo, che non esita a contestare anche il venerato Maestro.

La Chiesa dei primi tempi respira e adotta – sia verso l’esterno che al suo interno – la parresia di Cristo. I discepoli annunciano con franchezza le opere di Dio, noncuranti delle persecuzioni, delle intimidazioni, consapevoli che non possono tacere le verità apprese. E resta proverbiale e paradigmatico lo scontro a viso aperto tra Paolo e i “conservatori” della religione e morale tradizionali e l’onestà e la schiettezza con le quali il problema è stato trattato e risolto. Inoltre le sue lettere lasciano chiaramente trasparire il dialogo, la schietta circolazione di idee, ma anche gli scontri e le diatribe, con i membri delle chiese da lui fondate. Un rapporto tra persone libere.

Franchezza, audacia, coraggio sono tutte espressioni della parresia e soltanto attraverso una sana manifestazione di queste virtù arrivano le novità di Cristo. Tacere, glissare vuol dire restare nel ricevuto, con la comodità e con il timore di chi non vuole essere libero, ma ubbidire passivamente, e di chi si rassegna a non essere portatore di qualcosa di nuovo.

L’ardire del discepolo di Cristo non è superbia, ma consapevolezza umile di essere figlio di Dio e quindi di avere il diritto di stare in piedi di fronte all’uomo e di avere il dovere di comunicare quanto – in coscienza – si sente di dire per essere fedele a se stesso, in Dio.

Limitiamoci ad alcune brevi considerazioni a partire dal Vaticano II che – come noto – è stato un concilio essenzialmente ecclesiale e che ha messo in risalto l’uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, parlando di popolo di Dio.

 

VIRTÙ

DEL POPOLO DI DIO

 

Di qui è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la comunione è l’idea centrale e fondamentale dei documenti conciliari, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri. Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti.

Non fanno certo difetto i documenti del magistero che ribadiscono alcune verità dell’essere popolo di Dio. Le indicazioni sono allettanti – sulla carta – e attendono ancora, in molte comunità ecclesiali e particolarmente religiose, di essere prima conosciute e poi seguite. Ne richiamiamo il senso sintetico globale, ma rivelatore, cogliendolo da vari documenti:

– la comunicazione e il dialogo sono indispensabili per l’efficienza della vita della Chiesa;

– il dialogo e la comunione nella Chiesa richiedono particolare attenzione all’opinione pubblica dentro e fuori della comunità ecclesiale;

se l’opinione pubblica venisse a mancare mancherebbe qualcosa alla natura della Chiesa;

– i cattolici debbono essere coscienti di avere quella libertà di parola e di espressione che si fonda sul senso della fede e della carità;

– il libero dialogo non nuoce certamente alla saldezza e unità della Chiesa, anzi favorisce la concordia di intenti e di opere;

– si deve riconoscere – tenendo presente che l’opinione pubblica e il dialogo sono essenziali per la Chiesa – che i fedeli hanno il diritto di ottenere tutte le informazioni indispensabili per affrontare la loro responsabilità nell’ambito della vita ecclesiale.

Le linee generali per una bella e diffusa parresia sono – sulla carta, ripetiamo – tracciate. Attendono ancora, in molti ambiti della vita ecclesiale di essere applicate.

Al riparo della parola di Dio e incoraggiata dal magistero della Chiesa, la parresia dovrebbe dilagare nelle comunità religiose, anche perché tutte ci tengono a fregiarsi della qualifica di “famiglia”.

 

VIRTÙ

DELLA “FAMIGLIA” RELIGIOSA

 

Ora nelle famiglie – quelle autentiche – si parla, si dialoga, si discute, magari ci si scontra e ci si arrabbia, ma sempre con l’obiettivo – dichiarato e riconosciuto – di cercare il bene di tutti.

Le parole di Cristo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no» vogliono pure significare qualcosa: intendono richiamare alla veracità e alla sincerità del dialogo, proclamare che la relazione autentica con Dio e con gli uomini può fondarsi soltanto su una parola e un atteggiamento trasparenti e schietti. La prudenza (niente affatto cristiana) di certi comportamenti rivela il desiderio di non avere fastidi che rovinino la tranquillità esistenziale conquistata dopo anni di presenze defilate nei cantucci della comunità, quando non manifesta il sostanziale vuoto (colpevole perché cercato nel tempo) di proposte da presentare.

Le parole astratte, sfuggenti, prudenti non coinvolgono più di tanto il nostro essere, ci lasciano, psicologicamente e di fatto, ai margini dei problemi e degli interessi reali della comunità: sono chiacchiere che non dicono il significato profondo di quello che sentiamo e viviamo personalmente e che sogniamo per la nostra vita di consacrati. In questo caso nascondiamo sempre qualcosa di noi stessi e quindi ci rifiutiamo di donarci, con le nostre ricchezze e povertà, alla comunità.

Il rinnovamento tanto auspicato della vita consacrata passa anche, e in gran parte, attraverso il coinvolgimento coraggioso e responsabile – anche questo è parresia – di tutti i religiosi nei problemi in discussione. Restare ai margini svela il poco o il nessun interesse reale alla famiglia nella quale si vive e non costruisce una realtà condivisa perché discussa, partecipata, comunicata. La parresia dichiara che i religiosi sono dei credenti nella nobiltà dei figli di Dio e nella libertà interiore che Gesù ha portato. E la sua accettazione da parte di chi è proposto alla comunità esprime il riconoscimento della dignità del discepolo di Cristo e la volontà di condivisione, di revisione, di corresponsabilità. In una parola che il dialogo è l’unica via per edificare una comunità dove non vi siano ostracismi, relegazioni, livelli e gradi più o meno percettibili, ma fratelli, uniti dalla stessa missione di edificare, il meno peggio possibile, la comunità di Cristo.

 

Ennio Bianchi