RIFONDARE LA COMUNITÀ

SETTE “BUONE PRATICHE”

 

Noi vogliamo condividere la nostra fede e il nostro senso della missione, vorremmo conoscerci meglio reciprocamente, condividere anche cose diverse dal lavoro, essere degli “amici del Signore”, ma sembra che non sappiamo come fare. Per tentare di riuscirci, p. Ted Kammer suggerisce alcune proposte, interessanti e impegnative.

 

Il tema della comunità è uno di quegli argomenti di cui si continua a parlare, forse anche troppo. Ma nonostante tutte le migliori argomentazioni e i tentativi compiuti sembra che il raggiungimento dell’ideale evangelico sia piuttosto ancora lontano. Fortunatamente sappiamo che la comunità è più una realtà verso cui tendere, una meta da raggiungere che non un dono già posseduto. Non ci si dovrà perciò mai stancare di costruirla giorno per giorno con infinita pazienza e senza sognare ideali irrealizzabili. Ma come impegnarsi, quali le strade da percorrere?

Lo “Speciale” che qui pubblichiamo, pur non avendo la pretesa di rispondere a tutti gli interrogativi, offre un insieme di proposte che se attuate possono indubbiamente cooperare a migliorare il clima spirituale e fraterno delle nostre comunità. Si tratta di una lettera scritta dal provinciale statunitense della provincia dei gesuiti di New Orleans, Ted Kammer, in occasione della festa di sant’Ignazio 2003 in cui egli espone sette “buone ragioni” per rifondare la vita di comunità, se si vuole sottrarla all’individualismo e alle deriva da cui è minacciata. Alcune proposte hanno evidentemente un riferimento di sapore “americano”, ma al di là di alcuni particolari, lo spirito che anima queste proposte è ricco di suggerimenti per tutti. Ed è significativo che ad avanzarle sia un provinciale dei gesuiti, sapendo che per tradizione nella Compagnia di Gesù, sorta con una forte spinta verso l’esterno e la missione, il modo di concepire la comunità e di viverne dinamismo è più duttile ed elastico di quello di altri istituti più recenti. Il fatto che vengano richiamate le coordinate fondamentali senza le quali non può esistere vera comunità, indica che la comunità fraterna rimane per tutti un fattore essenziale da cui non si può prescindere.

 

Cari fratelli in Cristo. In questi quarant’anni, dopo il Vaticano II e la 31ª Congregazione generale, abbiamo vissuto dei profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere in comunità. Da una organizzazione quotidiana minuziosa e fortemente strutturata, spesso accompagnata da campane o campanelli, siamo passati a degli stili informali di vita comunitaria, segnati da orari flessibili, da tempi e modi di preghiera individualizzati, da pasti presi a un buffet, e a una maggiore apertura delle nostre case a persone venute dall’esterno.

Coloro tra noi che hanno vissuto questi cambiamenti nelle nostre comunità in generale li hanno accolti in maniera favorevole e vi si sono adeguati piuttosto confortevolmente. In mezzo a tutti questi cambiamenti, molti sono d’accordo nel dire che la nostra provincia si distingue per un amore fraterno autentico, per amicizie profonde che durano dei decenni, per una relativa semplicità di vita e un senso di ospitalità ben noto in tutta l’assistenza (n.d.r. gruppo di province). Le nostre comunità, inoltre, hanno una tradizione di generosità in materia di sostegno finanziario reciproco e di aiuto ai gesuiti venuti dall’estero per studiare. Quest’anno abbiamo compiuto un nuovo sforzo comunitario a favore delle vocazioni, invitando altre persone a venire a unirsi a noi per servire nella vigna del Signore.

Tuttavia, molti di noi hanno la sensazione che, nonostante tutti questi cambiamenti, ci manchi qualcosa. Come ha scritto il padre generale in una lettera del 1998 sulla vita comunitaria: «Leggendo queste centinaia di lettere che evocano tante esperienze felici e anche tante difficoltà nella nostra vita comunitaria, si avverte dappertutto il desiderio sincero e urgente di compiere una svolta: non possiamo più accontentarci di essere più o meno insieme in un corpo apostolico universale, dobbiamo crescere insieme come servi della missione di Cristo, nella realtà concreta della vita comunitaria» (12 marzo 1998).

Noi vogliamo condividere la nostra fede e il nostro senso della missione, ma sembra che non sappiamo come fare. Sappiamo che esistono tra noi delle divisioni dal punto di vista della teologia, dell’età, della politica, delle priorità apostoliche o dell’ecclesiologia; ma siamo restii a discuterne francamente per paura di aggravare la situazione. Vorremmo conoscerci meglio reciprocamente, condividere anche altre cose diverse dal lavoro, essere degli “amici del Signore”; ma il sovraccarico di lavoro, la televisione e i modelli di socializzazione consolidati fuori della nostra comunità ci lasciano poco tempo gli uni per gli altri.

Un tempo, almeno nelle grandi comunità costituite da varie decine di gesuiti, l’assenza di un numero anche significativo di individui alla preghiera, all’Eucaristia o ai pasti non sempre si notava. Ora che formiamo dei gruppi meno numerosi, alcuni di noi hanno spesso fatto l’esperienza di trovarsi “in casa da soli”; e molti fratelli mi hanno espresso il loro sentimento acuto di perdita di un tipo di comunità che sembrava comune nel passato (anche se altri sostengono che si tratta più di una nostalgia che di una realtà). Abbiamo spesso l’impressione di non pregare più insieme, di non mangiare più insieme, di non ricrearci insieme, di non pensare insieme e di non essere un segno visibile del corpo di Cristo che possa facilmente essere colto da coloro che ci guardano o che hanno intenzione di unirsi alle nostre file.

Secondo alcuni, sembriamo oggi ancora più lontani dai tre ideali della comunità gesuita sottolineati dalle nostre ultime congregazioni gesuite: communitas ad dispersionem (comunità di persone in missione), koinonia (comunione fraterna) centrata sull’Eucaristia, e comunità di discernimento. Tra le nostre comunità ce n’è una sola che possa essere considerata come un modello di vita comunitaria gesuita? Con un’insistenza ancora maggiore, il padre generale mette l’accento sul rischio che coloro che frequentano le nostre comunità non giungano a scoprire la ragione della nostra vita in comune, che è il Cristo e la sua buona novella. Lo sforzo qui richiesto non ignora in alcun modo lo slancio delle nostre comunità in quanto comunità apostoliche al servizio del Vangelo, uno slancio che è al centro di questa lettera. Consiste piuttosto nel progredire nella comprensione, sottolineata dal padre generale, che le nostre comunità devono essere “apostoliche” precisamente nel modo in cui viviamo e preghiamo insieme, in cui ci testimoniamo reciprocamente un affetto profondo e in cui manifestiamo visibilmente lo Spirito Santo a coloro che ci avvicinano. La vita comunitaria non si oppone all’apostolato. Al contrario, come osserva il padre generale: «Essa stessa è parte integrante della missione in quanto testimonia la comunione, quando delle persone che nulla destinava a vivere insieme fanno sì che il comandamento nuovo dell’amore non resti una bella parola di Cristo, ma si attui nell’esistenza umana. È ovvio che una vita comunitaria di tale portata evangelica è assai più di una semplice condivisione del medesimo tetto, di una stessa mensa e di un medesimo regolamento. C’è qui un’esigenza che per molti di noi si rivela piuttosto nuova.

Senza una condivisione della nostra fede, delle nostre ragioni di vivere e di lavorare come compagni di Gesù, delle nostre esperienze profonde nell’incontro con Colui che ci invia, non ci sarà testimonianza».

La nostra vita comunitaria offre una siffatta testimonianza apostolica? La nostra fede e la nostra missione sono evidenti nel modo in cui viviamo insieme?

Nello stesso tempo, e nonostante i problemi della nostra vita comunitaria citati sopra, numerose comunità hanno continuato a pregare, a dialogare, a ricrearsi insieme e a riunirsi seguendo modalità che nutrono allo stesso tempo lo spirito e l’apostolato. Esperienze di nuove modalità di vita comunitaria sono state fatte nelle università, nei collegi, nelle parrocchie nei centri di esercizi e nell’apostolato sociale. Alcuni di noi hanno formato quelle che chiamiamo “comunità di intenzione”, i cui membri fanno ogni anno una specie di “contratto” con cui s’impegnano formalmente a mangiare insieme, pregare insieme, condividere la loro vita e la loro fede, occuparsi dei lavori di ménage, “compresa la cucina”, e a vivere uno stile di vita più semplice, senza domestiche, a volte con i poveri. Questa esperienza mostra che sono questi impegni, assunti espressamente gli uni per gli altri, stabiliti nel dettaglio ( in quale sera ci incontriamo? Quando ci riuniamo a pregare insieme?) e vissuti nella responsabilità reciproca che fanno la differenza nella vita e nella spiritualità comunitaria. Pur sostenendo pienamente questi sforzi per rinforzare la vita comunitaria, le quattro ultime congregazioni generali hanno insistito su una serie di pratiche comunitarie e di riforme compatibili con “una vita consacrata conforme ai consigli evangelici” (CG32, Jesuitas hoy, 23) e una vita comune gesuita vissuta “in comunione di vita, lavoro e sacrificio” (CG32, Jesuitas hoy, 31).

Tuttavia le nostre buone intenzioni e i nostri sforzi per vivere una vita comunitaria gesuita sono stati disuguali secondo le epoche e le comunità. Quando un gesuita passava da un luogo all’altro non era sicuro che la nuova comunità vivesse, pregasse, dialogasse e si ricreasse insieme, né del modo come l’avrebbe fatto. In certi ambienti, in assenza di un accordo che vincolasse a modelli e pratiche destinate a incarnare i nostri ideali comunitari, gli sforzi reali sono stati minimi. Le vecchie pratiche non erano più in vigore e le nuove strutture comunitarie non erano ancora state introdotte o non erano accettate da tutti. il vino vecchio né quello nuovo e nemmeno la loro mescolanza sembrava adattarsi ai nostri otri. I tentativi di rinnovamento furono spesso vittime di esperienze personali e comuni divergenti, di una mancanza di consenso sulle forme nuove o quelle antiche, della riluttanza dei superiori locali ad apparire come coloro che vogliono imporre le nuove o le vecchie strutture senza un certo consenso comunitario o ancora, diciamolo francamente, di una forma di disobbedienza civile da parte di alcuni gesuiti, che rifiutarono semplicemente di accettare gli elementi della vita comune o di partecipare a quelli promossi da altri, compresi quelli promossi dai loro superiori.

A causa del nostro incrollabile idealismo, dei successi ottenuti nella nostra vita comunitaria e delle nostre frustrazioni circa la comunità, vi chiedo oggi di aderire a una iniziativa comunitaria nella nostra provincia. La sua necessità è diventata di giorno in giorno più evidente e importante ai miei occhi nel corso delle visite compiute quest’anno e delle lunghe conversazioni che ho avuto con i consultori provinciali, come pure con i superiori locali in occasione del loro incontro nel mese di maggio.

Ci sono due ragioni per questa iniziativa. La prima è dovuta al fatto che una maggioranza di noi chiede più vita comunitaria di quanto ci offrano la maggior parte delle nostre comunità. La seconda deriva dal fatto che ci sono delle pratiche comuni, alcune antiche, altre nuove che hanno mostrato nei fatti di poter ravvivare sia la vita comunitaria sia l’apostolato in questo inizio del nuovo secolo. Sono quelle che chiamerei le “buone pratiche”, nel contesto degli Stati Uniti. Tutte sono applicate oggi nell’una o nell’altra comunità della nostra provincia come anche in un certo numero della nostra assistenza. Non sono assolute e possono non convenire a tutte le nazioni e culture. Certuni non saranno d’accordo con queste pratiche, altri ne comprenderanno l’importanza, altri ancora accoglieranno favorevolmente questa iniziativa. Ma chiedo con insistenza a ogni comunità, sotto la guida del proprio superiore locale e con gli adattamenti richiesti dalle situazioni del luogo, di lavorare e pregare seriamente per sforzarsi di metterle tutte in pratica durante l’anno apostolico 2003-2004 e negli anni seguenti.

Alla base di questo sforzo c’è la convinzione che l’unione degli spiriti e dei cuori può permetterci di superare molte differenze. A più riprese alcuni documenti autorevoli della nostra Compagnia ci hanno esortato all’unione degli spiriti e dei cuori, come “un segno visibile dell’amore con cui il Padre ama tutti gli uomini” (CG32, La unione de los animos, doc. 11). Siamo chiamati a essere “veri fratelli e amici in Cristo” , i quali, con la loro vita comunitaria, danno “testimonianza della presenza di Dio tra gli uomini” (doc. 11). Per vivere questo amore, dobbiamo far fronte alle differenze dovute al contesto socioculturale, all’educazione famigliare, alle scuole teologiche, ai modelli di formazione come pure all’individualismo dominante che caratterizza fortemente la nostra cultura. Abbiamo certo bisogno di flessibilità nel nostro modo di vivere insieme, ma, allo stesso tempo, dobbiamo avere uno stile di vita ben strutturato che favorisca la preghiera, lo svago, la celebrazione e il servizio apostolico (doc 11).

 

LE SETTE

“BUONE PRATICHE”

 

Che cosa chiedo alle comunità? Questa iniziativa ha bisogno che siano applicate da tutti i superiori e da tutte le comunità locali le seguenti sette “buone pratiche” della vita comunitaria.

 

Eucaristia quotidiana

 

A più riprese i documenti dei generali e delle congregazioni generali hanno esortato le comunità alla preghiera comune e condivisa, a iniziare dall’Eucaristia. L’Eucaristia deve essere celebrata quotidianamente nelle nostre comunità gesuite o nelle parrocchie, scuole e centri di esercizi che ne dipendono, con i nostri colleghi, studenti, parrocchiani ed esercizianti. Bisogna inoltre prevedere ogni settimana un momento in cui tutta la comunità gesuita si riunisce per l’Eucaristia. E questo anche se i sacerdoti hanno già celebrato altrove o hanno detto la messa nella parrocchia. Le parrocchie possono organizzare una concelebrazione in occasione della messa principale del weekend dove la comunità gesuita diviene un segno per tutta la comunità parrocchiale, oppure in un giorno della settimana in cui la comunità si riunisce insieme per il pranzo o in occasione delle feste gesuite.

 

Preghiera quotidiana fatta insieme

 

I superiori e le comunità veglieranno affinché ci sia una preghiera comune quotidiana e un lungo tempo di preghiera a intervalli regolari (CG, doc. 11). Certe comunità trovano comodo fare la preghiera quotidiana prima del pasto principale. Più che una semplice azione di grazie prima dei pasti, questo tempo di preghiera può essere insieme preghiera quotidiana in comune e benedizione sul pasto da condividere. Un tempo di preghiera più prolungato sarà previsto in occasione delle feste gesuite, durante la quaresima e l’avvento, nei momenti di bisogno o in occasione di una celebrazione particolare (per esempio un malato in comunità, guerre, riunione della provincia, ecc.).

La forma di preghiera varierà secondo le comunità e forse anche secondo colui che è incaricato di guidarla in quel momento. Un tempo erano prescritte le litanie dei santi. Oggi le comunità si servono di estratti o di adattamenti della liturgia delle ore, di libri adatti alla preghiera comune o di fogli di preghiere prodotti individualmente. La forma e il contenuto delle preghiere possono essere dettate dai bisogni particolari di coloro che sono impegnati nell’apostolato, dai grandi avvenimenti mondiali o dai bisogni della Chiesa.

 

Pasto comunitario settimanale al quale tutti coloro che vivono in città devono partecipare

 

Un altro elemento essenziale della nostra vita comunitaria è la condivisione dei pasti e la conversazione che li accompagna. Così come l’Eucaristia è al centro della nostra vita spirituale, allo stesso modo il pasto in comune è essenziale alla nostra comunità umana. In certe comunità i pasti quotidiani in comune sono un modello che serve di complemento alla vita apostolica dei membri. Tuttavia, la grandezza della comunità e la molteplicità delle sue opere fanno sì che un pasto quotidiano preso insieme sia più l’eccezione che la regola, così come oggi le famiglie americane fanno fatica a conciliare i diversi orari di lavoro e di scuola per riuscire a riunirsi regolarmente attorno alla mensa.

Le comunità si sforzeranno in primo luogo di organizzare almeno un pasto in comune ogni giorno e i membri saranno incoraggiati a prendere questo pasto insieme. Ma ciò che è ancora più importante è che le comunità programmino un pasto settimanale al quale tutti i membri sono tenuti a partecipare dietro loro responsabilità. In occasione di questo pasto si organizzerà un lungo tempo di distensione, una preghiera comune più prolungata e forse anche il momento principale della riunione della comunità.

 

Giornate di dialogo e di riflessione all’inizio e alla fine dell’anno per una conversazione, una preghiera e una programmazione più approfondita

 

Più ancora, dobbiamo essere comunità capaci di parlare della vita spirituale, in particolare della nostra e di discernere la volontà di Dio sulle persone e la comunità, per meglio vivere e compiere la nostra missione oggi. Ma a questo scopo bisogna che ci sia tra di noi una reciproca conoscenza che vada al di là dell’affetto, dell’amicizia e dell’ospitalità, cose per le quali la nostra provincia è conosciuta. Una conoscenza che vada al di là della condivisione durante i pasti presi insieme, nel lavoro e nelle nostre attività quotidiane in scuola o in parrocchia. Questa conoscenza richiede “una fiduciosa e amichevole comunicazione spirituale” (Norme complementari, 324). Essa include la celebrazione dell’Eucaristia fatta insieme, la preghiera e la conversazione condivisa, delle preghiere comuni quotidiane e prolungati momenti di preghiera in certe circostanze, come le celebrazioni penitenziali e le giornate di ritiro.

Per favorire questo genere di discorso nuovo e a volte difficile, alcune comunità hanno introdotto nel loro calendario, in questi ultimi decenni, delle giornate di dialogo all’inizio e alla fine dell’anno apostolico, degli spazi regolari per conversazioni serie durante la settimana, una riflessione condivisa sulla Scrittura, la reintroduzione de casus conscientiae (presentazione e discussione di casi complessi di teologia morale, nuovi e urgenti), così come l’analisi sociale in gruppo e la riflessione teologica sui fatti di attualità capitati nell’ambiente che ci circonda, nella città o nel paese. Queste pratiche che non sono generalmente alla base della direzione spirituale o del sacramento della riconciliazione, favoriscono un discorso spirituale serio che cresce nel tempo e nutre le relazioni profonde, proprie degli “amici del Signore”.

Durante queste giornate lontano dalla scuola o dalla parrocchia, all’inizio o alla fine dell’anno, i membri della comunità costruiscono questo tipo di rapporti grazie a scambi più approfonditi riguardanti la loro vita prima di entrare nella Compagnia, le loro famiglie, la storia ella loro vocazione, la valutazione del lavoro compiuto negli anni passati, la loro salute, le loro speranze apostoliche e comunitarie per l’anno a venire o ancora, più in generale, chi sono, il loro senso della missione apostolica e come auspicano di vivere insieme. Quando esisterà in genere una buona intesa tra di noi, la nuova sfida consisterà nel compiere un passo ulteriore verso una maggiore fiducia reciproca, accettando di uscire dal bozzolo che ci siamo creati verso una maggiore trasparenza e vulnerabilità, in quanto gruppo di individui formati in gran parte negli Stati Uniti.

 

Una riunione comunitaria settimanale o quindicinale della comunità per l’incontro, la preghiera, la condivisione della fede e il discernimento

 

A intervalli regolari,“di preferenza tutte le settimane”, le comunità devono riservarsi uno spazio per discutere più a fondo di un problema grave, un tempo di condivisione della fede, di riflessione sulla vita comunitaria, di svago o, per coloro che condividono un apostolato, di discussione sui relativi obiettivi e la metodologia. Questo può essere un incontro della comunità, una riflessione condivisa sulle Scritture della domenica seguente, un casus conscientiae, ecc. Spesso queste riunioni hanno luogo in occasione del pasto principale comunitario settimanale e dell’Eucaristia celebrata insieme per tutta la comunità.

Questo scambio regolare delle esperienze di fede può essere difficile per coloro tra noi che sono stati educati in una cultura religiosa che metteva l’accento sulle devozioni private, e formati in un mondo spirituale maschile che, fino a poco tempo fa, passava sotto silenzio gli insuccessi e le frustrazioni, riservando questi problemi al campo privato dell’esame di coscienza, delle conversazioni col direttore spirituale o con un amico intimo, oppure ancora al sacramento della riconciliazione. Perciò, se noi gesuiti non abbiamo il senso della gioia profonda dell’altro quando annunciamo la Parola o guariamo i peccatori, come possiamo aiutare i nostri fratelli a discernere la chiamata personale al ministero, o il nostro invito comune ai ministeri pastorali? Se non possiamo parlare francamente delle nostre reticenze o delle nostre paure, o dei nostri desideri insaziabili per questo o quell’oggetto, come potremo discernere liberamente insieme lo stile di vita delle nostre comunità? E se non parliamo mai tra di noi del modo in cui incontriamo il Cristo nella preghiera o nella lettura delle Scritture, come possiamo discernere insieme ciò a cui il Cristo ci chiama come corpo apostolico nel mondo d’oggi?

 

Partecipazione ai compiti comuni

 

Un modo di essere fratelli avviene attraverso il servizio vicendevole. In questo seguiamo

l’esempio di Gesù che lavò i piedi ai suoi discepoli la sera prima di morire per noi. Ogni membro della comunità, a meno che non sia impedito per malattia o infermità, deve svolgere un compito che richiede da parte sua del tempo e degli sforzi, come modo per contribuire alla vita della comunità (CG31). Tutte le comunità forse non saranno in grado di attuare questo punto, ma diverse hanno già rinunciato volontariamente a tutti i loro impiegati. Ciò comporta un fardello supplementare per quanto riguarda le incombenze, la cucina e il ménage da parte dei membri della comunità; ma questi parlano in genere di un livello accresciuto di interazione comunitaria e di soddisfazione e di legami di affetto più stretti. Questo stile è allo stesso tempo più vicino a quello della famiglia modesta, uno degli obiettivi che ci vengono indicati dalla Compagnia, poiché qui da noi solo le famiglie che dispongono di entrate ben superiori alla media possono permettersi di avere del personale di servizio. In certe comunità dove non era possibile rinunciare a questo personale, il suo numero è stato notevolmente ridotto.

 

Apertura degli spazi comuni alle persone esterne

 

A più riprese le più alte autorità della Compagnia ci hanno esortato ad aprire gli spazi comuni delle nostre comunità per accogliervi i nostri colleghi laici, gli studenti, gli esercizianti o le parrocchie. La maggior parte delle comunità hanno cominciato a farlo secondo modalità diverse, per esempio, invitando regolarmente i colleghi insegnanti a una serata di accoglienza o le équipes parrocchiali a una cena con la comunità; ma questa pratica non è diffusa ovunque. Le comunità devono adottare delle iniziative concrete per creare questa ospitalità, rimanendo consapevoli dei limiti imposti dell’esigenza che noi abbiamo di avere dei momenti e dei luoghi riservati e prevedendo una protezione prudente contro le accuse di sconvenienza. Gli scandali attuali nella Chiesa mostrano come è importante che siamo chiari nelle nostre attese reciproche e nei limiti che vi mettiamo.

 

Una nota particolare per la televisione. Come in tante famiglie, le innumerevoli ore trascorse davanti alla televisione, da soli o in gruppo, sono comuni a molte comunità. Ora è stato dimostrato che la televisione può creare una dipendenza. Inoltre, i telecomandi hanno spesso trasformato le sedute comunitarie davanti alla televisione in una interazione personale con una molteplicità di programmi. Le nostre comunità e gli individui che le compongono possono riservarsi un po’ di tempo quest’anno per interrogarsi sul posto della televisione nella loro comunità e nella loro vita personale? La televisione è al centro dello spazio ricreativo, in modo che ogni conversazione seria diviene difficile o impossibile? La conversazione comunitaria è stata sostituita da osservazioni fuggevoli scambiate durante gli spot pubblicitari? I membri della comunità sono più interessati ai giornali nazionali prima della cena o ai giornali locali alla fine della serata che non ai momenti di relax trascorsi insieme? Lo sport alla televisione, o qualsiasi altro programma, è più sacro della preghiera comune o dei pasti presi insieme? In che modo la televisione e i film noleggiati rafforzano l’individualismo anticomunitario e i valori antievangelici e riempiono il nostro spazio di immagini molto lontane da quelle di Cristo casto, povero e umile (CG34)?

La stessa cosa vale per i computer personali, l’internet, i videogiochi ecc, e i medesimi interrogativi si pongono a proposito del loro uso eccessivo e del loro influsso deleterio in comunità.

 

Applicazione: queste buone pratiche hanno dimostrato il loro valore per le comunità gesuite degli Stati Uniti oggi che si propongono gli obiettivi stabiliti dalle diverse congregazioni generali. Esse non sono negoziabili ad libitum anche se ciascuna comunità può determinare il modo di applicarle nella situazione locale. In ogni caso, il superiore può, d’accordo con il consultore, propormi dei mezzi alternativi per raggiungere gli stessi obiettivi: le comunità che pregano insieme, che condividono la loro fede, i cui membri si conoscono profondamente tra di loro, che prendono parte alla vita e al lavoro comunitario sono capaci anche di discernimento apostolico comunitario e dell’azione comune che esso produce.

Inoltre, si presume che i singoli membri delle comunità non abbiano a escludere da queste pratiche di comunità quelle che non trovano di loro gusto. Non si può accettare che altri si accontentino di una coesistenza pacifica che permette certamente di ignorare le tensioni e le incomprensioni esistenti, ma che impedisce anche un vero progresso nella vita comunitaria.

In occasione delle mie visite nei mesi prossimi, ho l’intenzione di parlare con le comunità del modo in cui esse possono integrare queste sette pratiche nella loro vita comunitaria e degli aiuti di cui possono avere bisogno per attuarle concretamente. Per riuscirvi realmente può darsi che alcuni debbano acquisire un nuovo savoir-faire, compresi i superiori, e che altri abbiano bisogno di molta pazienza e di preghiera. Queste pratiche costituiscono una sfida per ciascuno di noi per avere in futuro una vita comunitaria e una spiritualità più soddisfacenti e gioiose, anche se ciò non avverrà senza fatica e senza contrasti lungo il cammino. Malgrado tutti i dubbi e le incertezze, vi chiedo con insistenza di provarle perché come dice la pubblicità “provarle vuol dire adottarle”.

 

Conclusione: questa iniziativa non sarà facile. Ci sono centinaia di “buone ragioni” per non applicare queste buone pratiche nella loro totalità o in parte. Certi punti saranno difficili o fastidiosi per alcuni di noi. Ma sono persuaso che se non adottiamo delle misure coraggiose e decisive per migliorare la nostra vita comunitaria continueremo ad andare alla deriva e a vedere degradarsi l’integrità della nostra comunità sotto l’impatto culturale potente dell’individualismo, dello stakanovismo e del consumismo, oppure semplicemente della televisione. Possiamo trarre la nostra forza da uno sforzo comune di tutta la provincia imparando reciprocamente dai nostri successi e insuccessi durante l’anno. Se non interveniamo tutti insieme, sarà troppo facile per una comunità scoraggiarsi di fronte a progressi troppo lenti. Con il risultato che l’insoddisfazione che proveremo a riguardo della nostra vita di comunità si aggraverà e continuerà a rattristarci.

Lo ripeto, in occasione delle mie visite alle comunità quest’anno, sarei felice di parlare con voi di questa iniziativa, individualmente e nei nostri incontri comunitari, di celebrare i vostri progressi e di discutere le vostre difficoltà. La mia speranza è che lavoriate sodo in uno spirito di collaborazione, sotto la guida dei superiori locali all’attuazione dei sette punti essenziali di questa iniziativa. E anche se la comunità non agisce, ciascuno di noi può fare qualche cosa per stringere i legami che ci uniscono nella Compagnia. Come dice il padre generale: «… la tendenza resta ancora molto forte ad aspettare sia l’iniziativa del superiore sia l’adesione unanime – poco probabile – della comunità, anziché assumere ciascuno la propria responsabilità».

Ringrazio i consultori e i superiori locali per il contributo inestimabile a questo sforzo di rinnovamento della nostra comunità e grazie a voi tutti in anticipo di accettare di considerare seriamente questo problema, sia individualmente sia in comunità.

 

Ted Kammer sj