RIFONDARE LA COMUNITÀ
SETTE “BUONE PRATICHE”
Noi vogliamo condividere la nostra fede e il
nostro senso della missione, vorremmo conoscerci
meglio reciprocamente, condividere anche cose diverse dal lavoro, essere degli
“amici del Signore”, ma sembra che non sappiamo come fare. Per tentare di
riuscirci, p. Ted Kammer suggerisce alcune proposte, interessanti e
impegnative.
Il tema della comunità è uno di quegli
argomenti di cui si continua a parlare, forse anche troppo. Ma
nonostante tutte le migliori argomentazioni e i tentativi compiuti sembra che
il raggiungimento dell’ideale evangelico sia piuttosto ancora lontano.
Fortunatamente sappiamo che la comunità è più una realtà verso cui tendere, una
meta da raggiungere che non un dono già posseduto. Non ci si dovrà perciò mai
stancare di costruirla giorno per giorno con infinita pazienza e senza sognare
ideali irrealizzabili. Ma come impegnarsi, quali le
strade da percorrere?
Lo “Speciale” che qui pubblichiamo, pur non
avendo la pretesa di rispondere a tutti gli interrogativi, offre
un insieme di proposte che se attuate possono indubbiamente cooperare a
migliorare il clima spirituale e fraterno delle nostre comunità. Si tratta di
una lettera scritta dal provinciale statunitense della provincia dei gesuiti di
New Orleans, Ted Kammer, in occasione della festa di sant’Ignazio 2003 in cui
egli espone sette “buone ragioni” per rifondare la vita di comunità, se si
vuole sottrarla all’individualismo e alle deriva da
cui è minacciata. Alcune proposte hanno evidentemente un riferimento di sapore
“americano”, ma al di là di alcuni particolari, lo
spirito che anima queste proposte è ricco di suggerimenti per tutti. Ed è significativo che ad avanzarle sia un provinciale dei
gesuiti, sapendo che per tradizione nella Compagnia di Gesù, sorta con una
forte spinta verso l’esterno e la missione, il modo di concepire la comunità e
di viverne dinamismo è più duttile ed elastico di quello di altri istituti più
recenti. Il fatto che vengano richiamate le coordinate
fondamentali senza le quali non può esistere vera comunità, indica che la
comunità fraterna rimane per tutti un fattore
essenziale da cui non si può prescindere.
Cari fratelli in Cristo. In questi
quarant’anni, dopo il Vaticano II e la 31ª Congregazione generale, abbiamo
vissuto dei profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere in comunità. Da una organizzazione quotidiana minuziosa e fortemente
strutturata, spesso accompagnata da campane o campanelli, siamo passati a degli
stili informali di vita comunitaria, segnati da orari flessibili, da tempi e
modi di preghiera individualizzati, da pasti presi a un buffet, e a una
maggiore apertura delle nostre case a persone venute dall’esterno.
Coloro tra noi che hanno vissuto questi
cambiamenti nelle nostre comunità in generale li hanno
accolti in maniera favorevole e vi si sono adeguati piuttosto confortevolmente.
In mezzo a tutti questi cambiamenti, molti sono d’accordo nel dire che la
nostra provincia si distingue per un amore fraterno autentico, per amicizie
profonde che durano dei decenni, per una relativa semplicità di vita e un senso
di ospitalità ben noto in tutta l’assistenza (n.d.r.
gruppo di province). Le nostre comunità, inoltre, hanno una tradizione di
generosità in materia di sostegno finanziario reciproco e di aiuto
ai gesuiti venuti dall’estero per studiare. Quest’anno abbiamo compiuto un
nuovo sforzo comunitario a favore delle vocazioni, invitando altre persone a
venire a unirsi a noi per servire nella vigna del
Signore.
Tuttavia, molti di noi hanno la sensazione
che, nonostante tutti questi cambiamenti, ci manchi qualcosa. Come ha scritto
il padre generale in una lettera del 1998 sulla vita comunitaria: «Leggendo
queste centinaia di lettere che evocano tante esperienze felici e anche tante
difficoltà nella nostra vita comunitaria, si avverte dappertutto il desiderio
sincero e urgente di compiere una svolta: non possiamo più accontentarci di essere più o meno insieme in un corpo apostolico
universale, dobbiamo crescere insieme come servi della missione di Cristo,
nella realtà concreta della vita comunitaria» (12 marzo 1998).
Noi vogliamo condividere la nostra fede e il
nostro senso della missione, ma sembra che non sappiamo come fare. Sappiamo che
esistono tra noi delle divisioni dal punto di vista della
teologia, dell’età, della politica, delle priorità apostoliche o
dell’ecclesiologia; ma siamo restii a discuterne francamente per paura di
aggravare la situazione. Vorremmo conoscerci meglio reciprocamente, condividere
anche altre cose diverse dal lavoro, essere degli “amici del Signore”; ma il
sovraccarico di lavoro, la televisione e i modelli di socializzazione
consolidati fuori della nostra comunità ci lasciano poco tempo gli uni per gli
altri.
Un tempo, almeno nelle grandi comunità
costituite da varie decine di gesuiti, l’assenza di un numero anche significativo di individui alla preghiera, all’Eucaristia o
ai pasti non sempre si notava. Ora che formiamo dei gruppi meno numerosi,
alcuni di noi hanno spesso fatto l’esperienza di trovarsi “in casa da soli”; e
molti fratelli mi hanno espresso il loro sentimento acuto di perdita di un tipo
di comunità che sembrava comune nel passato (anche se
altri sostengono che si tratta più di una nostalgia che di una realtà). Abbiamo
spesso l’impressione di non pregare più insieme, di non mangiare più insieme,
di non ricrearci insieme, di non pensare insieme e di non essere un segno
visibile del corpo di Cristo che possa facilmente
essere colto da coloro che ci guardano o che hanno intenzione di unirsi alle
nostre file.
Secondo alcuni, sembriamo oggi ancora più
lontani dai tre ideali della comunità gesuita sottolineati dalle nostre ultime
congregazioni gesuite: communitas ad dispersionem
(comunità di persone in missione), koinonia (comunione fraterna) centrata
sull’Eucaristia, e comunità di discernimento. Tra le nostre comunità ce n’è una
sola che possa essere considerata come un modello di
vita comunitaria gesuita? Con un’insistenza ancora maggiore, il padre generale
mette l’accento sul rischio che coloro che frequentano
le nostre comunità non giungano a scoprire la ragione della nostra vita in
comune, che è il Cristo e la sua buona novella. Lo sforzo qui richiesto non
ignora in alcun modo lo slancio delle nostre comunità in
quanto comunità apostoliche al servizio del Vangelo, uno slancio che è
al centro di questa lettera. Consiste piuttosto nel progredire nella
comprensione, sottolineata dal padre generale, che le nostre comunità devono
essere “apostoliche” precisamente nel modo in cui viviamo e preghiamo insieme,
in cui ci testimoniamo reciprocamente un affetto profondo e in cui manifestiamo
visibilmente lo Spirito Santo a coloro che ci avvicinano. La vita comunitaria
non si oppone all’apostolato. Al contrario, come osserva il padre generale:
«Essa stessa è parte integrante della missione in quanto
testimonia la comunione, quando delle persone che nulla destinava a vivere
insieme fanno sì che il comandamento nuovo dell’amore non resti una bella
parola di Cristo, ma si attui nell’esistenza umana. È ovvio che una vita
comunitaria di tale portata evangelica è assai più di una semplice condivisione
del medesimo tetto, di una stessa mensa e di un medesimo regolamento. C’è qui
un’esigenza che per molti di noi si rivela piuttosto nuova.
Senza una condivisione della nostra fede,
delle nostre ragioni di vivere e di lavorare come compagni di Gesù, delle
nostre esperienze profonde nell’incontro con Colui che
ci invia, non ci sarà testimonianza».
La nostra vita comunitaria offre una
siffatta testimonianza apostolica? La nostra fede e la nostra missione sono
evidenti nel modo in cui viviamo insieme?
Nello stesso tempo, e nonostante i problemi
della nostra vita comunitaria citati sopra, numerose comunità
hanno continuato a pregare, a dialogare, a ricrearsi insieme e a riunirsi
seguendo modalità che nutrono allo stesso tempo lo spirito e l’apostolato.
Esperienze di nuove modalità di vita comunitaria sono
state fatte nelle università, nei collegi, nelle parrocchie nei centri di
esercizi e nell’apostolato sociale. Alcuni di noi hanno formato quelle che
chiamiamo “comunità di intenzione”, i cui membri fanno
ogni anno una specie di “contratto” con cui s’impegnano formalmente a mangiare
insieme, pregare insieme, condividere la loro vita e la loro fede, occuparsi
dei lavori di ménage, “compresa la cucina”, e a vivere uno stile di vita più
semplice, senza domestiche, a volte con i poveri. Questa esperienza mostra che
sono questi impegni, assunti espressamente gli uni per gli altri, stabiliti nel
dettaglio ( in quale sera ci incontriamo? Quando ci riuniamo a pregare insieme?) e vissuti nella
responsabilità reciproca che fanno la differenza nella vita e nella
spiritualità comunitaria. Pur sostenendo
pienamente questi sforzi per rinforzare la vita comunitaria, le quattro ultime
congregazioni generali hanno insistito su una serie di pratiche comunitarie e
di riforme compatibili con “una vita consacrata conforme ai consigli
evangelici” (CG32, Jesuitas hoy, 23) e una vita comune gesuita vissuta “in
comunione di vita, lavoro e sacrificio” (CG32, Jesuitas hoy, 31).
Tuttavia le nostre buone intenzioni e i
nostri sforzi per vivere una vita comunitaria gesuita sono stati disuguali
secondo le epoche e le comunità. Quando un gesuita passava
da un luogo all’altro non era sicuro che la nuova comunità vivesse, pregasse,
dialogasse e si ricreasse insieme, né del modo come l’avrebbe fatto. In certi
ambienti, in assenza di un accordo che vincolasse a modelli e pratiche
destinate a incarnare i nostri ideali comunitari, gli
sforzi reali sono stati minimi. Le vecchie pratiche non erano più in vigore e
le nuove strutture comunitarie non erano ancora state introdotte o non erano
accettate da tutti. Né il vino vecchio né quello nuovo
e nemmeno la loro mescolanza sembrava adattarsi ai nostri otri. I tentativi di
rinnovamento furono spesso vittime di esperienze
personali e comuni divergenti, di una mancanza di consenso sulle forme nuove o
quelle antiche, della riluttanza dei superiori locali ad apparire come coloro
che vogliono imporre le nuove o le vecchie strutture senza un certo consenso comunitario
o ancora, diciamolo francamente, di una forma di disobbedienza civile da parte
di alcuni gesuiti, che rifiutarono semplicemente di accettare gli elementi
della vita comune o di partecipare a quelli promossi da altri, compresi quelli
promossi dai loro superiori.
A causa del nostro incrollabile idealismo,
dei successi ottenuti nella nostra vita comunitaria e delle nostre frustrazioni
circa la comunità, vi chiedo oggi di aderire a una
iniziativa comunitaria nella nostra provincia. La sua necessità è diventata di
giorno in giorno più evidente e importante ai miei occhi nel corso delle visite
compiute quest’anno e delle lunghe conversazioni che ho avuto con i consultori
provinciali, come pure con i superiori locali in occasione del loro incontro
nel mese di maggio.
Ci sono due ragioni per questa
iniziativa. La prima è dovuta al fatto che una
maggioranza di noi chiede più vita comunitaria di quanto ci offrano la maggior
parte delle nostre comunità. La seconda deriva dal fatto che ci sono delle
pratiche comuni, alcune antiche, altre nuove che hanno mostrato nei fatti di
poter ravvivare sia la vita comunitaria sia l’apostolato in questo
inizio del nuovo secolo. Sono quelle che chiamerei
le “buone pratiche”, nel contesto degli Stati Uniti. Tutte sono applicate oggi
nell’una o nell’altra comunità della nostra provincia come anche in un certo
numero della nostra assistenza. Non sono assolute e possono non convenire a
tutte le nazioni e culture. Certuni non saranno d’accordo con queste pratiche,
altri ne comprenderanno l’importanza, altri ancora accoglieranno favorevolmente
questa iniziativa. Ma chiedo con insistenza a ogni comunità, sotto la guida del proprio superiore locale
e con gli adattamenti richiesti dalle situazioni del luogo, di lavorare e
pregare seriamente per sforzarsi di metterle tutte in pratica durante l’anno
apostolico 2003-2004 e negli anni seguenti.
Alla base di questo sforzo c’è la
convinzione che l’unione degli spiriti e dei cuori può
permetterci di superare molte differenze. A più riprese alcuni documenti
autorevoli della nostra Compagnia ci hanno esortato all’unione degli spiriti e
dei cuori, come “un segno visibile dell’amore con cui il Padre ama tutti gli
uomini” (CG32, La unione de los animos, doc. 11).
Siamo chiamati a essere “veri fratelli e amici in
Cristo” , i quali, con la loro vita comunitaria, danno “testimonianza della
presenza di Dio tra gli uomini” (doc. 11). Per vivere questo amore,
dobbiamo far fronte alle differenze dovute al contesto socioculturale,
all’educazione famigliare, alle scuole teologiche, ai modelli di formazione
come pure all’individualismo dominante che caratterizza fortemente la nostra
cultura. Abbiamo certo bisogno di flessibilità nel nostro modo di vivere
insieme, ma, allo stesso tempo, dobbiamo avere uno stile di vita ben strutturato che favorisca la preghiera, lo svago, la
celebrazione e il servizio apostolico (doc 11).
LE SETTE
“BUONE PRATICHE”
Che cosa chiedo alle comunità? Questa
iniziativa ha bisogno che siano applicate da tutti i
superiori e da tutte le comunità locali le seguenti sette “buone pratiche”
della vita comunitaria.
Eucaristia quotidiana
A più riprese i documenti dei generali e
delle congregazioni generali hanno esortato le comunità alla preghiera comune e
condivisa, a iniziare dall’Eucaristia. L’Eucaristia
deve essere celebrata quotidianamente nelle nostre comunità gesuite o nelle
parrocchie, scuole e centri di esercizi che ne
dipendono, con i nostri colleghi, studenti, parrocchiani ed esercizianti.
Bisogna inoltre prevedere ogni settimana un momento in cui tutta la comunità
gesuita si riunisce per l’Eucaristia. E questo anche se i
sacerdoti hanno già celebrato altrove o hanno detto la messa nella parrocchia.
Le parrocchie possono organizzare una concelebrazione in occasione della messa
principale del weekend dove la comunità gesuita diviene un segno per tutta la
comunità parrocchiale, oppure in un giorno della settimana in cui la comunità
si riunisce insieme per il pranzo o in occasione delle feste gesuite.
Preghiera quotidiana fatta insieme
I superiori e le comunità veglieranno
affinché ci sia una preghiera comune quotidiana e un lungo tempo di preghiera a intervalli regolari (CG, doc. 11). Certe comunità trovano
comodo fare la preghiera quotidiana prima del pasto principale. Più che una semplice
azione di grazie prima dei pasti, questo tempo di preghiera può essere insieme
preghiera quotidiana in comune e benedizione sul pasto da condividere. Un tempo
di preghiera più prolungato sarà previsto in occasione delle feste gesuite,
durante la quaresima e l’avvento, nei momenti di bisogno o in occasione di una
celebrazione particolare (per esempio un malato in comunità, guerre, riunione
della provincia, ecc.).
La forma di preghiera varierà secondo le
comunità e forse anche secondo colui che è incaricato
di guidarla in quel momento. Un tempo erano prescritte
le litanie dei santi. Oggi le comunità si servono di estratti
o di adattamenti della liturgia delle ore, di libri adatti alla preghiera
comune o di fogli di preghiere prodotti individualmente. La forma e il
contenuto delle preghiere possono essere dettate dai
bisogni particolari di coloro che sono impegnati nell’apostolato, dai grandi
avvenimenti mondiali o dai bisogni della Chiesa.
Pasto comunitario settimanale al quale tutti
coloro che vivono in città devono partecipare
Un altro elemento essenziale della nostra
vita comunitaria è la condivisione dei pasti e la conversazione che li
accompagna. Così come l’Eucaristia è al centro della nostra
vita spirituale, allo stesso modo il pasto in comune è essenziale alla
nostra comunità umana. In certe comunità i pasti quotidiani in comune sono un
modello che serve di complemento alla vita apostolica dei membri. Tuttavia, la
grandezza della comunità e la molteplicità delle sue opere fanno sì che un
pasto quotidiano preso insieme sia più l’eccezione che la regola, così come
oggi le famiglie americane fanno fatica a conciliare i diversi orari di lavoro
e di scuola per riuscire a riunirsi regolarmente attorno alla mensa.
Le comunità si sforzeranno in primo luogo di
organizzare almeno un pasto in comune ogni giorno e i membri saranno
incoraggiati a prendere questo pasto insieme. Ma ciò
che è ancora più importante è che le comunità programmino un pasto settimanale
al quale tutti i membri sono tenuti a partecipare dietro loro responsabilità.
In occasione di questo pasto si organizzerà un lungo tempo di distensione, una
preghiera comune più prolungata e forse anche il momento principale della
riunione della comunità.
Giornate di dialogo e di riflessione
all’inizio e alla fine dell’anno per una conversazione, una preghiera e una
programmazione più approfondita
Più ancora, dobbiamo essere comunità capaci
di parlare della vita spirituale, in particolare della nostra e di discernere
la volontà di Dio sulle persone e la comunità, per meglio vivere e compiere la
nostra missione oggi. Ma a questo scopo bisogna che ci sia tra
di noi una reciproca conoscenza che vada al di là dell’affetto,
dell’amicizia e dell’ospitalità, cose per le quali la nostra provincia è
conosciuta. Una conoscenza che vada al di là della
condivisione durante i pasti presi insieme, nel lavoro e nelle nostre attività
quotidiane in scuola o in parrocchia. Questa conoscenza richiede “una fiduciosa
e amichevole comunicazione spirituale” (Norme complementari, 324). Essa include
la celebrazione dell’Eucaristia fatta insieme, la preghiera e la conversazione
condivisa, delle preghiere comuni quotidiane e prolungati momenti di preghiera
in certe circostanze, come le celebrazioni penitenziali e le giornate di ritiro.
Per favorire questo genere di discorso nuovo
e a volte difficile, alcune comunità hanno introdotto
nel loro calendario, in questi ultimi decenni, delle giornate di dialogo
all’inizio e alla fine dell’anno apostolico, degli spazi regolari per
conversazioni serie durante la settimana, una riflessione condivisa sulla
Scrittura, la reintroduzione de casus conscientiae (presentazione e discussione
di casi complessi di teologia morale, nuovi e urgenti), così come l’analisi
sociale in gruppo e la riflessione teologica sui fatti di attualità capitati
nell’ambiente che ci circonda, nella città o nel paese. Queste pratiche che non
sono generalmente alla base della direzione spirituale
o del sacramento della riconciliazione, favoriscono un discorso spirituale
serio che cresce nel tempo e nutre le relazioni profonde, proprie degli “amici
del Signore”.
Durante queste giornate lontano dalla scuola
o dalla parrocchia, all’inizio o alla fine dell’anno, i membri della comunità
costruiscono questo tipo di rapporti grazie a scambi più approfonditi
riguardanti la loro vita prima di entrare nella Compagnia, le loro famiglie, la
storia ella loro vocazione, la valutazione del lavoro
compiuto negli anni passati, la loro salute, le loro speranze apostoliche e
comunitarie per l’anno a venire o ancora, più in generale, chi sono, il loro
senso della missione apostolica e come auspicano di vivere insieme. Quando
esisterà in genere una buona intesa tra di noi, la
nuova sfida consisterà nel compiere un passo ulteriore verso una maggiore fiducia
reciproca, accettando di uscire dal bozzolo che ci siamo creati verso una
maggiore trasparenza e vulnerabilità, in quanto gruppo di individui formati in
gran parte negli Stati Uniti.
Una riunione comunitaria settimanale o
quindicinale della comunità per l’incontro, la preghiera, la condivisione della
fede e il discernimento
A intervalli regolari,“di preferenza tutte le
settimane”, le comunità devono riservarsi uno spazio per discutere più a fondo
di un problema grave, un tempo di condivisione della fede, di riflessione sulla
vita comunitaria, di svago o, per coloro che condividono un apostolato, di
discussione sui relativi obiettivi e la metodologia. Questo può
essere un incontro della comunità, una riflessione condivisa sulle Scritture
della domenica seguente, un casus conscientiae, ecc. Spesso queste riunioni
hanno luogo in occasione del pasto principale comunitario settimanale e
dell’Eucaristia celebrata insieme per tutta la comunità.
Questo scambio regolare delle esperienze di
fede può essere difficile per coloro tra noi che sono
stati educati in una cultura religiosa che metteva l’accento sulle devozioni
private, e formati in un mondo spirituale maschile che, fino a poco tempo fa,
passava sotto silenzio gli insuccessi e le frustrazioni, riservando questi
problemi al campo privato dell’esame di coscienza, delle conversazioni col
direttore spirituale o con un amico intimo, oppure ancora al sacramento della
riconciliazione. Perciò, se noi gesuiti non abbiamo il senso della gioia profonda dell’altro quando annunciamo la Parola o
guariamo i peccatori, come possiamo aiutare i nostri fratelli a discernere la
chiamata personale al ministero, o il nostro invito comune ai ministeri
pastorali? Se non possiamo parlare francamente delle
nostre reticenze o delle nostre paure, o dei nostri desideri insaziabili per
questo o quell’oggetto, come potremo discernere liberamente insieme lo stile di
vita delle nostre comunità? E se non parliamo mai tra di
noi del modo in cui incontriamo il Cristo nella preghiera o nella lettura delle
Scritture, come possiamo discernere insieme ciò a cui il Cristo ci chiama come
corpo apostolico nel mondo d’oggi?
Partecipazione ai compiti comuni
Un modo di essere
fratelli avviene attraverso il servizio vicendevole. In questo seguiamo
l’esempio di Gesù che lavò i piedi ai suoi
discepoli la sera prima di morire per noi. Ogni membro della comunità, a meno
che non sia impedito per malattia o infermità, deve
svolgere un compito che richiede da parte sua del tempo e degli sforzi, come
modo per contribuire alla vita della comunità (CG31). Tutte le comunità forse
non saranno in grado di attuare questo punto, ma diverse hanno
già rinunciato volontariamente a tutti i loro impiegati. Ciò comporta un
fardello supplementare per quanto riguarda le incombenze, la cucina e il ménage
da parte dei membri della comunità; ma questi parlano in genere di un livello
accresciuto di interazione comunitaria e di
soddisfazione e di legami di affetto più stretti. Questo stile è allo stesso
tempo più vicino a quello della famiglia modesta, uno degli obiettivi che ci vengono indicati dalla Compagnia, poiché qui da noi solo le
famiglie che dispongono di entrate ben superiori alla media possono permettersi
di avere del personale di servizio. In certe comunità dove non era possibile
rinunciare a questo personale, il suo numero è stato notevolmente ridotto.
Apertura degli spazi comuni alle persone esterne
A più riprese le più alte autorità della Compagnia
ci hanno esortato ad aprire gli spazi comuni delle nostre comunità per
accogliervi i nostri colleghi laici, gli studenti, gli esercizianti o le
parrocchie. La maggior parte delle comunità hanno
cominciato a farlo secondo modalità diverse, per esempio, invitando
regolarmente i colleghi insegnanti a una serata di accoglienza o le équipes
parrocchiali a una cena con la comunità; ma questa pratica non è diffusa
ovunque. Le comunità devono adottare delle iniziative concrete per creare questa ospitalità, rimanendo consapevoli dei limiti imposti
dell’esigenza che noi abbiamo di avere dei momenti e dei luoghi riservati e
prevedendo una protezione prudente contro le accuse di sconvenienza. Gli
scandali attuali nella Chiesa mostrano come è
importante che siamo chiari nelle nostre attese reciproche e nei limiti che vi
mettiamo.
Una nota particolare per la televisione.
Come in tante famiglie, le innumerevoli ore trascorse davanti alla televisione,
da soli o in gruppo, sono comuni a molte comunità. Ora è stato dimostrato che
la televisione può creare una dipendenza. Inoltre, i telecomandi hanno spesso
trasformato le sedute comunitarie davanti alla televisione in una interazione personale con una molteplicità di programmi.
Le nostre comunità e gli individui che le compongono possono riservarsi un po’
di tempo quest’anno per interrogarsi sul posto della televisione nella loro
comunità e nella loro vita personale? La televisione è al centro dello spazio
ricreativo, in modo che ogni conversazione seria diviene difficile o
impossibile? La conversazione comunitaria è stata sostituita da osservazioni
fuggevoli scambiate durante gli spot pubblicitari? I membri della comunità sono
più interessati ai giornali nazionali prima della cena o ai giornali locali
alla fine della serata che non ai momenti di relax trascorsi insieme? Lo sport
alla televisione, o qualsiasi altro programma, è più sacro della preghiera
comune o dei pasti presi insieme? In che modo la televisione e i film
noleggiati rafforzano l’individualismo anticomunitario e i valori
antievangelici e riempiono il nostro spazio di immagini
molto lontane da quelle di Cristo casto, povero e umile (CG34)?
La stessa cosa vale per i computer
personali, l’internet, i videogiochi ecc, e i medesimi interrogativi si pongono
a proposito del loro uso eccessivo e del loro influsso deleterio in comunità.
Applicazione: queste buone pratiche hanno
dimostrato il loro valore per le comunità gesuite degli Stati Uniti oggi che si
propongono gli obiettivi stabiliti dalle diverse congregazioni generali. Esse
non sono negoziabili ad libitum anche se ciascuna
comunità può determinare il modo di applicarle nella situazione locale. In ogni
caso, il superiore può, d’accordo con il consultore, propormi dei mezzi
alternativi per raggiungere gli stessi obiettivi: le comunità che pregano
insieme, che condividono la loro fede, i cui membri si conoscono profondamente tra di loro, che prendono parte alla vita e al lavoro
comunitario sono capaci anche di discernimento apostolico comunitario e
dell’azione comune che esso produce.
Inoltre, si presume che i singoli membri
delle comunità non abbiano a escludere da queste
pratiche di comunità quelle che non trovano di loro gusto. Non si può accettare
che altri si accontentino di una coesistenza pacifica
che permette certamente di ignorare le tensioni e le incomprensioni esistenti,
ma che impedisce anche un vero progresso nella vita comunitaria.
In occasione delle mie visite nei mesi
prossimi, ho l’intenzione di parlare con le comunità del modo in cui esse possono
integrare queste sette pratiche nella loro vita comunitaria e degli aiuti di
cui possono avere bisogno per attuarle concretamente. Per riuscirvi realmente
può darsi che alcuni debbano acquisire un nuovo
savoir-faire, compresi i superiori, e che altri abbiano bisogno di molta
pazienza e di preghiera. Queste pratiche costituiscono una sfida per ciascuno
di noi per avere in futuro una vita comunitaria e una
spiritualità più soddisfacenti e gioiose, anche se ciò non avverrà senza
fatica e senza contrasti lungo il cammino. Malgrado
tutti i dubbi e le incertezze, vi chiedo con insistenza di provarle perché come
dice la pubblicità “provarle vuol dire adottarle”.
Conclusione: questa iniziativa
non sarà facile. Ci sono centinaia di “buone ragioni” per non applicare queste
buone pratiche nella loro totalità o in parte. Certi punti saranno difficili o
fastidiosi per alcuni di noi. Ma sono persuaso che se
non adottiamo delle misure coraggiose e decisive per migliorare la nostra vita
comunitaria continueremo ad andare alla deriva e a vedere degradarsi
l’integrità della nostra comunità sotto l’impatto culturale potente
dell’individualismo, dello stakanovismo e del consumismo, oppure semplicemente
della televisione. Possiamo trarre la nostra forza da uno sforzo comune di
tutta la provincia imparando reciprocamente dai nostri successi e insuccessi
durante l’anno. Se non interveniamo tutti insieme,
sarà troppo facile per una comunità scoraggiarsi di fronte a progressi troppo
lenti. Con il risultato che l’insoddisfazione che proveremo
a riguardo della nostra vita di comunità si aggraverà e continuerà a
rattristarci.
Lo ripeto, in occasione delle mie visite
alle comunità quest’anno, sarei felice di parlare con voi di questa
iniziativa, individualmente e nei nostri incontri comunitari, di
celebrare i vostri progressi e di discutere le vostre difficoltà. La mia
speranza è che lavoriate sodo in uno spirito di collaborazione, sotto la guida
dei superiori locali all’attuazione dei sette punti essenziali di questa iniziativa. E anche se la
comunità non agisce, ciascuno di noi può fare qualche cosa per stringere i
legami che ci uniscono nella Compagnia. Come dice il padre generale: «… la
tendenza resta ancora molto forte ad aspettare sia l’iniziativa del superiore
sia l’adesione unanime – poco probabile – della comunità, anziché assumere
ciascuno la propria responsabilità».
Ringrazio i consultori e i superiori locali
per il contributo inestimabile a questo sforzo di rinnovamento della nostra
comunità e grazie a voi tutti in anticipo di accettare di considerare
seriamente questo problema, sia individualmente sia in comunità.
Ted
Kammer sj