L’INTUIZIONE DI
DANIELE COMBONI
LA MISSIONE UN’ESPERIENZA
DI DIO
Muovendosi tra
testimonianza e riflessione teologica il comboniano p. Glenday traccia
l’esperienza spirituale e missionaria del suo fondatore, mettendo in luce
intuizioni anticipatrici del Vaticano II e sensibilità pastorali stimolanti per
tutti.
«Confesso con
piacere che parlare o scrivere di san Daniele Comboni (1831- 1881), missionario
e primo vescovo dell’Africa Centrale, è per me una fatica d’amore e un atto di
cordiale gratitudine». Così esordisce p. David Glenday, già superiore generale
dei comboniani, in una relazione tenuta durante la Settimana della vita consacrata
2004 organizzata a Manila dall’ICLA (Istituto per la vita consacrata in Asia).
Per comprendere
lo spiritualità missionaria che ha animato il Comboni – spiritualità piena di
risonanze positive anche per la missione ad gentes oggi – occorre partire dall’intuizione
che egli ebbe nella basilica di San Pietro a Roma il 15 settembre 1864.
Che cosa accadde
in quella esperienza di preghiera? Il Comboni, nel suo Piano per la
rigenerazione dell’Africa così la descrive: «Il cattolico, abituato a giudicare
le cose in una luce soprannaturale, guardava all’Africa non attraverso le lenti
pietose degli interessi umani, ma nella pura luce della fede; lì egli vedeva
un’infinita moltitudine di fratelli e sorelle che appartenevano come lui alla
stessa famiglia con un unico Padre nei cieli. Erano piegati a terra e
sofferenti… Allora fu condotto sotto l’impeto di quell’amore acceso dalla
fiamma divina sul monte Calvario, quando proruppe dal fianco del Crocifisso per
abbracciare l’intera famiglia umana; egli sentì il suo cuore battere più
veloce, e una potenza divina sembrava guidarlo verso quelle terre sconosciute.
Là egli avrebbe racchiuso tra le braccia il un abbraccio di pace e di amore
quegli sfortunati fratelli e sorelle…».
Un’attenta
considerazione dell’esperienza vissuta in S. Pietro conduce alla conclusione
che, per lui, missione è anzitutto un’esperienza di Dio.
È come se in quel
momento per san Daniele due realtà divenissero una: l’Africa e gli africani che
aveva conosciuto e amato, e il Dio dal quale era conosciuto e amato. È come se
in quel momento avesse scoperto che quando si era innamorato dell’Africa il suo
cuore di fatto era stato conquistato da Dio, e che egli non sarebbe più stato
in grado di amare l’una senza l’altro. In altre parole, aveva scoperto che la missione
– con tutta la sua concreta realtà, particolarità e fragilità – è una
esperienza mistica, suolo sacro, roveto ardente, luogo di incontro con la
divinità. Ora Daniele Comboni sapeva che, se la sua sete bruciante del Dio
santo potesse mai essere appagata, la via passava attraverso i deserti, i fiumi
e le foreste dell’Africa centrale. Era là che Dio lo aspettava.
Potemmo dire che
in quel giorno di settembre era stato concesso a san Daniele di capire tre
cose:
1) il Dio di Gesù
Cristo è un Dio la cui intima vita è missione: conoscere Dio – in senso biblico
– è scoprirsi “sospinti” verso terre sconosciute; questo è un Dio ad extra, ad
gentes. San Daniele stava scoprendo nel suo stesso tempo e spazio il Dio
proclamato e celebrato molti anni più tardi dal concilio Vaticano II nella sua
riflessione sulla missione della Chiesa. Qui, inoltre, troviamo un Padre che ha
un “piano”, e un Figlio e uno Spirito che hanno una “missione”. «Questo piano
scaturisce dall’amore nella sua fonte, cioè dalla carità di Dio Padre. Questi
essendo il principio senza principio da cui il Figlio è generato e lo Spirito
Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa e misericordiosa
benevolenza liberatrice ci crea e inoltre per grazia ci chiama a partecipare
alla sua vita e alla sua gloria; egli per pura generosità ha effuso e continua
a effondere la sua divina bontà, in modo che, come di tutti è il creatore, così
possa essere anche “tutto in tutti” (1Cor 15,28)».
Sia nelle parole
di san Daniele Comboni che in quelle del decreto conciliare non si può che
rimanere colpiti dal modo dinamico in cui è percepita la vita di Dio. Si tratta
di un Dio in movimento, un Dio interessato, un Dio che viene fuori, un Dio che
manda, un Dio coinvolto. Questo è un Dio che, per essere Dio, ha un cuore per
tutti, un Dio, potremmo dire, veramente Dio alle frontiere, cercando e
salvando, generosamente elargendo, e senza mai cessare di elargire, la divina
bontà.
È così che
Daniele Comboni arrivò a intuire che per essere davvero un uomo di Dio, davvero
santo, davvero in una comunione vitale con Dio, significava e significa esser
posseduti da una santità costitutivamente missionaria. In altre parole, non è
solo una questione di missione che richiede la santità, ma piuttosto di santità
che richiede la missione. L’interesse e l’impegno missionario divengono un
criterio per valutare la santità di ogni vita cristiana.
2) Dio condivide
la missione. Dalle parole di san Daniele emerge con evidenza che il Dio da lui
incontrato in missione non è un oggetto da ammirare a distanza di sicurezza, ma
un partner che trascina il missionario in uno sforzo condiviso in modo
profondamente intimo. A causa dell’incontro con questo Dio, egli vede l’Africa
e gli africani in modo assolutamente nuovo, come fratelli e sorelle, membri
della stessa famiglia: il mondo delle sue relazioni è cambiato e allargato in
modo così universale che ora egli si riferisce a se stesso come “il cattolico”.
Si sente “condotto via”, “sospinto”, il suo “cuore batte più veloce”, desidera
condividere un “abbraccio di pace e di amore”: il mondo dei suoi affetti, il
suo bisogno di amare e di essere amato, è totalmente alterato.
La parola usata
da san Daniele per descrivere questo coinvolgimento nella vita missionaria di
Dio era “consacrazione”. Per lui questa parola portava con sé il senso di come
il missionario era tratto nella missione divina in modo tale da essere
gradualmente trasformato e in grado di dire con s. Paolo «non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Qui, la missione è compresa in primo
luogo e praticamente non come qualcosa che io faccio, e neppure come qualcosa
che io sono, ma come la vita che Dio vive in me. Uno dei corollari più
eccitanti ed esigenti di questa comprensione della missione è che reale e
concreta esperienza missionaria diviene così il luogo della configurazione a
Cristo, con la comprensione che questa configurazione è il più vero e più
essenziale messaggio e mezzo del missionario.
3) Dio è
conosciuto in missione. Per san Daniele Dio è conosciuto in e attraverso tutte
le vicissitudini della vita missionaria. È importante sottolineare questo, in
modo tale da confrontare ogni approccio che vede il coinvolgimento nella
missione come una distrazione dall’attenzione sincera all’esperienza di Dio.
C’è qui anche una notevole sfida: sviluppare una spiritualità della missione, e
un concomitante approccio alla preghiera, che conduce il missionario a
scoprire, incontrare, adorare e godere Dio nella missione.
Ricordiamo le
parole di Vita consecrata: «Gli istituti impegnati in una o nell’altra forma
dell’apostolato devono quindi coltivare una solida spiritualità dell’azione,
vedendo Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio… Gesù stesso ci diede il
perfetto esempio di come possiamo unire la comunione con il Padre e un’intensa
vita attiva. Senza una costante ricerca di questa unità, il pericolo di un
crollo interiore, di confusione e scoraggiamento sta sempre in agguato. Oggi
come ieri, l’intima unione tra azione e contemplazione permetterà di
intraprendere le più difficili missioni» (74). O, come scrisse san Daniele
sulla preghiera nella sua Regola: «Ciò che conta è che tutte le preghiere e
mortificazioni non dovrebbero con l’abitudine divenire semplicemente una
formalità. Per evitare ciò, è necessario riflettere spesso sull’importanza di
una preghiera che sia significativa e pratica e di una vita vissuta in spirito
e verità».
Potremmo così
rispondere alla domanda iniziale – che cosa sospingeva san Daniele Comboni – in
questo modo: non era un “che cosa”, ma un “chi”, o piuttosto un “Chi”: era Dio.
Che questa intuizione sia provocatoria è evidente; però è in grado anche, se
non più, di dare energia. Non a caso san Daniele usa parole come “trascinato”,
“impeto”, “acceso”, “abbraccio”, “guidato” per descrivere la sua esperienza.
Scoprire e sperimentare la sorgente essenzialmente teologica della missione è
sapere che essere chiamato a condividere la missione di Dio consiste
nell’essere amato davvero, e godere dell’energia che questo amore da.
MISSIONE NEL NOME
DELLA TRINITÀ
Non è tutto: il
Dio che Comboni incontrò in missione e nella preghiera era Dio - Trinità.
È, questo, un
aspetto estremamente chiaro e sorprendente di ciò che gli accadde in quel
giorno di settembre alla tomba di Pietro. Contemplando l’Africa e il suo
profondo affetto per gli africani, egli parla di “un comune Padre nei cieli”,
del “Crocifisso”, e della “potenza divina” di “quell’amore acceso dalla fiamma
divina sul monte Calvario”. Per lui, la missione era un’esperienza di Dio
Trino. Potremmo dire che una componente essenziale della grazia accordata a san
Daniele Comboni fu di fare teologia trinitaria pratica in missione; egli non
avrebbe avuto alcuna difficoltà a comprendere l’affermazione centrale di Vita
consecrata: «la vita consacrata… diviene uno dei sigilli tangibili che la
Trinità imprime sulla storia, cosicché le persone possano desiderare
l’attrazione della bellezza divina» (20).
Che l’esperienza
missionaria del Dio Trinità abbia radicalmente modellato il missionario Daniele
diviene evidente se consideriamo due aspetti particolari del suo modo di
concepire la missione:
1) la missione
fatta in comunione. Una familiarità superficiale con san Daniele Comboni
potrebbe dare l’impressione di una persona dalla forte volontà che ha portato
avanti un progetto in modo individualistico. Mentre non si può mettere in
discussione la sua forza di carattere, è nondimeno sorprendente che egli si sia
fondato su una comprensione e pratica della missione in comunione. Anche se
stava per fondare due istituti missionari, egli fece questo passo dopo molti
tentativi di assicurare un approccio collaborativo all’evangelizzazione
dell’Africa centrale. Quando, come giovane prete, ottenne di accedere al
concilio Vaticano I, fu per presentare ai Padri conciliari una petizione che
sottolineava la responsabilità dell’intera Chiesa, e così di ogni vescovo, di
portare la buona notizia a coloro che non avevano ancora avuto l’opportunità di
ascoltarla.
La pratica e la
teoria che tramandò ai seguaci era che, come ebbe spesso a dire, «l’opera deve
essere cattolica», e non la prerogativa di una nazione o di un gruppo di
interesse. A ciascuno bisognava offrire il privilegio di partecipare alla
missione: uno degli aspetti più sorprendenti dell’approccio di san Daniele era
il posto importante che previde nella missione per le donne e i missionari
laici. La loro presenza non era decorativa: era essenziale. E neppure era una
missione a senso unico: dal principio, uomini e donne africani erano coinvolti
come preti, religiosi/e e laici nel protendersi verso i loro stessi fratelli e
sorelle.
2) La missione
crea la comunione. Il carattere profondamente trinitario del modo di san
Daniele di essere missionario è evidente anche nel modo in cui pensava al
frutto della missione. Doveva essere diretta all’intera persona; da qui il suo
interesse e attenzione per l’educazione e la formazione professionale. Da qui
anche il suo energico impegno nella battaglia contro la schiavitù, che a quel
tempo era ancora un grosso problema della realtà africana. Si rimane colpiti,
inoltre, dalla consapevolezza culturale di quest’uomo: come abbia imparato
lingue straniere insistendo che i suoi seguaci facessero lo stesso; come abbia
letto voracemente ogni cosa scritta da esploratori e geografi sul continente e
i popoli che amava; come abbia sviluppato e curato un’ampia rete di amicizie
con persone di molte e diverse nazionalità, convinzioni e classi sociali; come
si sia abbonato e abbia letto giornali e riviste, consapevole che la missione
affidatagli accadeva nel mondo reale, ed egli aveva bisogno di conoscere quel
mondo.
San Daniele
Comboni visse una profonda e intima “immersione” nella Trinità, ma ancora una
volta è provocante e da energia vedere come questa esperienza spirituale fosse
vissuta nella realtà concreta della missione, con molte conseguenze
lungimiranti e innovative. Altrimenti detto, in questo santo uomo, possiamo
osservare qualcosa di ciò che accade quando una persona è coinvolta nella
santità del Dio Uno e Trino: si è certamente mandati, ma si è mandati con
l’altro e all’altro. Ecco, san Daniele incoraggia e ammonisce tutte le persone
coinvolte nella missione oggi: per essere vera in se stessa, la missione deve
essere fatta insieme. Se no, il modo di proclamare il messaggio può facilmente
alterare il messaggio stesso. Non c’è posto, quindi, per il parrocchialismo,
per l’affermazione degli interessi di un gruppo missionario contro gli altri.
La collaborazione è costitutiva della missione, non è un optional.
LA MISSIONE
CHE SONO IO
Prima di giungere
a una conclusione, bisogna menzionare un altro aspetto della vita di san
Daniele Comboni. Per il significato che aveva per lui la missione, egli era in
ogni senso un missionario ad vitam. Per lui, la missione non era in alcun senso
soltanto una parte di chi egli era; per lui, vivere l’esperienza di una Trinità
missionaria richiedeva la sua vita intera – e questo lo definiva e gioiva. La
missione era il polo di riferimento attorno a cui aveva organizzato la sua
affettività, la sua riflessione, la sua azione; era ciò che dava senso alla sua
esistenza. Davvero, in quel modo empatico che era parte della sua personalità,
avrebbe detto che se anche avesse vissuto mille vite, le avrebbe volute vivere
tutte per l’Africa e il suo popolo.
In questo senso
san Daniele Comboni parla alla Chiesa e ai suoi membri oggi. Naturalmente, è
motivo di gioia che un numero crescente di credenti sia sempre più coinvolto
oggi nella missione. Tuttavia, egli certamente direbbe, c’è un posto importante
per quei credenti a cui è data la grazia di essere missionari ad gentes per
tutta la loro vita e con tutta la loro vita. In modo specifico essi
testimoniano la missione che è in Dio, e la missione che questo Dio condivide
con il suo popolo.
Ai missionari ad
vitam san Daniele ha importanti cose da dire. Primo. Che sono chiamati a il
loro giusto posto nella Chiesa con umile serenità. Secondo, che non devono mai
dimenticare il fatto che per loro, forse soprattutto, ogni reale o potenziale
dicotomia tra parola annunciata a messaggio vissuto colpisce alle radici di chi
essi sono, privando di significato le loro vite sia per se stessi che per gli
altri. Terzo, il posto in cui sono chiamati a crescere e ricevere la grazia
della realizzazione umana è la missione, con tutte le sue contraddizioni e
incertezze, ma anche con tutta la sua bellezza divina. Per il missionario ad
vitam chiamato a essere umano, essa deve essere la via per la gioia: «Signore,
è bello per noi stare qui».
Sei giorni prima
di morire Comboni scrisse: «Avvenga ciò che Dio vuole: Dio non abbandona mai
chi ha fede in lui. È il protettore dell’innocenza e il vendicatore della
giustizia. Sono felice sulla croce che, quando è abbracciata volentieri per
amore di Dio, genera la vittoria e la vita eterna». San Daniele, il missionario
sospinto dalla grazia dell’incontro con il Dio Trinità missionario, sapeva in
chi aveva posto la sua fiducia – e questo ha fatto tutta la differenza.
David Glenday mccj