DIFFICOLTÀ DI COMUNICAZIONE IN COMUNITÀ

AFASIA RELAZIONALE

 

A pesare sulla comunicazione non sono solo le distanze di età, ma la diversità di linguaggio, di codici di riferimento generazionali e di attese. Solo trovando nella fede in Cristo l’elemento unificatore si costruiranno comunità di dialogo e di condivisione.

 

Non è una novità per nessuno affermare che oggi nella società col passare degli anni aumenta la difficoltà a parlarsi e a intendersi tra le diverse generazioni. Un divario di venti/trent’anni di età è come un abisso poiché i linguaggi impiegati non sono più gli stessi e i codici di riferimento non corrispondono più a un nucleo omogeneo di valori, da dare per scontato come era un tempo. In questo modo anche le possibilità di dialogo diminuiscono notevolmente e il rischio di parlarsi tra sordi è tutt’altro che ipotetico. Su questo oggi sono d’accordo tutti: sociologi, opinionisti, psicologi, esperti di comunicazione.

Oltre alle varie applicazioni che si possono fare in tanti settori, per noi il problema ha un rilievo particolare quando in questione sono giovani che chiedono di entrare nella vita consacrata, ossia in comunità dove, volere o no, essi finiranno col trovare un numero crescente di anziani, ossia di persone lontane dalla loro esperienza, dal loro linguaggio e dal loro modo di guardare a se stessi e alla vita.

Il problema è oggi avvertito acutamente anche nelle comunità monastiche, come ha mostrato fr. Giovanni Dalpiaz, monaco camaldolese e sociologo nell’intervento sul tema Ascolto e comunicazione tra le generazioni, alla riunione della Conferenza italiana dei superiori benedettini che si è tenuta a Montecassino dal 22 al 24 aprile 2003 .

 

ASPETTATIVE

DIVERGENTI

 

È stato lui a usare l’espressione “afasia relazionale”, per indicare questa difficoltà a capirsi. «Ne è tipico esempio, ha affermato, la domanda che penso ciascuno di noi si è sentito rivolgere nel visitare i monasteri femminili: “Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc…. ci si potrebbe orientare per riuscire a incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?”. Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la “brava giovane” di cinquant’anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini».

Bisogna allora chiedersi: chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? «È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi, ha affermato Dalpiaz, che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent’anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali».

Ed è proprio questo distanziamento ad avere dei riflessi molto marcati sul modo di intendere il significato del proprio ingresso in comunità, in questo caso nel monastero. Dalle ricerche effettuate risulta infatti che rispetto a 20-30 anni fa, coloro che chiedono di essere accolti hanno in mente soprattutto la “realizzazione” di sé, intendendo con questo, ha sottolineato Dalpiaz, anche la realizzazione in termini di chiamata del Signore, realizzazione di un’intuizione spirituale e così via. Nelle loro intenzioni sono invece molto meno presenti tematiche quali il distacco, lo spogliamento, l’abbandono. In una parola, si potrebbe dire «che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualcosa, ma per trovare qualcosa e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali».

La differenza appare chiara se si stabilisce un confronto con il codice valoriale implicito nelle costituzioni dell’ordine e sotteso ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico tradizionale della vita monastica, dove appunto l’autorealizzazione non compare come valore da promuovere; anzi, già il richiamo in sé alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, come elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, che si caratterizza come estroversa, orientata all’altro, alla comunità, alla Chiesa e così via.

L’autorealizzazione può essere intesa dai giovani in maniera diversa. Per esempio, quella da conseguire attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grandi idealità e profonda radicalità, oppure l’altra di chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. «In ogni caso, ha sottolineato Dalpiaz, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta a un proprio bisogno di senso e di pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi alla vita religiosa tendono a essere interpretati e vissuti da questa angolatura».

 

CONSEGUENZE

CHE NE DERIVANO

 

Le conseguenze di un atteggiamento del genere non sono irrilevanti. La prima è che una scelta che viene fatta non è “per sempre”, o meglio che il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Qui corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?», e tutti rispondono: «Sì!», solamente che questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l’inserimento in comunità, mentre per l’interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno».

La continuità dell’impegno o la sua interruzione dipenderanno quindi dal permanere o dal venire meno delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali una persona si orienta alla vita monastica. E quando una persona pone delle condizioni, sulla cui realizzazione si riserva una propria autonomia e insindacabile valutazione, è facile che si attui un’appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti.

Una seconda conseguenza è che l’appartenenza a un’istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C’è quindi una “riserva” del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Dalpiaz commenta: si comprende allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall’istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell’identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuol dire che, se la persona è posta di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un’appartenenza istituzionale, l’opzione è per l’autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l’istituzione. È come se dicesse: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto comunque io continuo a coltivare le mie idee». In un simile atteggiamento, sottolinea Dalpiaz, «c’è il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l’istanza per un più sincero rispetto della persona».

Si tocca qui un punto molto importante nel dialogo tra le nuove generazioni e le istituzioni, nel senso che le strutture religiose, compresi anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell’età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all’autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensioni e di fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l’autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Qui s’innesta la capacità di dialogo della comunità che dovrebbe essere capace di affrontare la sfida espressa nel desiderio di autenticità, integrandolo nel vissuto delle proprie relazioni, nella ricerca spirituale, portandolo all’apertura verso l’alterità per non rischiare l’implosione o il ripiegamento su se stessa. Ma è un impresa spesso faticosa e sofferta.

 

PARLARSI

SENZA DIRSI NIENTE

 

C’è un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia che può interferire profondamente della relazione con la comunità religiosa: è l’importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è un valore fondante della relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, ha sottolineato Dalpiaz, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo e intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni.

Pertanto, l’incontro con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c’è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei contenuti trasmessi; dall’altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e vada oltre a un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato».

Ma la comunicazione negli istituti religiosi è resa difficile anche dalla scarsità delle vocazioni. Questo fatto, ha affermato ancora Dalpiaz, non solo accresce la distanza tra le generazioni, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affaccia al monastero, specie se intenzionato a restarvi.A esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». Allora i mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise. L’orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell’agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria.

È ovvio che una comunità religiosa, soprattutto monastica, non può accontentarsi di un livello del genere, costruito cioè attorno a una specie di patteggiamento in cui è definito ciò che appartiene al soggetto e ciò che riguarda invece la dimensione comunitaria. Il superamento potrà avvenire soltanto se i monaci, diversi per età, carattere, sensibilità culturale, sapranno riconoscere nella fede in Gesù l’elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.

Davanti a una realtà come quella descritta, ha concluso Dalpiaz, «non dobbiamo più dare per scontato che la comunicazione sia una cosa che viene da sé; dobbiamo affinare o assumere un atteggiamento riflessivo non solo sulle notizie, sulle cose che vanno dette, ma sul modo con cui ciascuno si mette in relazione con gli altri. Ciascuno deve riflettere, analizzare nella propria comunità le dinamiche esistenti e possibili. Per favorire la comunicazione, lo stile da adottare è quello del dialogo che ha certamente un suo costo, ma anche il vantaggio di una ricerca in cui tutti sono coinvolti con la loro libertà e responsabilità».

 

1Su questo argomento cf. anche Se manca la comunicazione, in Testimoni 5, pp. 9-11.