UN PASSAGGIO OGGI NECESSARIO

DA CONFRATELLIA FRATELLI

 

Il futuro della vita religiosa in Europa, vedrà piccole fraternità in diaspora, in una Chiesa sempre più minoranza che avrà bisogno di riconoscere e valorizzare la vita religiosa nei compiti specifici che discendono dai propri carismi, nel territorio. La sfida è quella di rendere missionarie le comunità.

 

Il discorso sulla vita comunitaria diventa ogni giorno più difficile, ma non eludibile, perché una situazione, un luogo, influiscono sempre e molto su quello che una persona è o diventa. Sono tutti d’accordo nel dire che bisogna aggiornarla, ma qui le strade si dividono: c’è chi ritiene urgente un’operazione di restauro dei “pozzi” e chi invece vuole spendere le energie residue nello scavarne di nuovi. La prima potrebbe sembrare la più possibile se si ritiene che bastino degli aggiustamenti ai fini della sopravvivenza, ma a questo punto la seconda, più ardua, ha maggiori prospettive. Il primo passo da fare è di passare dall’essere confratelli a fratelli.

Confratello significa essere incorporato in un istituto, fare riferimento a una vita comune sotto lo stesso tetto, «parole queste che richiamano norme e osservanze che possono accompagnarsi a mancanza di spirito di fraternità». Già molti anni fa, Tillard, parlando della vita religiosa in un autorevole commento al Perfectae caritatis, scriveva: «La comunità è diventata una entità giuridica prima di essere la traduzione della comunione di carità; si giungerà a capovolgere l’ordine corrente e a mettere la vita di comunione fraterna al di sopra della comunità giuridica, a sconvolgere quadri troppo rigidi per permettere alla fraternità di vivere veramente?».1 Se per la vita comune (abitare insieme secondo le stesse norme) è importante il coabitare, per la vita fraterna, cioè l’essere fratelli, l’importante è il tipo dei rapporti, l’aiuto e l’appoggio vicendevole, la valorizzazione e il ruolo attivo di ciascuno, la convergenza degli intenti. Il rettor maggiore dei salesiani, riportando una espressione di Bernanos, disse ai capitolari: uno «non vive dove abita, ma dove è amato». Anche la finalizzazione è per vari aspetti diversa nella comunità e nella fraternità. Nella prima è prevalentemente “strumento”, nella seconda “fine”. Scriveva L. Arostegui: «La comunità non deve essere concepita come mezzo ascetico né come uno strumento di efficacia pastorale, ma come la realizzazione concreta della fraternità evangelica e perciò come un valore in se stesso.

Le persone, grazie alla vita comunitaria, devono sentirsi umanizzate e maturate nella loro personalità, nella loro capacità di giudizio, nella loro libertà di espressione e di azione, promosse nelle loro doti di iniziativa e di responsabilità».2 Sulla stessa linea è J.M.R. Tillard: «La sensibilità religiosa attuale non accetta più un valore meramente funzionale in vista o della santificazione personale o di una maggior efficacia apostolica».

Un tempo, fraternità significava reperire persone che condividessero le stesse istanze, la visione dell’apostolato, capaci di leggere insieme le sfide, di orientare le analisi e le scelte operative, di interrogarsi come comunità in rapporto al territorio e di effettuare adattamenti molteplici non solo negli orari. Oggi sia l’identità che l’unità di un gruppo (comunione fraterna), non sono dati da un elemento istituzionale, ma dal senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti personali. Se il cammino spirituale è un cammino di guarigione, la fraternità deve esserne il luogo. Scriveva Odile van Deth: «Da quando Pacomio radunò i monaci si è fatta confusione tra convivenza e vita comune; mi pare invece che la vita religiosa debba ritrovare una vita comune che permetta a ciascuno i propri ritmi, in cui i limiti siano accolti con umorismo e misericordia in modo da offrire a ognuno la possibilità di costruire il bene comune a partire dal proprio benessere psicologico e spirituale, infatti chi sta male, fa star male gli altri. Solo quando uno sta bene è pronto a rinunciare a un bene parziale a favore dell’ insieme».3

 

STRUTTURE

O STILI DI VITA?

 

Dunque la domanda è: struttura o stile di vita? C’è il pericolo che la comunità slitti sul primo versante; sul secondo sembra più spontaneo collocare la fraternità. Non sono pochi coloro che issando il vessillo della fedeltà non accettano questo spostamento di asse, perché non condividono l’idea di essere in una nuova era in cui anche lo stesso concetto di fedeltà carismatica è cambiato: se prima voleva dire ricalcare oggi significa reinventare. Ma soprattutto è cambiato l’uomo e quindi anche l’uomo alla ricerca di Dio.

Oggi siamo in una cultura “altra” da quella da cui hanno preso avvio le forme vigenti di vita religiosa e la maggior parte dei religiosi, stante l’età media, si sente estranea alla nuova visione delle cose. Un saggio indiano ebbe a dire a coloro che erano andati nel suo paese con una propria ideologia: «Lo straniero impara e coglie della nostra cultura solo ciò che già sa». La vita religiosa soffre proprio di questa sindrome: è consapevole che le cose di prima sono passate ma non può esimersi dal concepire l’evoluzione se non all’interno delle sue convinzioni.

L’uomo di un tempo, compreso il religioso, amava desumere l’identità dall’insieme, per cui non rifiutava di corrispondere a dei modelli tramandati. Oggi è più rispettoso della complessità della persona, ama essere ­riconosciuto come singolarità e opta per cammini di spiritualità che siano allo stesso tempo cammini di umanità. Diffida di visioni riduttrici della salvezza, a differenza di un tempo in cui non si teneva conto di tanti valori non catalogabili come ascetici, quali la corporeità, affettività, singolarità, esigenza di responsabilità.

Ma, «nel cristianesimo, non esiste santificazione senza umanizzazione».4 Non ci può essere una spiritualità mutilante – dice p. B.Ugeux - e certi discorsi sulla sofferenza non sono fedeli al Vangelo. Certamente non c’è esperienza d’amore che scavalchi la sofferenza: una spiritualità che voglia fare economia della dimensione della croce non è vera spiritualità. Ma bisogna darle il giusto posto e avere un rapporto adeguato con questa realtà misteriosa di cui Cristo stesso nel Gethsemani ha avuto paura.5 Certamente tutto ciò è carico di rischio: soggettivismo, narcisismo, atteggiamenti immaturi, ricerca di gruppi elettivi, ma se crediamo che la Chiesa è depositaria di una “buona notizia” per l’uomo d’oggi, è importante considerare ciò che vi è di giusto e di vero in questa ricerca.6

 

RENDERE MISSIONARIE

LE COMUNITÀ

 

Un modo parziale di pensare alle nuove fraternità è quello di chi parte con la domanda: piccole o grandi? C’è chi dice che la grande comunità facilita la vita comune; in effetti è meno esigente almeno in quanto a prassi comunicativa, può essere soddisfatta dalla compresenza nell’adempimento degli atti comuni e appaga in particolare le persone che sono state educate a mettersi in posizione di chi adempie al proprio compito. Il piccolo numero invece facilita e nello stesso tempo complica un genere di vita basato sulla relazione, ma in tal caso non si può contrabbandare vita comune con vita fraterna. Un conto è vivere vicino agli altri e un altro è vivere per gli altri. Certamente queste fraternità devono essere in qualche modo volute e non nascere da stanchezze, poiché le risposte, rinforzate da qualcosa di cui uno ha bisogno e che desidera, hanno maggiori possibilità di altre di verificarsi. In ogni caso il futuro vedrà, specie in Europa, una vita religiosa vissuta in piccole fraternità, in diaspora, come le chiese dell’Apocalisse, all’interno di una Chiesa che sarà sempre più minoranza, e che avrà bisogno di riconoscere e valorizzare la vita religiosa nei compiti specifici che discendono dai propri carismi,  impastati nel territorio per rispondere ai bisogni di questo.

A tal fine la sfida è quella di rendere missionarie le comunità. Stile missionario significa portarsi dove le povertà si trovano anche fuori dalle strade abitualmente battute, per continuare nel mondo il “proprio” storico della vita religiosa, cioè quello di anticipare, con funzione di segno, le risposte religiose e sociali. Il modo d’esservi del religioso è quello del fratello che fa passare da una spiritualità intesa prevalentemente come rapporto individuale con Dio a un rapporto che passa attraverso le persone; una spiritualità del quotidiano connotata da semplicità, solidarietà, preghiera e un lavoro vissuto come modalità di interpretare il Vangelo.

Questa attitudine missionaria richiede flessibilità nel formulare le scelte a seconda delle situazioni mutevoli e capacità di elaborare nuovi codici interpretativi dei bisogni per poter trasmettere in contesto di secolarizzazione la propria ricchezza spirituale in dimensione laicale.

A spingere lo sguardo più in là, già si può scorgere un prossimo futuro in cui varie fraternità, si riconosceranno diversamente composite: «Non più distinzione tra vita attiva e contemplativa, né tra vita celibe e vita non celibe né tra vita apostolica e vita non apostolica ma un insieme della comunità in quanto tale che è aperta ai doni dello Spirito».7

Questo nuovo modo di vivere la fraternità richiede d’essere confortato – reso forte – da una diversa espressione di autorità. Non può nascere nuovo ciò che deve fare riferimento a livelli decisionali estranei al nuovo o a chi si trova a suo agio nei panni di superiore nei tradizionali aereopaghi, propenso a credere che la salvezza del carisma passi attraverso la salvezza delle opere, senza rendersi ancora conto che in questo momento molte di esse (non tutte) sono solo servizi. Secondo il nuovo paradigma derivato dalla modernità il modello di autorità non può essere quello monarchico, anche se questo è quello presente nella Chiesa, desunto all’epoca in cui questo era pervasivo nella società (E. Mirones ocso), e neppure il modello di maestro di tutti, di colui che controlla e governa tutte le attività. Un vero gruppo di amici in Cristo deve anzi favorire la maturazione di ogni membro, dare potere alle persone e non toglierlo, renderle autonome, formarle alla libertà e alla creatività (M.Guzzi). L’uomo d’oggi fugge dal tentativo di essere amministrato prevalentemente secondo finalità imposte dall’alto.

Il concetto di autorità chiama in causa quello di obbedienza: l’obbedienza come scelta personale, cioè «come un reale assumersi fino in fondo le proprie responsabilità, offrendosi per un progetto che supera gli ambiti puramente individuali, attestazione pubblica che la vita non è un ring del potere, ma è il luogo dell’offerta cosciente e corresponsabile, nella convinzione che maturità vera è accettare il processo del reciproco arricchimento».8 Avverte Arnold, è necessario ribadire che ogni forma di obbedienza cristiana è necessariamente vicendevole e comunitaria. Anche se l’autorità ha una funzione specifica in questo esercizio di solidarietà comune che chiamiamo obbedienza, il servo della crescita è il primo a dover obbedire a Dio e alla fraternità cercando il bene e la felicità di ciascuno e dell’insieme. Nel passato il privilegio dato alla dimensione ascetica dell’obbedienza ha fatto sì che fosse ricondotta a dipendenza piuttosto che allo sviluppo della creatività che è sempre singolare e non orientato alla uniformità. Questo modo di esprimere l’autorità come servo della crescita mi pare di intravederlo all’interno di alcune delle nuove forme di vita evangelica. Ci si potrebbe sottrarre al confronto con il pensare che queste in fin dei conti non sono migliori delle nostre. Possono essere certamente cariche di rischio «però preferiscono un tipo di vita diversa, come le nostre congregazioni hanno un tipo di vita diverso rispetto ai mendicanti, rispetto ai chierici regolari, rispetto ai benedettini».9

Si parlava di questi argomenti in una recente assemblea di un ordine religioso. Com’ è facile immaginare, le risonanze furono le più varie: chi riteneva premature forme comunitarie diverse; chi rispondeva che, stante la situazione, è già troppo tardi; chi, pensando alle comunità, diceva che la natura non fa salti, e chi, rifacendosi al documento Vita consecrata, insisteva sulle sfide – richiamate nel testo molte volte – in particolare dove si invita al discernimento per la ricerca di progetti che siano risposta alla attese dell’uomo d’oggi (VC 73). L’assemblea divisa nelle forme di attuazione, alla fine si trovò quasi unanime sulla necessità di «esplorare vie nuove per attuare il Vangelo nella storia» (VC 84) e nel dire che un unico modello di vita comunitaria non è più possibile, e in ogni caso non proponibile, in chiave vocazionale, per questa generazione attestata su nuovi modelli culturali relativi, anche, all’essere famiglia.

 

Rino Cozza csj.

 

1J.M.R. Tillard, Il rinnovamento della Vita Religiosa p. 131

2L. Aròstegui ocd in Testimoni n. 15 del 1999, p. 26

3Odile van Deth in Vita Consacrata, p. 147

4P.B. Ugeux riportando una espressione della Commissione teologica internazionale: «la deificazione rende l’uomo perfettamente “umano” in Theologie, christologie, antropologie» 1983.

5Ib.

6Ib.

7Gargano in Consacrazione e Servizio 7-8 2003, p. 86.

8B. Secondin, Atti del convegno di Crespano 2-6 gen ’93.

9Rocca, in Consacrazione e Servizio, 7.8 2003.