PER UNA ECONOMIA UMANA

LA SFIDA MORALE DEL CONSUMO

 

La categoria del consumo è capace di attivare nuovi stili di vita, attraverso una pedagogia del desiderio che matura nella pratica della sobrietà.

 

Il noto sociologo Z. Bauman, nel definire la nostra società dei consumi, ci aiuta a coglierne il tratto fondamentale: la società post-moderna ha scarso bisogno di una massa di manodopera industriale e di eserciti di leva; ha invece bisogno di impegnare i suoi membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai cittadini la nostra società impone una norma: saper e voler consumare. Perciò è sempre più avvertito il bisogno che si colga il problema del significato etico delle scelte dei consumatori: perché è una dimensione importante nella vita di ogni persona, con caratteristiche inedite nella società globalizzata, e perché il consumo è la chiave d’accesso a gran parte delle grandi questioni morali di oggi.

Tra i testi più recenti, si segnalano i numerosi riferimenti al tema del consumo contenuti nel Dizionario di teologia della pace (EDB, vedi le voci “Economia”, “Autolimitazione”, “Teorie dello sviluppo”, “Qualità della vita”): vi si trova la critica alla teoria economica basata sullo sviluppo inteso come crescita, evidenziandone i risvolti negativi sul piano della qualità della vita e del vero ben-essere. Il cristiano è chiamato a scelte che contrastino questo sistema che può diventare struttura di peccato, scelte che partendo dal quotidiano diventano capaci di influenzare le scelte di politica economica a livello nazionale e internazionale. Queste scelte sono la riduzione dei consumi eccessivi, l’etica della moderazione, la rinuncia al ben-avere, l’etica della sobrietà.

Su questa linea si era già posta la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, aprendo la strada a una nuova lettura del ruolo del cristiano all’interno delle dinamiche socio-economiche: «È perciò necessaria e urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l’educazione dei consumatori a un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche autorità» (CA 36). Il cristiano non è chiamato soltanto a tappare le falle con la sua generosità e il dono del superfluo ma è investito direttamente del mandato per la promozione della giustizia: «Non si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, a entrare nel circolo dello sviluppo economico e umano. Ciò sarà possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società» (CA 58).

Le grandi questioni del presente, di fronte alle quali i cristiani, come la maggioranza dei cittadini, cadono in atteggiamenti di impotenza e rassegnazione vengono così intercettate e riportate a una dimensione “familiare” grazie all’analisi del consumo. Si tratta di una categoria interpretativa che offre la possibilità di determinare la presa di coscienza di tre grandi domande. C’è infatti una domanda di giustizia che sale dai paesi poveri (il divario tra una minoranza ricca e le grandi maggioranze di poveri continua a crescere: il 20% della popolazione utilizza l’86% dei consumi totali; 3 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno; si è così esposti al potenziale inasprimento dei conflitti sociali, alla crescita di movimenti migratori e di fenomeni di criminalità); c’è una domanda di limitazione che sale dalla terra (dal 1950 la popolazione mondiale ha consumato tanti beni e servizi quanti ne hanno consumati tutte le precedenti generazioni messe insieme: la consapevolezza dei limiti del pianeta è diventata paura senza creare responsabilità verso le generazioni future); c’è una domanda di senso che emerge dalla nostra società opulenta (la crescita dei consumi ha portato con sé una rapida crescita della qualità della vita, ma contribuisce all’esasperarsi di fenomeni di individualismo e di solitudine, in un clima di costante competizione che genera insoddisfazione e infelicità).

 

PER UNA TEOLOGIA

DEL CONSUMO

 

Tutto ciò sta facendo emergere una prassi ispirata da gruppi e comunità che, a partire dalla propria fede cristiana e aperte al dialogo con i non credenti, vogliono vivere esperienze alternative di rapporto con le cose. Questo giustifica il tentativo di elaborare una riflessione teologica sul consumo.

Il punto di partenza di tale riflessione, capace di spezzare la asettica conciliazione tra vita e vangelo, è soprattutto lo sdegno etico dovuto alla scoperta delle profonde ingiustizie che segnano i rapporti umani nel nostro pianeta: la povertà, lo sfruttamento, l’esclusione di grandi maggioranze umane non può lasciare indifferenti soprattutto coloro che credono nel regno di Dio e avvertono l’appello biblico a non “distogliere gli occhi da quelli della tua carne” (Is 58,7). La ricerca della giustizia porta ad andare oltre le logiche assistenziali e caritatevoli con l’utilizzazione di strumenti innovativi per coniugare dimensione locale e dimensione globale, scelte personali e modifiche strutturali: su questa base si sono promossi boicottaggi verso aziende responsabili di pesanti ingiustizie, il commercio equo e solidale, il consumo critico, i bilanci familiari e comunitari di giustizia, il turismo responsabile. Un secondo elemento è la presa di coscienza del rapporto di dominio e distruzione che l’uomo moderno ha instaurato nei confronti dell’ambiente naturale: l’economia dello spreco pone interrogativi ai cristiani che si sentono sulla terra inquilini e custodi; la ricerca di “sostenibilità” ha portato a fare scelte di riduzione dei consumi e a dare appoggio agli enti che cercano di inserire le valutazioni ambientali dentro ogni scelta economica. Il terzo elemento che spiega il dinamismo di molti gruppi cristiani è la scoperta crescente di un peggioramento della qualità della vita nei paesi ricchi nel corso degli ultimi decenni: la logica consumista fondata sull’inversione del rapporto tra oggetto e bisogno (non si producono più oggetti per soddisfare i bisogni ma si creano bisogni per continuare a produrre oggetti) insieme alla dimensione sempre più mercificata dei nostri rapporti con le cose hanno prodotto crescente disagio, malattie sociali (quali noia, stress, depressione) e la crescita di comportamenti alienanti come lo shopping. La ricerca di vero benessere ha condotto alla ricerca di proposte che vanno dalle scelte di autoriduzione del tempo lavorativo, all’autoproduzione, alle banche del tempo, cercando in ogni caso di recuperare quei legami che rendono significativi i rapporti con le persone e con le cose.

 

LA PEDAGOGIA

DELLA SOBRIETÀ

 

Da questa ricerca di giustizia/sostenibilità/benessere sono quindi maturati atteggiamenti che rivelano un superamento della logica del bisogno e l’adozione della dimensione del desiderio. Il superamento della logica del bisogno ha ridato la qualità di soggetti a persone che si sentivano sempre più ingranaggi del sistema, restituendo alla stesso tempo qualità alle cose, riscoperte nel loro valore intrinseco di manifestazioni del dono. Si è visto infatti che il desiderio è fondamentale perché dinamizza, apre prospettive inedite, fa riconoscere e cogliere le opportunità che la storia ci offre, permette di resistere, di non arrendersi. Fra i molteplici percorsi elaborati per dare sostanza ai desideri si può riconoscere un elemento comune nella scelta della sobrietà. La ridefinizione dei bisogni, l’essenzialità, il principio di sufficienza sono alcuni dei nomi con cui si indica un atteggiamento comune: la sobrietà, vista in senso positivo, come virtù, emerge quindi come una forma di liberazione dai troppi meccanismi che stanno distruggendo la terra, il futuro e la nostra pace. L’invito alla sobrietà non si pone nell’orizzonte della rinuncia, ma piuttosto nell’orizzonte di una sana e lenta degustazione di ogni bene, di ogni bellezza, di ogni relazione positiva che la natura e la vita ci offrono.

Siamo di fronte ad un percorso di saggezza umana che non esige, strettamente parlando, una fede religiosa. Ma la Bibbia aiuta questa saggezza facendo riscoprire il fondamento del dono che caratterizza le cose come frutto della parola benedicente di Dio e come questa bellezza si mantenga solo nella condivisione che conserva la circolarità del dono. I racconti della creazione, la storia della salvezza, le invettive dei profeti, le massime sapienziali, l’insegnamento di Gesù, la vita delle comunità cristiane, le esortazioni di Paolo, le immagini dell’Apocalisse sono concordi nel condannare i tentativi umani di trovare sicurezza nel possesso e nell’accumulazione dei beni; anzi, l’avidità e l’avarizia sono considerate alla radice di ogni male e condannate non tanto sul piano etico dei rapporti sociali ma come violazioni del primo comandamento, vere e proprie forme di idolatria. Parallelamente, soprattutto il filone biblico sapienziale, insiste sulla virtù della temperanza, sulla giusta misura e la buona vita che ne scaturisce, sull’insensatezza di coloro che non riconoscono né limiti naturali né vincoli sociali e, mentre credono di affermare la propria indipendenza e libertà, si rendono invece schiavi delle cose condannandosi al travaglio della competizione e all’effimero gusto del sorpasso.

La scelta della sobrietà ha condotto dunque a nuovi sguardi dentro la Scrittura e nell’anima delle cose, con due conseguenze importanti: il riconoscimento del peccato di avidità e lo stupore che permette la relazione. Nel primo caso siamo davanti ad un’opera di decostruzione, di smascheramento di una struttura di peccato che fa apparire “normale” il voler crescere, il voler avere di più e una virtù l’avidità. A fronte dei dogmi del mercato, della competizione, del profitto (parte integrante di quella “religione dei consumi” dotata di strumenti di persuasione così forti da convincere le maggioranze della sua legittimità), si riafferma il valore degli scambi non monetari, della condivisione, della collaborazione.

Avviene così che la sobrietà apra gli occhi di chi la pratica, donando quell’intelligenza delle cose che Gesù attribuiva ai piccoli e negava ai sapienti (cf. Lc 10,21). La sobrietà cambia infatti la capacità di guardare le cose andando oltre una visione quantitativa esteriore per cogliere le qualità più profonde: come i gigli del campo e gli uccelli del cielo ai quali lo sguardo di Gesù restituisce la possibilità di stupire. La meraviglia davanti alle cose genera a sua volta nuova sobrietà, perché la ricchezza della relazione qualitativa toglie valore al numero, alla quantità, all’accumulazione. Della manna occorre stupirsi ogni giorno, come di un miracolo: così essa è un dono che mi sazia; appena mi ci abituo, diventa un diritto che mi lascia insoddisfatto nonostante riesca ad accaparrarmene una dose sempre maggiore. Sobrietà è quindi la virtù praticata da chi sa riconoscere l’essenziale e sa accontentarsi, aprendosi alla possibilità della relazione che libera dalla schiavitù del possesso o dall’effimero piacere dell’acquistare. Tale relazione nasce grazie a un avvicinamento pieno di rispetto per le cose e per la loro storia; le cose appaiono allora come sacramenti: portano il segno dell’intenzionalità divina riconoscibile da chi sa stare di fronte ad esse con timore e tremore. La sobrietà è quindi una importante risposta al problema della giustizia, della sostenibilità ambientale e della qualità della vita; essa raccoglie le istanze bibliche e quelle più profonde della nostra epoca, sta producendo nuovi modi di vivere la fede cristiana e nuove narrazioni teologiche.

Anche nelle nostre case dunque, nelle nostre comunità, nei supermercati, nell’uso dei mezzi di comuni­cazione, nella ricerca di cittadinanza attiva e di politica dal basso, i cristiani possono combattere oggi le ingiustizie, la distruzione dell’ambiente, il disagio sociale. Superando gli schemi fondati sulla paura del futuro, sulla demonizzazione della modernità e sul mero appello alla responsabilità e al sacrificio, il consumo appare come qualcosa da arricchire di senso, attraverso una pedagogia del desiderio che si sviluppa e matura nella pratica della sobrietà. Quando le cose acquistano un volto e una storia, ne viene riconosciuta l’intenzionalità di dono, e l’uomo depone la sua sovranità illimitata, allora anche la giustizia e la difesa dell’ambiente diventano i motivi che ispirano la prassi del cristiano che si riconosce “custode e coltivatore” (Gn 2) e non può distogliere gli occhi dalla “creazione che geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22).1

 

Mario Chiaro

 

1Per l’articolo abbiamo attinto a due scritti di Luca Gaggioli, presenti sull’interessante sito del patriarcato di Venezia alla voce “Pastorale diocesana degli stili di vita” (www.veneziastilidivita.it).