I CRAC ECONOMICI INTERPELLANO ANCHE NOI

SILENZIO CHE INQUIETA

 

Stanchi dei continui litigi dei nostri politici rischiamo di non vedere più i reali problemi e le radici da cui derivano tanti crac economici e i loro risvolti sul piano mondiale. Anche per noi come Chiesa è urgente alzare la voce in nome del Vangelo.

 

Non ci vuole molto acume per rendersi conto che il nostro paese sta attraversando una stagione abbastanza cupa e carica di interrogativi che non si possono lasciar cadere.

Lasciando pur da parte le leggi fatte ad personam (Cirami, rogatorie, Lodo Schifani, ecc.), che già sono preoccupanti, vediamo avallare con legge il falso in bilancio, il rientro agevolato di grandi capitali illecitamente esportati, vediamo approvate sanatorie e condoni di varia natura, leggi che trasmettono un messaggio moralmente devastante: violare le leggi è possibile e vantaggioso, perché poi si può mettersi a posto; fare i furbi conviene ed è benedetto dallo stato che in questo modo “fa cassa”. La discussione non ancora conclusa sulla riforma del sistema previdenziale e pensionistico e l’intenzione più che palese del governo di smantellare un po’ alla volta lo stato sociale, stanno seminando tra la gente ansietà e incertezza per il futuro, conflitti e divisioni che non possono essere sottovalutati. In questo ambiente vengono ora i recenti scandali, che chiamiamo crac economici, di due colossi agro-alimentari cui si aggiunge, ultimo nel tempo, ma ugualmente preoccupante, lo scandalo delle società di calcio che spendono denari che non hanno… Non ha senso temere che ci si stia avviando “verso lo stato di polizia”, come è stato autorevolmente detto. È giusto invece che lo stato si guardi dentro e cerchi di circoscrivere il marcio, per salvare il resto. Non solo lo stato deve preoccuparsi… ogni cittadino dovrebbe darsene pensiero e anche noi religiosi, e per parecchie ragioni.

 

LA SCONFITTA

DELLA LEGALITÀ

 

La prima è una paura concreta: dietro a questi scandali si sono migliaia di posti di lavoro a rischio, altrettante famiglie potenzialmente in crisi: se oggi sembra che la perdita del posto di lavoro sia una realtà normale nel contesto di mobilità e flessibilità richieste dall’attuale sistema economico, non cessa di essere una sciagura di cui preoccuparsi.

La seconda ragione è la constatazione della maniera allegra, ma immorale, che è invalsa nella gestione del denaro, che viene investito in operazioni rischiose, ove si gioca pericolosamente non solo con i capitali propri, ma anche con il denaro dei piccoli risparmiatori che, ignari, li hanno investiti sulla parola dei cosiddetti esperti e delle banche compiacenti.

La terza ragione riguarda lo stile di gestione di certi gruppi, di cui le società di calcio sono un epifenomeno, che usano e spendono denaro che non hanno e che non esiste proprio (vedi i bilanci di certe squadre di calcio, le fideiussioni false, l’uso spregiudicato dei soldi di un’impresa agro-alimentare per pagare i premi scudetto ecc.). C’è da domandarsi dove stiamo andando e se esistano ancora delle norme etiche che guidano il campo della economia e della finanza. Come allo squarciarsi di un velo, improvvisamente ci siamo trovati davanti a scenari incredibili.

Infine c’è un’altra ragione che ci dovrebbe far riflettere: da tutte queste vicende si evince che il quadro di riferimento del mondo economico e politico non è la legalità e le norme etiche che la guidano, e neppure quell’ultimo residuo di credenze tradizionali cristiane rimasto in fondo alla nostra cultura secolarizzata. Ci sono troppi imprenditori, che si dicono ­cristiani, che credono che il mondo dell’economia e della finanza sia un campo neutro in cui non ci sono leggi e nel quale con un po’ di beneficenza tutto si può aggiustare davanti a Dio.

L’economia attende di essere nuovamente evangelizzata o forse evangelizzata per la prima volta in modo sistematico, mentre ci colpisce in questo momento il silenzio assordante che regna nella nostra Chiesa a proposito di questi fatti.

«Che possiamo farci noi al crac delle imprese?». Nulla. Del resto non sono delle novità. È vero che di questi disastri, di queste furberie italiane ce ne sono sempre stati. Niente di nuovo, anzi tutto è déjà vu. Di nuovo forse c’è che questi fatti si moltiplicano e che noi non reagiamo più, quasi non sentissimo più nulla che desti in noi indignazione o rabbia. Siamo come saturi. Scandali e disagio sociale crescono e noi, paradossalmente, rispondiamo con un pilatesco: «Che posso farci?». Può bastare?

 

LA MATRICE

DI QUESTO SFASCIO

 

Per cercare di dare una risposta a queste domande, dobbiamo chiederci quale è la matrice di questa situazione: da dove viene questo modo nuovo e disinvolto di trattare il denaro? È il frutto di una congiuntura di avvenimenti che non dipende da noi oppure è il prodotto di una mentalità che si è andata creando?

Non è difficile individuare la matrice di questa mentalità nel mondo della globalizzazione che ha consacrato il libero mercato e la sua logica. La rivoluzione industriale prima e quella digitale ora, hanno portato il mondo a unificarsi attorno all’economia e ad assolutizzare questo campo. Il “villaggio globale”, grazie alle rapide comunicazioni dell’era digitale, è diventato un unico grande supermercato con banca e sale di divertimento annesse, ma esso più che a una realtà unificata come un villaggio, caratterizzato da relazioni di prossimità, assomiglia a una megalopoli del terzo mondo, costituita da un centro pulito e svettante pieno di grattacieli moderni, circondato però da una sterminata periferia fatta di tuguri e di violenza indegni dell’uomo.

Di questa unificazione del mondo ha guadagnato soprattutto l’economia, il libero mercato, che è uscito vincitore dalla guerra fredda fra capitalismo e comunismo. La caduta del muro di Berlino (1989) è stato l’avvenimento simbolo che ha sancito la vittoria e l’inizio di una nuova fase della storia in cui non c’è più che un unico nuovo ordine mondiale egemo­nizzato dall’occidente liberista. C’è del vero nell’affermazione che la caduta del comunismo sovietico è stata la «la fine della storia» (Francis Fukuyama).

La globalizzazione economica, la corsa a concentrare in poche mani i sistemi produttivi e commerciali (le multinazionali non sono nel mondo che una ventina) e a estendere sempre più i mercati non è di questi ultimi anni. Quello che è recente è l’accelerazione di questi processi in vista di una massimalizzazione dei profitti. Oggi le compagnie multinazionali spostano i capitali in pochi secondi e trasferiscono con grande facilità i centri di produzione (le fabbriche) là dove la produzione costa meno (la manodopera a buon mercato), dove c’è garanzia di ordine sociale (non ci sono scioperi) e dove le leggi facilitano questi processi.

Questa mobilità delle compagnie multinazionali esige una grande flessibilità. Esse non tengono in conto i costi umani individuali (la famiglia, l’educazione dei figli, la carriera, l’età, la possibilità di reinserirsi ecc. dei lavoratori), o collettivi (i collassi economici di intere regioni il cui commercio o l’industria vengono messi in difficoltà) e culturali (i valori tradizionali vengono erosi da questa nuova cultura planetaria).

 

UNA NUOVA

RELIGIONE LAICA

 

L’economia capitalistica globalizzata è diventata una specie di religione il cui Dio è il denaro, i suoi riti sono quelli del libero mercato, cui è attribuito un primato assoluto. I suoi templi sono le banche e la borsa. Caduto il comunismo, il capitalismo sembra aver trionfato come modello unico di organizzazione della vita economica, a nord come a sud a est come a ovest. Il nuovo dio è invincibile, onnipotente, unico, buono, perché dà da vivere e offre beni che gli altri sistemi non riescono a dare. È anche un dio intelligente che usa bene delle sue conoscenze. Gli uomini sono diventati il “capitale umano”. I sacerdoti di questa nuova religione sono gli esperti di borsa, i banchieri e i finanzieri che dettano le leggi per investire il denaro, che parlano un gergo da iniziati, che purificano il denaro sporco riciclandolo e rimettendolo sul mercato (pare che ogni anno in Italia 200.000 miliardi di vecchie lire sono riciclati e entrano nel commercio). La nuova religione offre assistenza e consigli “spirituali” su come usare il denaro. Tutto, proprio come una religione.

Il nuovo culto consiste nel “far soldi”, in ogni modo, il come è di secondaria importanza. Un’espressione di questa religione è il lavoro cui tutto si sacrifica. Accanto alla religione del lavoro c’è quella del denaro facile, della speculazione, delle lotterie, dei giochi a premio… è una religione della corruzione dei valori. La religione del libero mercato non arretra neppure davanti alla sofferenza, alla miseria, alle distruzioni non solo nei paesi poveri, ma anche nei paesi ricchi (40 milioni di americani sono nella miseria a causa di questo sistema di vita). La gente è solo merce. Il dio denaro non segue le leggi della giustizia e della retribuzione del giusto, ma del furbo e del capace: è il dio dei furbi, dei fortunati, e spesso e volentieri anche dei disonesti che, alla fine, vengono premiati con le sanatorie e i condoni.

La nuova religione della globalizzazione economica ha quattro dogmi: 1. non c’è un altro sistema economico valido al di fuori del capitalismo liberale; 2. il libero scambio è l’unica strada che permette la crescita e la prosperità; 3. buono e lecito è tutto quello che favorisce il libero mercato, cattivo ciò che lo blocca o lo impedisce; 4. l’unico padrone è il capitale e il mercato e non c’è che una libertà: quella di sottomettervisi. L’obiettivo della globalizzazione è la massimalizzazione dei profitti: ciò che conta è produrre molto e a basso prezzo, vendere molto, e guadagnare molto senza dover pagare troppi pedaggi.

 

GLOBALIZZAZIONE

E GESTIONE DEL DENARO

 

La globalizzazione come tale non deve essere demonizzata come fosse la fonte di tutti i mali. Essa può produrre delle situazioni favorevoli alla crescita delle persone e dei popoli, anche dei più poveri (offerta di nuovi strumenti e di nuove tecniche che uniscono gli uomini, che possono promuoverne il progresso e il benessere e superare le calamità di questo mondo). Ma non è possibile che il campo dell’economia globalizzata sia lasciato libero di svilupparsi spontaneamente e istintivamente perché produce squilibri e ingiustizie che tagliano fuori dalla possibilità di vivere degnamente milioni di uomini. Soprattutto deve essere cercato un sistema di norme che regolino il campo economico in vista del bene comune. Perciò lo stato deve riprendere in mano il settore economico e non lasciarlo agire indipendentemente e nell’impunità. Molti ormai chiedono che si trovino dei supercontrollori dell’attività finanziaria delle imprese e delle banche, e una governance a livello mondiale che regoli questa ormai inevitabile tendenza all’estensione dell’economia e della finanza affinché diventi un processo che favorisce la crescita di tutti e non solo di pochi privilegiati.

 

E NOI DI CHIESA

COSA POSSIAMO FARE?

 

Anzitutto ci dobbiamo rendere conto che questa nuova visione dell’economia è un’autentica idolatria del dio denaro. Comprendiamo allora subito che dobbiamo reagire non solo in nome dei diritti umani, ma anche e più radicalmente in nome della nostra fede. Non si sta forse esagerando? Bisogna ricordare che il sistema della globalizzazione non è del tutto anonimo: esso viene fatto funzionare da persone e viene accettato e omologato da coloro che lo utilizzano. Esso sta diventando una “struttura di peccato”, una “sorgente di altri peccati”, una struttura che condiziona negativamente la condotta degli altri uomini (Sollicitudo rei socialis 36).

Giovanni Paolo II ha ripetuto molte volte che non si deve permettere alla globalizzazione di diventare un sistema di esclusione, ma l’occasione di una maggiore solidarietà nella ricerca del bene comune di tutti. Per questo bisognerà che l’economia sia di nuovo guidata dai principi etici, che vengono dal rispetto per i diritti della persona, da una visione cristiana del lavoro, da una visione solidaristica del mondo per cui il progresso di una parte del mondo non deve essere promosso a discapito dei più deboli e dei più poveri. In una parola, dal magistero sociale della Chiesa.

La Chiesa è per sua natura cattolica, aperta a tutti, una comunione in cui si condividono le differenze, perciò è in grado di contribuire alla ricostruzione di un mondo solidale e fraterno. Essa deve reagire davanti agli sbandamenti dell’economia e della politica. Non ha, è vero, delle formule tecniche, ma ha il Vangelo di Gesù Cristo. E il Vangelo chiede di vivere la solidarietà nella volontà decisa di impegnarsi per il bene comune e non solo per i propri privilegi.

Questa solidarietà viene da una visione umanistica dell’economia, dove l’uomo viene prima dell’economico, del lavoro e del mercato. Viene anche da una ripresa del principio di sussidiarietà invocato non per liberare lo stato o gli individui dai propri doveri, ma per riportarli entrambi alle loro responsabilità. Certamente le condizioni di epoche passate sono oggi mutate, e lo stato sociale non potrà essere più ricostruito tale e quale, perché esso costa di più del passato. È aumentata la durata della vita (pensioni più lunghe e quindi spesa più alta), è calata l’occupazione (meno lavoratori che contribuiscono), sono cresciuti i costi dei servizi sociali. Tutto questo giustifica una revisione dello stato sociale, ma non il suo smantellamento che lascerebbe senza risorse moltissime persone, soprattutto i più deboli.

Una visione umanistica del lavoro dovrà tener presente la nuova situazione, ma non permetterà che la cosiddetta flessibilità del lavoro metta sulla strada degli uomini di cinquant’anni che non troveranno più un’altra occupazione quando ancora devono provvedere alla loro famiglia. Bisognerà anche vegliare che i nuovi posti di lavoro (sono poi così tanti?) non siano solo precari…!

 

OCCORRE UNA VOCE

AUTOREVOLE

 

Oggi sono molti i cristiani e i religiosi che si meravigliano del silenzio della Chiesa e del mancato richiamo ai valori della legalità, della corresponsabilità e della sussidiarietà, del buon uso del denaro. Di essi si è fatto portavoce l’on. Franco Monaco in una lettera aperta apparsa su Jesus (settembre 2003): «Questi punti di sofferenza [i mali attuali dell’Italia] sono riconducibili a precise e imputabili responsabilità politiche. Con i loro nomi e cognomi. È ingeneroso notare un certo silenzio delle nostre chiese su sfide di tale portata? Un vistoso deficit nell’esercizio di una indeclinabile responsabilità nell’opera di discernimento e di illuminazione delle coscienze?» E continuava: «Qua e là fa capolino un disagio diffuso, ma esso non prende forma, non prende parola in pubblico. Né si può confondere la doverosa alterità, l’irrinunciabile spirito universalistico della Chiesa, per natura e per missione al di sopra delle parti politiche, con l’ossessione dell’equidistanza, con l’accidia, con una equivoca neutralità rispetto a principi-valori umani e cristiani non negoziabili» .

Il silenzio dei pastori non deve autorizzare anche noi religiosi a disinteressarci di questi problemi in cui sono coinvolte l’esistenza e il futuro di tanti fratelli e sorelle. Noi religiosi siamo spesso in …una botte di ferro, ma molti dei nostri fratelli devono affrontare le conseguenze dell’attuale sistema economico e politico. Non basterà proporsi di non collaborare con il male, bisognerà vedere che certi nostri amici potenti non siano tali per abusi che hanno fatto e che la nostra amicizia e la loro beneficenza non divengano un alibi per continuare sulla strada dell’ingiustizia. La scelta dei poveri deve uscire dai nostri documenti e condurci a sentire questi problemi e a fare quelle scelte che sono in nostro potere per dissociarci, quanto possibile, da un sistema economico che rischia di essere una trappola mortale per tanti nostri fratelli e sorelle.

 

Gabriele Ferrari sx

 

1 Su questo argomento cf. anche l’editoriale di p. Bartolomeo Sorge Il silenzio dei vescovi sull’Italia di oggi, in Aggiornamenti sociali, marzo 2004.