NON SI TRATTA SOLO DI DENARO

POVERTÀ EVANGELICA

 

Oggi il concetto di povertà non si riduce a una questione di denaro. Esso ha un volto evangelico quando si configura alle scelte di Cristo nella sua incarnazione, fino all’annientamento della croce. Il significato della nostra povertà, perciò, _prima di essere socio-economico, è teologico.

 

Se si percorre la storia della Chiesa lungo i secoli si può facilmente rilevare che la stima che essa ha avuto per la povertà e la sua attenzione ai poveri hanno sempre costituito il termometro più appropriato per misurare la sincerità e la profondità delle sue riforme, al di là delle belle parole e dei documenti. Anche per quanto riguarda il nostro tempo è significativo, per esempio, notare che nell’esortazione Vita consecrata si parli dei consigli evangelici in genere 38 volte, di verginale-casto-celibe 49, di obbediente-obbedienza 41, e di poveri-povertá 76. Tutto questo sta a indicare che anche nella VC di oggi il vero termometro dell’autenticità di vita, per quanto si riferisce ai consigli evangelici, al di là delle discussioni sull’obbedienza e delle difficoltà in campo affettivo-sessuale, continua a essere (come sempre) la comprensione e il vissuto della povertà.

Bisogna tuttavia ammettere che oggi il concetto di povertà si è notevolmente ampliato nella sua dimensione antropologica e socio-economica. Nella nostra società, quando si parla di povertà, si tende a pensare immediatamente a qualcosa di negativo: alla mancanza di beni, soprattutto di quelli economici o comunque al rapporto con le cose materiali esterne alla persona. Ma ci sono altri tipi di povertà, non meno importanti, per esempio, la mancanza di potere decisionale, la disoccupazione, la povertà del malato fisico o psichico, del disabile e dell’anziano, quella del tossicodipendente o del malato di aids, di chi non ha casa o famiglia, dell’immigrato clandestino, del perseguitato, del nomade, del barbone, ecc. E ancora: la povertà di chi non ha nessuno da amare e non si sente amato da nessuno, di chi si sente solo senza poter soddisfare il bisogno di appartenere a un gruppo… il bisogno di essere stimato, di chi si sente abbandonato, dimenticato, odiato, guardato con diffidenza o disprezzo, ecc.

La povertà è quindi una realtà molto complessa, ma non va considerata solo nei suoi aspetti negativi. Essa infatti ha anche dei risvolti umani positivi che costituiscono una vera sorgente di valori, o meglio di virtù umane. Il fatto anzitutto che essa libera l’uomo dalla smania del possesso e l’aiuta a saper prescindere dalle cose futili, dai beni fittizi, dai bisogni creati artificialmente, frutto del consumismo sfrenato e insensato, e gli fa capire che nella vita è molto più importante l’essere che l’avere.

Povertà è anche la consapevolezza dei propri limiti, condizione per aprirsi agli altri e per poter ricevere dagli altri, la capacità di condividere, di donare se stessi e di sentirsi bisognosi degli altri. In questo senso, essa deve essere intesa come solidarietà, condivisone, comunione; non quindi come privazione, ma come oblatività. In effetti, un cuore povero diventa anche un cuore fraterno.

Il passo successivo è quello della gratuità. La povertà spinge a donarsi, a condividere superando la tentazione della ricerca del proprio tornaconto, del calcolo egoistico, dello sfruttamento e della manipolazione degli altri, consiste nel dare una mano, nell’amare. Sono tutte virtù che troviamo nelle persone economicamente deboli, le quali sono portate spontaneamente a condividere quello che hanno e questo atteggiamento diventa per esse fonte di gioia.

 

SIGNIFICATO

TEOLOGICO

 

Non bisogna dimenticare che il significato della nostra povertà non è innanzitutto socio-economico, ma teologico. Non impoveriamo pertanto la povertà riducendola a una questione di denaro. Certo il denaro c’entra, ma perché c’entro io, e la realtà economica è un aspetto della mia vita. Ma la povertà rivelata da Cristo e in Cristo è qualcosa di molto più profondo. Uno dei grandi meriti dell’esortazione Vita consecrata è stato di farci passare da una visione economicista, e in fondo materialista della povertà religiosa, a una visione cristologico-trinitaria, andando così alla vera radice del problema. Se è in Cristo, Verbo incarnato, il luogo dove trovare il significato del mistero della nostra vita, ciò a cui il Padre ci ha chiamato, da dove veniamo, dove siamo e verso dove andiamo…, è ovvio che è qui che dobbiamo trovare il significato della VC e ciascuno dei suoi elementi e, in questo caso, della povertà.

In una sintesi quanto mai riuscita e stringata, l’esortazione ci parla dunque del significato cristologico-trinitario, profetico, ecclesiale e apostolico della povertà cristiana del religioso. È opportuno richiamarne i testi più significativi lasciando a ciascuno il compito di approfondirli sorto l’aspetto che potremmo chiamare “mistico”.

«La povertà evangelica – scrive l’esortazione – è un modo chiaro e concreto di vivere e proclamare che “Dio è l’unica vera ricchezza dell’uomo”. Vissuta sull’esempio di Cristo (aspetto cristologico) il quale “da ricco che era, si è fatto povero” (2Cor 8,9; cf. Fil 2,5-11), diventa espressione del dono totale di sé che le tre persone divine (aspetto trinitario) reciprocamente si fanno. È dono che trabocca nella creazione e si manifesta pienamente nell’incarnazione del Verbo e nella sua morte redentrice (di nuovo, l’aspetto cristologico)» (VC 21c; cf. 22b). In questo modo, il religioso «imitando la povertà di Cristo (aspetto cristologico), lo confessa (aspetto apostolico-profetico) Figlio che tutto riceve dal Padre e nell’amore tutto gli restituisce (cf. Gv 17,7.10) (aspetto trinitario)» (16c).

Finché non giungiamo a scoprire e a radicarci su questa base, siamo ancora lontani dal Vangelo; non abbiamo capito niente della nostra vita. È infatti da qui che scaturisce il significato anche esterno, apostolico, di testimonianza e profezia, della nostra povertà. In effetti, di fronte ad una società in cui c’è «un materialismo avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli e privo di ogni considerazione per lo stesso equilibrio delle risorse naturali» (problema ecologico) (89a), la nostra povertà appare come un carisma di semplicità, distacco, solidarietà e fraternità con tutti, a cominciare dai più bisognosi, «la predilezione per i poveri e la promozione della giustizia» (82). Un carisma che ci induce ad avere un amore preferenziale – non esclusivo – per i poveri (82, 90). Il povero, infatti, diventa il primo – non l’unico – dopo colui che è il vero primo e l’unico: Dio. Tutto questo, sottolinea ancora l’esortazione, il religioso lo vive con «sovrabbondanza di gratuità e d’amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell’effimero» (105a). È un carisma quindi che richiede di essere vissuto come è stato vissuto da Gesù (aspetto cristologico): in umiltà, semplicità, solidarietà e ospitalità, superando ogni forma di sfruttamento, imborghesimento e consumismo.

 

LA POVERTÀ

DI CRISTO

 

Il significato della nostra povertà deve essere ricercato nel contesto della povertà cristiana in genere; e questa non è altro che rappresentazione, prolungamento e completamento nella storia della povertà di Cristo (cf. Col 1,24).

Ora, quando pensiamo alla povertà di Cristo, tendiamo a restare semplicemente a qualcosa di esterno, superficiale. Ma, in Gesù, le manifestazioni esterne – in questo caso, la povertà – hanno certamente un valore relativo ma che esprime una realtà interiore. Come del resto in ciascuno di noi. Così, ad es., quando leggiamo che egli «non aveva dove posare il capo» (Mt 8,20; cf. Lc 9,58), si parla di qualcosa di esterno, ma il suo significato va cercato in qualcosa di più profondo. E, infatti, la ragione e il significato della sua povertà li troviamo spiegati in alcuni testi di Paolo: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9; cf. 5,21; VC 21c).

Affermazione ampiamente descritta nell’inno cristologico della lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).

La povertà di Cristo, che sta alla base di tutte le occasionali manifestazioni esterne, consiste in questo annientamento, svuotamento (ekénosen), spogliamento, impoverimento; in una parola, nell’incarnazione. La katábasis, come dicevano i Padri greci, ossia l’abbassamento; il Verbo (lógos, da ricco che era) si fece carne (sarx, si fece povero) (cf. Gv 1,14); il Figlio diventò Gesù di Nazaret. Il Padre rinchiuse il suo tesoro (il Figlio) nel vaso di creta della nostra fragilità umana (cf. 2Cor 4,7): nella carne tenera del bambino di Betlemme, nella parola umana del predicatore che non tutti capiranno, nel corpo straziato del crocifisso sul Calvario, nel Cristo risorto e glorificato ma che conserva ancora e per sempre i segni dei chiodi e la ferita del costato (cf. Gv 20,25-29).

In effetti, nel profondo, questa povertà consiste nella rinuncia volontaria, per amore al Padre e agli uomini diventati suoi fratelli di carne, alla situazione divina precedente e alle sue prerogative: l’essersi fatto come noi, e dunque povero, limitato, soggetto alla realtà creaturale umana, “in una carne simile a quella del peccato” (Rm 8,3), “fatto inferiore agli angeli” (Eb 2,9), “in tutto simile ai fratelli” (Eb 2,17), “essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). Ciò significa: soggetto alla povertà del dolore fisico, alla privazione di beni, a dover crescere e imparare umanamente (Lc 2,40.52), alla passione e morte; soggetto alla povertà del dolore psichico dell’incomprensione, del non riuscire a farsi capire e accettare, della tergiversazione (Lc 11,15; Gv 6,15), della calunnia, dell’insulto… Povertà che vuol dire rinuncia ai poteri divini a proprio favore, come appare nelle tentazioni (Mt 4,3.6.9), nel Getsemani (Mt 26,53-54), davanti a Caifa (Mt 26,63-64) e a Pilato (Gv 18,37), sulla croce (Mt 27,42-43).

In sintesi, dietro le manifestazioni esterne di povertà, appare la sua povertà di fondo: egli si è fatto come noi per farci come lui (cf. 2Cor 8,9). E la ragione di questo impoverimento (l’incarnazione) è la sua obbedienza al Padre (Eb 10,7; Gv 4,34; 5,30; Fil 2,8; Rm 5,19; Eb 5,8). Obbedienza, infine, che non è schiavitù od oppressione, bensì espressione libera di un amore incondizionato al Padre che lo porta a vivere in un atteggiamento di amore incondizionato agli uomini suoi fratelli, facendosi solidale con loro fino alla morte: «Io offro la mia vita… Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Gv_10,17-18). In Gesù quindi la povertà esterna è una conseguenza (effetto) di quella interiore (l’incarnazione), e questa a sua volta deriva dalla sua obbedienza al Padre, la quale è conseguenza del suo amore al Padre nella vita intratrintaria, come scrive Vita consecrata: «… del dono totale di sé che le tre persone divine reciprocamente si fanno. È dono che trabocca nella creazione e si manifesta pienamente nell’incarnazione del Verbo e nella sua morte redentrice» (21c). Questa scelta di povertà raggiungerà il suo culmine sulla croce.

Qui sta la ragione/significato primo e ultimo, fondante, della povertà di Cristo e, quindi, di quella dei suoi discepoli.

 

LA NOSTRA POVERTÀ

EVANGELICA

 

Bisogna ora chiederci: qual è allora il significato della nostra povertà evangelica? La risposta è che essa non può essere in certo senso diversa da quella di Cristo. Possiamo riassumerne il significato in tre affermazioni.

La prima è che la povertà è una realtà interiore quale frutto e conseguenza della fede. ed è a questo livello che deve essere compresa e vissuta (cf. Mt 5,3). In concreto, si parte dall’accoglienza di Dio in Cristo quale centro e movente della propria vita, cioè, dal primato di Dio su tutto e su tutti. E, di conseguenza, dalla donazione totale a Dio in Cristo, come l’unico necessario. In altre parole, come scrive ancora Vita consecrata, si tratta di una vita di povertà che «… confessa che Dio è l’unica ricchezza dell’uomo. Vissuta sull’esempio di Cristo che “da ricco che era si è fatto povero” (2Cor 8,9), diventa espressione del dono totale di sé che le tre Persone divine reciprocamente si fanno» (21c).

In questo modo, la VC «… imitando la sua povertà (di Cristo), lo confessa Figlio che tutto riceve dal Padre e nell’amore tutto gli restituisce» (cf. Gv 17,7.10;VC 16c) e condivide «il desiderio esplicito di totale conformazione a lui» (18c).

È quindi la dimensione cristologico-trinitaria la vera radice cristiana della povertà. Per noi, Dio/Cristo è l’unico bene veramente necessario (cf. Sal 15; Lc 10,42; VC 21c). Tutto il resto continua a essere valido e amabile, ma viene affettivamente e effettivamente dopo; non soltanto i beni, ma anche le persone e persino la propria vita. Ecco perché ogni cristiano deve mettere nel preventivo della propria vita persino il martirio (cf. LG 42b, VC 86). Questo è il “cuore di povero” di ogni discepolo, questa è la povertà richiesta a tutti!

Il religioso la vivrà in un modo suo peculiare, secondo le caratteristiche della sua vocazione, anche se in realtà egli condivide un’esigenza comune a tutti i cristiani. La sua austerità di vita, la condivisione comunitaria dei beni, ecc., non sono altro che un proclamare il primato di Dio e la disponibilità ai fratelli, caratteristici di ogni vita cristiana.

In secondo luogo, la povertà evangelica è disponibilità in vista del Regno. È la conseguenza di quanto appena detto. In effetti, l’atteggiamento pratico di servizio e la la povertà esterna non sono altro che la conseguenza dell’atteggiamento interiore di libera disponibilità a Dio e ai fratelli, come è stato in Cristo. Infatti, a sua imitazione (cf. Fil 2,7), il religioso si spoglia, si svuota di se stesso, si distacca da tutto (persone: famiglia-celibato, beni: povertà materiale, e autonomia: obbedienza) allo scopo di rimanere aperto e disponibile a Dio e ai fratelli. Mette a disposizione innanzitutto la propria persona (il bene più grande che ha), si dona senza riserve, si fa tutto a tutti (1Cor 9,19-23). Diventa così rappresentazione visibile, nella storia, della donazione totale di Cristo al Padre e ai fratelli. Povertà dunque come donazione, come vita di carità, e non come piacere del vuoto, come disprezzo di qualcuno o qualcosa, e nemmeno come semplice ascetismo. L’ascesi sarà certo necessaria, ma come aiuto indispensabile per superare il proprio egoismo e favorire la comunione. Come, infatti, diceva Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze (povertà materiale, come facevano taluni filosofi greci) e dessi il mio corpo per essere bruciato (la morte cruenta), ma non avessi la carità, niente mi giova» _(1Cor 13,3).

Come dirà anche sant’Agostino: Martyres non facit poena, sed causa. La fede cristiana non è un mistero di rinuncia o di ascetismo e nemmeno di dolore, ma di amore e comunione (1Gv 1,3), perché così è Dio (1Gv 4,8,16), così egli si è manifestato (Gv 3, 16s) e così ci ha santificato (Rm 5,5).

 

In questo modo, la vita del religioso è chiamata a diventare uno stato di disponibilità universale e incondizionata, di servizio, solidarietà, semplicità, sovrabbondante gratuità (cf. VC 104-105), agilità, disinstallazione continua, secondo le caratteristiche di ciascun carisma. Egli diventa un fratello/sorella particolarmente solidale, libero, semplice e disponibile. Il “professionista” della disponibilità e della condivisione, l’“esperto di comunione”. Infatti, mette a disposizione di Dio e dei fratelli (obbedienza), la sua persona, la sua vita (l’unica che ha!), il suo amore (celibato), le sue cose (povertà esterna), i suoi pregi, il suo tempo. Per lui/lei qualsiasi forma di individualismo, di ripiegamento su se stesso, di egoismo, di chiusura, di rifiuto della parola o del rapporto umano, di mancanza di collaborazione, di pigrizia, di vita comoda, ecc.: sono tutte mancanze contro la povertà evangelica, perché significano che egli non dona, non condivide qualcosa che potrebbe dare. Ecco perché la povertà evangelica coinvolge anche, ovviamente, la realtà economica; ma impegna molto di più del portafoglio: impegna la vita, la persona intera.

In terzo luogo, come abbiamo già detto, povertà significa condivisione di beni. Ricordiamo che l’ideale della comunità di Gerusalemme, paradigma della povertà cristiana, non fu la privazione di beni, ma la condivisione di quello che avevano (cf. At 2,42-47; 4,32; 5,16). Per il cristiano, infatti, i beni non sono un male, ma un bene da condividere, un mezzo per vivere ed esprimere la comunione.

Nel religioso questo significa un duplice genere di condivisione e implica un duplice genere di beni: 1) la condivisione all’interno del gruppo o comunità, tra i suoi membri, cioè, la vita fraterna e verso l’esterno, ossia la missione apostolica; 2) e due generi di beni: quelli materiali e umani, e quelli spirituali. Ognuno dà ciò che è in grado di dare, accoglie l’altro così come è, ed è disposto a ricevere. La vita fraterna e la missione specifica non sono dunque altro che manifestazioni della povertà evangelica.

 

Per quanto riguarda la povertà esterna, essa diventa secondaria e conseguente, allo stesso tempo. Secondaria, perché l’importante è la povertà interiore; conseguente, perché l’uomo è una realtà unica e, quindi, la semplicità di vita e l’austerità diventano un aiuto imprescindibile per rendere possibile e credibile la povertà interiore. Ecco perché, nonostante la sua secondarietà, essa è il banco di prova della povertà interiore e teologica. Quando si è poveri questa condizione non può non riflettersi su quanto si ha. Anche se, per quanto si riferisce agli aspetti più esteriori e materiali, bisognerà tenere presente il momento storico in cui si vive, il luogo o la società in cui ci si trova, e il carisma e la missione da promuovere.

Ciò che può essere austero in un’epoca, in un luogo o secondo un carisma, può non esserlo in un altro o per un altro. La fedeltà creativa alle proprie radici vocazionali e l’attenzione vigile e critica ai segni dei tempi, ci diranno come ciò va capito e vissuto.

 

PER UN VISSUTO

DIFFERENZIATO

 

Non è facile offrire dei suggerimenti sul modo di vivere la povertà oggi. La ragione dipende dalla diversità delle circostanze, ma anche dalla contraddittorietà in cui spesso ci troviamo, sia a livello di opere sia di formazione. Da una parte, nei loro documenti costituzionali o capitolari, gli istituti insistono sul radicalismo sia nel modo di vivere la povertà personale, sia nell’opzione per i poveri; dall’altra, viviamo in una società che ci offre numerose nuove possibilità quanto mai utili, per esempio nel campo della formazione, ma che ci spinge anche di continuo, e quasi senza che ce ne accorgiamo, verso il consumismo e un progressivo imborghesimento che è uno dei problemi più gravi e urgenti della VC odierna. Si tratta di una mentalità in contrasto con una vita povera, e persino austera, che tenta di impossessarsi di noi quotidianamente e in modo a volte sfacciato a volte subdolo, creando esigenze e diritti che non reggono il confronto con i criteri costituzionali e capitolari. Vorrei anche sottolineare che tutto questo, grazie ai mezzi di comunicazione sociale, non condiziona soltanto i religiosi di vita attiva ma anche quelli di vita contemplativa, i religiosi del primo mondo, ma anche non pochi del terzo mondo, sia quando questi sono qui da noi, sia quando ritornano nei loro paesi.

Alcune situazioni contradditorie

In concreto vorrei fermarmi su tre punti particolari.

In primo luogo, su talune situazioni contraddittorie in cui si trova non di rado la povertà, soprattutto collettiva, nella VC attuale. Mi riferisco ad esempio alle opere più o meno grandiose, a scopo più lucrativo che apostolico, che abbiamo costruito magari con tanta fatica e sacrifici negli anni cinquanta e sessanta (e anche di recente!); opere che non hanno avuto (e forse non potevano avere) quella lungimiranza profetica che sarebbe stata auspicabile, ma che, in seguito al cambiamento di mentalità e alla scarsità di vocazioni, sono diventate un peso e una controtestimonianza. Luoghi nei quali, a volte, un numero sempre più ridotto di religiosi, in mezzo a un numero crescente di laici stipendiati, porta avanti un lavoro che, ridotto poco alla volta a un ruolo direzionale o marginale, diventa estremamente faticoso, e non di rado motivo di disagio e poco edificante (certi collegi, ospedali, tenute, pensioni, alberghi, appartamenti, uffici…).

Bisogna avere il coraggio di fare opera di discernimento secondo le possibilità evangeliche e numeriche, e prendere delle decisioni. Lo si sente ripetere da tanti anni, e solo con molta fatica si stanno facendo dei passi. Ciò significa anche avere il coraggio di chiudere o trasformare opere venerande e venerate, ma che hanno perso il valore evangelico che potevano avere in altri tempi; non soltanto perché essendo in pochi non riusciamo più a portarle avanti, ma anche perché bisogna aprirne altre in conformità con il proprio carisma e in risposta alle “nuove povertà” sociali.

A volte singoli religiosi portano avanti quelle opere con degli orari di lavoro eroici. La testimonianza del singolo, però, viene svuotata dalla controtestimonianza (almeno apparente) dell’istituto o della comunità. Ma è altrettanto vero che, altre volte, ci sono religiosi, esemplarmente poveri (ci sono pure quelli imborghesiti), ma che non fanno niente o molto meno di quanto potrebbero fare.

Ci sono, dunque, dei religiosi sfruttati dall’istituzione congregazionale o ecclesiale. Si pensi a certi orari di lavoro in taluni ospedali, collegi e parrocchie. Parroci e vescovi che sfruttano e poi pagano male o per niente i servizi delle religiose. Superiori che sfruttano i sudditi con la scusa dello “spirito di sacrificio” per portare avanti un’opera che non ha più futuro; studenti e studentesse che non riescono a studiare, come è loro richiesto, perché in casa debbono fare un mare di altre cose…

Sfruttare la persona del religioso è sempre anticristiano, così come lo è il fatto di religiosi che sfruttano l’istituzione per vivere sulle spalle degli altri. Certamente il religioso/a ha il dovere di collaborare alla vita comunitaria, ma ha anche il diritto a un tempo di riposo, a poter pregare in pace, a vivere la fraternità comunitaria, a coltivare la propria formazione permanente, secondo le caratteristiche di ciascun istituto (cf. VC 69-71). Le comunità non debbono diventare delle pensioni di lavoratori più o meno stressati, scontrosi e solitari. Il lavoro è certamente un obbligo per tutti; ma, lo sfruttamento o l’esaurimento non sono un bene per nessuno. Poi magari ci stupiamo se un religioso esaurito entra in crisi…

Come formare alla povertà

Un secondo problema è come formare alla povertà oggi. C’è il pericolo di offrire ai formandi tante possibilità, facilitazioni e comodità (denaro, strumenti di lavoro, viaggi, passatempi, ecc.) da prepararli in modo sbagliato a una vita di gioiosa abnegazione, quale dovrà essere la loro più tardi. Certamente non stiamo preparando un buon futuro per l’istituto e per la Chiesa se i candidati crescono deboli umanamente e spiritualmente, svogliati, capricciosi o imborghesiti. È un pericolo incombente non solo nel caso di un candidato nato e cresciuto in una situazione economica talvolta più bassa, e che ora si trova a essere più “ricco” di prima… e con tanto di voto di povertà.

Ovviamente, nella misura del possibile e se ciò è in conformità con il proprio carisma e la propria missione, si devono offrire ai nuovi religiosi quelle possibilità di formazione umana, culturale e spirituale che magari non avevano le generazioni precedenti, ma che oggi vengono giudicate valide o addirittura necessarie. In altre parole, non ha senso dire che «ai miei tempi… questo non c’era; non l’abbiamo avuto; non era necessario…» e, quindi, «neanche voi…». La vita cambia, la storia cammina. Ciò nonostante, credo che non si debba aver paura di mettere un freno all’eventuale richiesta da parte dei giovani di mezzi sempre più nuovi e sofisticati, o di continue esperienze se queste portano soltanto alla dispersione, a uno sfarfallare di qua e di là, alla superficialità, a cominciare tante cose ma concludendo poco o niente, o a trascurare la formazione della volontà, dello spirito di preghiera personale o comunitaria, o la collaborazione con gli altri confratelli o consorelle nei lavori anche umili della comunità e dell’istituto.

Tra l’altro, il giovane formando, in questo periodo della sua vita, ha bisogno di una esperienza forte di vita comunitaria. E questo non avviene se gli individui vengono lasciati quasi da soli, come se i loro formatori non sapessero o non avessero forza di guidare la loro formazione, magari perché troppo presi da altre attività più interessanti e gratificanti; è una cosa che può succedere soprattutto nel campo maschile. Oppure, al contrario, il formatore è talmente onnipresente che non lascia “respirare” i formandi, non permette di portare avanti le loro iniziative e di assumersi delle responsabilità (quando magari prima di entrare avevano già avuto delle responsabilità sociali ed apostoliche!), o quando il rapporto formando-formatore rischia di soffocare il rapporto formando-comunità; e questo può succedere soprattutto in campo femminile.

È inoltre vero che il formando deve sperimentare in qualche misura (come e più ancora dei suoi coetanei) che la vita costa e che deve guadagnarsi il pane. Nella casa di formazione si rischia a volte di mantenere il formando in una specie di serra irreale e antiformativa, mentre fuori i suoi coetanei normalmente faticano. In questo modo non lo si forma per il futuro, ma lo si infantilizza, lo si mantiene in una situazione di immaturità, socialmente falsa. Il convento non può diventare la “grande madre” che deve provvedere e dare tutto ai suoi “figlioli”! Ma, non è detto che per evitare tutto questo, il formando debba per forza svolgere un lavoro di tipo salariale fuori casa. Anche studiare, fare catechesi, attendere al telefono o stare in portineria, pulire gli ambienti comunitari, ed altri impegni del genere sono dei modi validi di guadagnarsi il pane. Non dimentichiamo che non esistono dei lavori o servizi indegni o umilianti per nessuno, se c’è di mezzo la carità e l’umiltà… E questo, non solo nel caso del formando, ma anche per gli adulti, in possesso o no di titoli o cariche importanti. Basta guardare la vita di tanti fondatori, e soprattutto di Cristo, “Signore e Maestro” (Gv 13,14) che lava i piedi dei discepoli e li esorta a fare altrettanto gli uni gli altri (Gv 13,1-17), a servirsi a vicenda (cf. Mc 10,35-45), come ci ricorda Vita consecrata (75).

Spirito di povertà, non miseria

Infine, non si deve confondere lo spirito di povertà evangelica con la miseria o la mancanza di gioia e felicità. Entrando nella vita consacrata, il religioso cerca quella che crede sarà la sua felicità, non soltanto spirituale, ma anche umana. Se così non fosse, vorrebbe dire intraprendere una strada sbagliata e considerare la radicalità della VC come una specie di masochismo travestito da spiritualità, da purgatorio in terra, o un negarsi qualsiasi genere di soddisfazione in attesa dell’eternità beata… Il religioso, come ogni altro cristiano, deve accogliere con coraggio le gioie e le rinunce della sua vocazione; ma deve anche poter dimostrare e proclamare con la sua esistenza che la consacrazione a Dio e ai fratelli rende felici, non solo spiritualmente, ma anche umanamente. Non c’è peggiore controtestimonianza di quella di un religioso immaturo, infantile, insoddisfatto, frustrato, stizzoso, scontroso o triste. Si legga quanto dice ottimamente il documento Vita fraterna in comunità 28.

Infatti, non si segue il Signore risorto per la strada di un interminabile venerdì santo, bensì nella gioia pasquale e umana di appartenere totalmente a lui. Il religioso non fa voto di perpetua tristezza, così come non si consacra a Dio per evitare le noie della vita di famiglia. La sua vita sarà semplice, austera, laboriosa e responsabile, serena, realista e gioiosa, umanamente e cristianamente matura, e il più possibile disponibile a Dio e ai fratelli.

Non si tratta dunque né di mondanizzazione, né di chiasso o confusione, e tanto meno di creare in comunità un ambiente di continua festa; ma di quella gioia profonda, adulta e matura che proviene dalla fede, la quale illumina la vita del religioso e lo aiuta ad abbracciare con coraggio, amore e realismo, sia la gioia di vivere, sia i rischi e le difficoltà di ogni vita umana e in particolare della propria. “So infatti a chi ho creduto”, come diceva Paolo (2Tm 1,12): ecco la sorgente inesauribile della serietà e profondità della sua vita e, allo stesso tempo, della sua gioia e serenità.

Sono convinto che questi sono alcuni degli aspetti – tra gli altri – della testimonianza che il nostro mondo si aspetta da noi oggi per quanto concerne la povertà. Non possiamo defraudarlo. Esso ha diritto alla nostra coerenza e fedeltà, perché la nostra vita è un dono che Dio ha fatto loro in noi. Non possiamo deludere né loro né Dio.

 

J. Rovira, cmf