DAGLI ATTI CAPITOLARI DEI COMBONIANI
LA FRATERNITÀ NELLA VITA COMUNE
Al tema della comunità è dedicato tutto il capitolo IV degli atti
capitolari 2003 che i comboniani hanno ora pubblicato, frutto del capitolo
generale XVI (1 settembre – 2 ottobre 2003), su La missione del comboniano
all’inizio del terzo millennio. La comunità, è affermato nel titolo del
capitolo, è un dono, ma insieme anche un cammino, quasi a sottolineare che
senza un forte e costante impegno comune non si arriva da nessuna parte.
Subito dopo, nella parte introduttiva, la comunità è descritta come un
sogno, naturalmente possibile di realizzazione, ma senza ignorare una realtà
che necessariamente è fatta di luci e di ombre, di fatiche e di disagi.
Le luci a cui si accenna sono le diverse comunità presenti nell’istituto,
che vivono sotto lo sguardo benedicente di Dio e dei fratelli; comunità
accoglienti e fraterne, luoghi di ascolto e di condivisione della vita e della
preghiera.
Le ombre invece sono dovute al «permanere di non poche situazioni
comunitarie difficili, segnate dalla fatica di accettarsi, comprendersi,
perdonarsi e sostenersi a vicenda». Il capitolo generale non ha avuto paura di
guardarle in faccia, per cercarne le cause e giungere così a indicare la strada
per riuscire a rimettere la fraternità al cuore della vita comune.
Si tratta di un cammino dove non mancano «fatiche e disagi», che – detto
tra parentesi – sono gli stessi che si ritrovano quasi alla lettera in tutti
gli istituti.
Ci sono comunità, leggiamo negli Atti capitolari, in cui il tempo dato
all’ascolto, alla comunicazione e condivisione personali è visto come
secondario, quasi un tempo prezioso sottratto al lavoro. Capita allora che
l’impegno nel verificare e programmare in comunità si riduce spesso a una
divisione degli impegni. C’è poi il fenomeno di confratelli che appaiono
rinchiusi in se stessi e nei loro mondi individuali, poco capaci di creare
rapporti significativi.
Altre difficoltà derivano dalla differenza di età, formazione, sensibilità
e di esperienza di missione; si nota anche l’emergere e il permanere di
atteggiamenti ed espressioni di giudizio negativo nei riguardi di confratelli
di diverse provenienze etniche e culturali.
Le cause sono da individuare in una formazione e una spiritualità poco
attente alla vita concreta delle persone, nell’individualismo, nel fatto che il
fondamento trinitario della missione non si è ancora tradotto a sufficienza in
una ricerca di modalità effettive di comunione nei rapporti vicendevoli, nella
vita nell’evangelizzazione e nella stessa spiritualità. Si osserva inoltre: «La
nostra vita religiosa appare a volte troppo legata all’osservanza legalistica
delle regole e poco alla misericordia e alla carità fraterna, cuore della Buona
Novella che libera e dà vita».
Dall’osservazione della realtà occorre passare quindi all’impegno, ossia
«formare comunità accoglienti dove, in primo luogo, accettiamo noi stessi con
la nostra realtà profonda, con i nostri doni e debolezze, e accettiamo anche
con rispetto il fratello, la sua storia, la sua personalità e cultura». Di
conseguenza, «sentiamo il bisogno di continuare a costruire comunità dove ogni
confratello si senta valorizzato come persona e dove ci siano reali possibilità
di comunicare e condividere gli uni con gli altri ciò che siamo, viviamo e
facciamo, senza drammatizzare le proprie debolezze ed errori e quelli _degli
altri».
Per riuscirvi è necessario dare tempo e spazio per l’incontro, celebrare i
momenti importanti della vita di ognuno, essere trasparenti nel nostro agire,
avere degli obiettivi comuni ed essere positivi nel parlare. Inoltre, è detto,
«abbiamo bisogno, specie nei momenti più duri, di comunità sperimentate come
luogo di misericordia e perdono, capaci di offrire uno spazio accogliente e
risanante ai confratelli più colpiti dalla vita».
Fra gli strumenti particolarmente efficaci vengono indicati la celebrazione
comunitaria dell’eucaristia e della riconciliazione, poiché «ci portano a
condividere l’esperienza profonda di Dio, rafforzano i nostri legami di
fraternità e ci fanno ritrovare la gioia di annunciare il Vangelo»; inoltre
l’esperienza della correzione fraterna che non solo fa prendere coscienza delle
proprie fragilità, ma assicura anche il sostegno fraterno nel cammino personale
e comunitario. Particolarmente prezioso appare in questa prospettiva il
ministero del superiore come animatore della fraternità, del discernimento e
della corresponsabilità, tutte cose che rendono possibile e significativa la
vita comunitaria.
La comunità è definita anche il luogo naturale per vivere la missione.
Giustamente gli atti capitolari la descrivono come «soggetto e oggetto della
missione», luogo dove l’internazionalità e l’interculturalità sono vissute come
dono e ricchezza e non come una minaccia. La chiamata infatti non è mai una
chiamata individuale, ma deve essere vissuta ed esprimersi come comunità. In
essa «carismi e doni personali arricchiscono la missione e rendono il servizio
missionario fruttuoso».
La comunità è «luogo dove si compie il discernimento, la scelta, la
realizzazione e la valutazione del lavoro e del servizio missionario », e tutto
questo «favorisce la continuità dell’opera apostolica e aiuta a far fronte ai
problemi causati dalla rotazione, dalle malattie e altri imprevisti».
Inoltre la condivisione dei beni e dei mezzi materiali in comunità esprime
il dono di sé a Cristo e «diventa a sua volta proposta alternativa e denuncia
profetica del materialismo e consumismo dominanti in un mondo globalizzato».
Se la vita comunitaria è autentica e bene inserita nel contesto in cui si
trova, diventa «strumento efficace di cui Dio si può servire per attrarre
persone di culture e provenienze diverse e suscitare nel loro cuore il
desiderio di condividere la nostra vita missionaria».
Il documento capitolare suggerisce quindi alcuni elementi di programmazione
per una rinnovata prassi comunitaria: momenti e percorsi di spiritualità in cui
si tenga conto sia dei risvolti umani sia di quelli psicologici; una maggior
offerta, durante l’iter formativo, di strumenti di analisi e comprensione e
gestione della personalità per crescere nell’interculturalità; lo sforzo per
avere comunità composte da almeno tre persone; un maggiore coinvolgimento di
tutti i membri della comunità nell’elaborazione di un progetto comune, nella
programmazione e revisione degli impegni; organizzazione da parte di ogni
provincia di corsi di formazione che aiutino i superiori a essere animatori di
comunità. Si suggerisce che nella loro scelta si tenga presente la capacità di
animazione dei confratelli. Si invitano quindi le province a interrogarsi in
che modo le strutture fisiche di alcune loro case possono creare o meno
ambienti a misura d’uomo. Infine si suggerisce di fare in modo affinché,
attraverso il discernimento provinciale e la collaborazione del consiglio
generale, al momento delle assegnazioni, favoriscano forme di vita comunitaria,
caratterizzate da una maggiore semplicità evangelica, che cercano vie nuove di
evangelizzazione, contemplazione e inserimento nell’ambiente secondo il
carisma.