UN’ANALISI DEI SUPERIORI MAGGIORI BENEDETTINI

SE MANCA LA COMUNICAZIONE

 

Quando in una comunità i membri non comunicano tra loro, preferendo vivere gli uni accanto agli altri come tanti alberi della foresta, scompare, oltre alla gioia di stare insieme, anche il fervore. È la vita stessa che viene meno. È possibile uscire da una situazione del genere?

 

Nella comunità religiosa, se manca la comunicazione tra i membri che la compongono, tutto diventa più difficile e il gruppo rischia di disgregarsi. Da questo rischio non sono esenti nemmeno le comunità monastiche dove normalmente si presume che le relazioni vicendevoli siano, quasi per loro natura, più fraterne che non in quelle di vita apostolica.

Ma l’esperienza dice che non è così. La conferma viene ora anche dai contributi della riunione annuale della Conferenza italiana dei superiori maggiori benedettini (CISB) che si è tenuta a Montecassino nell’aprile del 2003, pubblicati su Vita monastica, edizione Camaldoli, gennaio-marzo 2004. Il tema allo studio era: La comunicazione all’interno della comunità monastica e con l’esterno. L’argomento è stato affrontato da varie angolature: dal punto di vista filosofico e sociologico e da quello che potremmo definire più esperienziale, ossia da uno sguardo all’interno dell’ambito monastico, quindi con una particolare attenzione al vissuto reale. In quest’ultima prospettiva si è collocato Notker Wolf, abate generale della Confederazione benedettina, nella sua relazione intitolata La comunicazione nella comunità monastica: comunicare tra fratelli (abate incluso). La sua convinzione è che «in una comunità dove manca una comunicazione in un senso più profondo, non c’è più né vita né fervore. L’accidia, la noia e la nausea diventano il tratto comune».

 

UNA COMUNITÀ

SFASCIATA

 

Per spiegare come si possa giungere a questa situazione, Notker ha descritto il caso quasi incredibile di una comunità, di cui non ha fatto il nome, sottolineando che quanto è avvenuto poteva essere applicato a un bel numero di altre comunità, comunque tipico per comprendere i problemi che si stanno attraversando.

Ha riferito di aver conosciuto una comunità di una dozzina di monaci che non aveva più vocazioni da 25 anni. Il più giovane aveva circa 50 anni e la maggioranza più di 70. In effetti non erano mancati coloro che avevano bussato alle porte del monastero, ma alcuni, una volta. entrati se ne erano andati dopo un certo tempo: non erano adatti alla vita monastica poiché tutti avevano dietro di sé una storia di instabilità.

Ma il vero problema, ha sottolineato l’abate, era la situazione interna della comunità: «Alcuni non parlavano più con altri. Ciascuno faceva il suo lavoro e andava in coro, ma non si interessava degli altri, né chiedeva come stavano, e nemmeno si informava del loro lavoro o di altro. Erano un po’ come una foresta: un albero accanto all’altro senza contatti, senza comunicazione, e questo per anni. Non c’era più vita, per non parlare di fervore o magari di entusiasmo. Alcuni ormai erano amareggiati, altri pieni di rancore, soprattutto verso taluni di loro. L’aggressività era arrivata a un livello notevole e a ogni critica si rispondeva immediatamente con una autodifesa».

Questo modo di comportarsi era dovuto in parte alle abitudini che avevano apprese. Comunque, non parlandosi, ognuno poteva ritirarsi e rifugiarsi nel proprio individualismo sotto una copertura monastica. Ma era un vivere un monachesimo che ha finito per condurre alla morte, anziché alla libertà; alla tristezza anziché alla gioia.

Per ovviare a questa situazione tutt’altro che esaltante, il primo rimedio sembrò quello di cambiare l’abate, ma non servì a niente. Ciascuno continuò a vivere la sua vita da scapolo chiuso nel proprio individualismo.

Si ricorse allora a delle riunioni comunitarie per cercare di individuare i difetti della comunità, gli atteggiamenti di indifferenza, di mancanza di interesse vicendevole e le difficoltà di parlarsi gli uni gli altri. Ma non essendoci un moderatore, quel genere di riunione finì in litigi e in ulteriori rancori.

La comunità si affidò allora a uno psicologo esperto il quale riuscì almeno a condurre i monaci a parlarsi nuovamente tra di loro. La vita divenne più distesa e quando si incontravano per la ricreazione davano l’impressione di essere un tranquillo club di anziani. Non erano però riusciti a imprimere nuovo slancio alla loro vita.

In breve, la comunità si accorse di non aver più la forza per rinascere e così dopo una lunga riflessione decise di sciogliersi, poiché tutti si erano resi conto che così non potevano più continuare.

È una storia molto triste, ha sottolineato Notker, tanto più perché riguarda una comunità un tempo fiorente, che negli anni sessanta aveva una cinquantina di monaci.

Perché è finita così? Eppure non mancavano la regolarità nella preghiera, nel lavoro, e un minimo di vita comune; quello che mancava era invece la comunicazione interna, l’interesse, la sensibilità , la maturità umana delle persone. Ognuno si era chiuso nel proprio individualismo, rassegnandosi a una vita da scapolo per sopravvivere… Il peggio era che tutto si svolgeva sotto la copertura monastica: i monaci non si salutavano quando si incontravano nei corridoi; nessuno s’accorgeva del rifiuto e dell’indifferenza dell’altro, ma tutto rimaneva nascosto e si sviluppava sotto il manto della perfezione. A mano a mano si innalzavano i muri: silenzio, nessuna visita nella cella monastica, ognuno assolveva al dovere della preghiera e del proprio lavoro, ma era un vivere l’uno accanto all’altro, non l’uno con l’altro. E guai a cambiare qualcosa.

 

ALLA RICERCA

DELLE CAUSE

 

L’esempio riportato è servito all’abate per risalire alla cause che possono portare a situazioni del genere e per trovare eventualmente la terapia adatta.

La prima di queste cause è, secondo Notker, la mancanza di maturità umana. Alcuni di coloro che bussano alla porta del monastero, ha affermato, cercano un nido, un ambiente che li protegga. Sono individui che non sono mai usciti davvero dal grembo materno. E siccome la comunità offre protezione, ve ne sono altri che rientrano in tale grembo. Del resto è tanto comodo. Sono persone che riferiscono tutto a se stesse e non si preoccupano degli altri, non entrano più in relazione. E se non ricevono l’attenzione di un bambino, si chiudono in se stesse e mettono su il broncio. Un atteggiamento del genere si riscontra in coloro che sono rimasti alla stadio del narcisismo adolescenziale.

Ve ne sono poi altri che, per diversi motivi, non sono mai maturati sul piano emozionale. Rimangono a una distanza che sembra convenire alla vita monastica. Manca loro la sensibilità naturale verso l’altro. Giungono anche a trattare duramente il prossimo e non mostrano mai una vera compassione. Semmai, irrompe poi nella loro vita l’emozionale quando spunta l’amore per una donna, o purtroppo anche verso un uomo, non per una vera disposizione, ma per un amore deviato a causa di sentimenti sessuali dirompenti, sorti all’improvviso e fuori controllo. I casi allora sono due: o questi individui giungono a vivere una doppia vita oppure lasciano il monastero.

Una seconda causa è il perfezionismo. Conosciamo bene i perfezionisti, ha sottolineato Notker. Sotto il manto della fedeltà alla regola e alla disciplina sembrano essere i più bravi della comunità. In realtà spesso disprezzano gli altri per le loro debolezze e mostrano un’arroganza che distrugge la comunione della comunità. Quando poi s’accorgono di non essere nemmeno loro perfetti, non lo accettano e diventano falsi e ipocriti.

I perfezionisti possono diventare un bel peso per l’abate. Se si accorgono del loro difetto, della loro costrizione psicologica, che spesso ha inevitabilmente le sue origini nell’infanzia, soffrono molto; allora bisogna incoraggiarli a non prendersi troppo sul serio, convincerli che Dio non è un maestro di classe, un burocrate o un giudice duro, ma un padre misericordioso.

Ci sono poi coloro che vivono molto tranquilli: non avendo né moglie e né bambini a cui accudire, ti sfidano continuamente. Molto spesso cadono nella pigrizia e nell’inerzia. Non è comodo, ha sottolineato Notker, occuparsi degli altri e dei loro problemi; è più comodo starsene nella propria cella senza interessarsi dei problemi dei confratelli.

C’è, infine, un’ulteriore causa: è la paura di se stessi. Si tratta di persone che si rapportano con gli altri in base al loro utile. Ciò è dovuto a una fragile identità personale. Sono individui che hanno paura di perdere se stessi interessandosi degli altri. La loro preoccupazione piuttosto è: chi sono io, qual è il mio valore? Non capiscono la logica evangelica: chi cerca se stesso finisce col perdersi e solo chi perde se stesso si trova. Secondo Notker una paura del genere deriva dall’ambiente familiare.

 

POSSIBILI

VIE DI USCITA

 

Come fare allora per trovare vie di comunicazione per giungere a vivere una vita di comunione secondo l’ideale evangelico?

A parere dell’abate Notker, il primo passo comincia col discernimento delle vocazioni. Non basta che uno desideri farsi monaco: bisogna vedere se è maturo sul piano umano e se ha alle spalle una famiglia sostanzialmente stabile. Se mancano le disposizioni, spetta allora al maestro dei postulanti e dei novizi adoperarsi per far crescere il candidato. Ma non è un’impresa facile in un breve tempo, poiché la crescita ha bisogno di tempo. Forse è opportuno allungare il periodo di attesa prima di accogliere un candidato al noviziato e poi accompagnarlo con molta attenzione. Bisogna comunque riconoscere che i candidati di oggi, nonostante tutta la loro buona volontà, non hanno più alle spalle il retroterra di una volta e che la loro situazione normale è l’anormalità, anche se molti giungono con la volontà di lasciarsi formare.

Una seconda via riguarda la formazione che deve essere integrale. Non basta quindi quella intellettuale; è indispensabile anche quella umana. Questa a sua volta si intreccia con quella intellettuale nel senso che, se è seria, richiede anche un continuo sforzo umano poiché senza certe qualità non si giunge ad alcun risultato. Bisogna quindi stimolare i giovani sapendo che i buoni risultati sono anche un’affermazione umana del loro valore.

Secondo l’abate, un aiuto efficace viene oggi dalle settimane in comune dei novizi e degli juniores, sia di professione temporanea sia di professione solenne. Purtroppo, lamenta Notker, i monasteri vivono un po’ isolati. È opportuno quindi rompere questo isolamento. Questi incontri offrono l’opportunità per delle riflessioni e degli sviluppi che non sono possibili nelle rispettive comunità, dove spesso i giovani non trovano gli interlocutori adatti per i loro problemi. Ho notato, ha sottolineato l’abate, che soprattutto per i problemi sessuali, un buon relatore può fare molto di più che un maestro dei novizi, perché il problema viene trattato su un piano più oggettivo. Del resto i problemi della sessualità e dell’identità sessuale esistono per tutti, anche nella vita matrimoniale. Non bisogna quindi aver paura ad affrontarli.

Altrettanto importanti sono anche le riunioni informali – diverse da quelle formali come il seniorato e lo juniorato – poiché hanno il vantaggio di coinvolgere l’intera la comunità, favorendo la corresponsabilità di tutti.

Centrale, infine, è il ruolo dell’abate, il quale non deve essere colui che ha la soluzione per tutti i problemi. Secondo san Benedetto il suo compito è di essere maestro medico e pastore. Forse, sottolinea Notker, il suo ruolo globale si riassume nell’essere il padre della comunità, non solo spirituale, ma anche sotto il profilo umano. Il modello a cui ispirarsi è Mosè che cammina con il suo popolo e attraversa il deserto. Se si tiene presente che la comunità monastica è come una piccola chiesa, allora, dopo il concilio, bisogna vederla come popolo pellegrinante di Dio. Si cammina, si soffre, si celebra insieme. Quando l’uno o l’altro si ammala o è stanco, allora ci si incoraggia a vicenda. Ci si ferma, ci si alza.

Il ruolo dell’abate consiste soprattutto – prosegue Notker – nel creare uno spazio di incontro libero, nelle riunioni, nelle ricreazioni, in modo che ciascuno possa esprimere la propria opinione senza nessuna paura, sia nella riunioni ufficiali, sia in quelle informali. Egli deve essere quindi una persona molto aperta e capace di creare un clima disteso e nello stesso tempo responsabile. In una parola si tratta dell’arte di guidare una comunità.

Un altro compito dell’abate consiste nel provocare i confratelli a uscire dal loro isolamento, nel parlare con loro, nell’occuparsi di tutti, non solo di quelli problematici. Secondo Notker la comunicazione mediante lettera, come fanno alcuni abati, è fuori luogo, è un segno di paura. Ci vuole piuttosto il contatto concreto. Scusate, ha detto, «ma talvolta noi abati siamo codardi».

In che cosa consiste in definitiva il compito dell’abate? Nel cercare i fratelli, soprattutto quelli isolati; dobbiamo essere noi, ha detto Notker, il motore della comunità.

Ha quindi concluso affermando di non avere un soluzione definitiva, bensì una proposta: «l’ascolto che aiuta a scoprire nell’altro Cristo stesso, la scoperta del momento trascendente nel fratello, riconoscendo che egli è un mistero nel quale si riflette il mistero assoluto: Dio ama ciascuno come ama me stesso. Questa è il fondamento del nostro lavoro e della vita comune e tale visione deve rimanere la base del nostro impegno abbaziale per i nostri confratelli e per la loro vita».

 

A.D.