L’ALTRO HA IL VOLTO DEL FRATELLO

 

Siamo in un tempo in cui si rafforza la convinzione che le religioni costituiscano una fonte di settorialità e di conflitti. Per alcuni sono addirittura un fattore determinante nello scontro di civiltà. Le siepi che si costruiscono tra loro diventano spinose e alla fine si trasformano in muri quasi invalicabili. Perciò è necessario oggi, in quanto cristiani, ritornare a indagare con più attenzione le sacre Scritture, al fine di articolare una sintesi equilibrata tra elezione e universalità della salvezza. Ci aiuta, in questa operazione, un volumetto che riporta un ciclo di conferenze tenute da don Gianfranco Ravasi presso il centro culturale San Fedele di Milano.1

 

NELL’ANTICO

TESTAMENTO

 

Il noto biblista sottolinea con forza che il primo soggetto fondamentale che appare nelle prime pagine delle Scritture è l’umanità nella sua universalità (ha-‘adam): «L’uomo nato di donna, breve di vita, sazio d’affanno, come un fiore sboccia e subito appassisce e fugge come ombra senza mai fermarsi, senza mai sosta» (Gb 14,1-2). Così è descritta l’umanità indigente. Eppure questa coscienza universale della comune fragilità non ha impedito la costruzione di una terribile rete di separazioni e particolarismi. La Bibbia registra puntualmente questa tensione presentando, insieme a dichiarazioni d’amore per tutte le creature, immagini imbarazzanti di una elezione del popolo ebraico a scapito degli altri popoli (che devono essere, quando sono d’inciampo, addirittura eliminati: vedi il voto di sterminio contro le nazioni scacciate al momento di entrare nella terra promessa!).

Per iniziare a sbrogliare questa matassa, occorre considerare che i libri sacri non sono un’astratta collezione di scritti teologici o un insieme di manifestazioni mistiche: contengono «una serie di verità sepolte sotto il manto pesante delle pietre, le pietre della storia» (p. 10). Per evitare la tentazione del fondamentalismo dunque si deve affermare che la verità della Bibbia si ha solo in una contestuale interpretazione, secondo una corretta griglia di lettura. Perché «Dio entra nella storia e sta al gioco dell’uomo che ha creato libero, e quindi capace di glorie ma anche di vergogne, sia pure per condurlo a mete sempre più alte» (p. 12).

La visione del primo grande percorso biblico – che lega come un filo rosso Adamo (l’umanità fatta a immagine di Dio), Noè (tra Dio e l’umanità c’è un’alleanza universale), Abramo (Dio sceglie una strada per entrare nella storia: per mezzo di Israele vuole offrire benedizione a tutti i popoli) e Mosè (Israele è popolo sacerdotale per illuminare tutta la terra) – porta a concludere che il rapporto fra universalismo ed esclusivismo è una dinamica sottile e che Dio ha pazientemente educato Israele a comprendere la sua elezione non come un privilegio ma come una missione.

Ecco allora la fondamentale chiave interpretativa: «Quando come cristiani affermiamo… che la nostra religione è l’unica e vera, non dobbiamo intendere ciò come un primato esclusivo, che fa cadere tutto il resto del mondo sotto il segno del Maligno e della tenebra. Al contrario dobbiamo essere convinti che proprio perché Dio è voluto passare attraverso di noi, bisogna che non soltanto mostriamo agli altri la luce, ma comprendiamo anche le altre luci che stanno sorgendo e che sono disseminate nell’umanità perché sua è tutta la terra» (p. 23).

 

TRA ESCLUSIONE

E ACCOGLIENZA

 

Questa prospettiva diviene più illuminante se si guarda allo specifico itinerario offerto dai profeti, i quali appaiono come quella coscienza critica capace di offrire agli israeliti (tutti concentrati sul clan, sulla nazione e sui connazionali in diaspora) uno sguardo rivoluzionario nei confronti dello straniero. Così il profeta Isaia, andando contro ogni esclusivismo razziale, fa confluire al monte Sion tutte le genti e prevede che nel futuro la “Via del mare” (dall’Egitto all’Assiria attraverso la Palestina) non sia più calpestata dagli eserciti ma diventi strumento per incontri di pace. Lo stesso profeta presenta la figura messianica del Servo del Signore, il quale, pur nascendo da Israele, ha uno sguardo ormai al di là delle sue frontiere. Non stupisce dunque che la letteratura sapienziale (pensiamo a Giobbe, ai Proverbi, al libro della Sapienza) si spinga oltre per indicare, sulla via del dialogo, i semi di verità dispersi in tutte le culture.

Nel complesso emerge una grande certezza: «non possiamo non interessarci di ciò che sta al di là della nostra siepe, perché è Dio a interessarsi e a preoccuparsi. Dio, anzi, fa scendere persino la luce della sua benedizione su tutti coloro che sono così diversi da noi, che noi abbiamo considerato nemici e che tante volte, forse, abbiamo visto marciare contro di noi. Dio si interessa anche di loro. Dio non è mai, in modo esclusivo, con un solo popolo. Per cui il motto Gott mit uns dei nazisti, e tutte le varianti che ogni tanto emergono anche nei nostri giorni, sono semplicemente blasfeme. La stessa elezione ha una funzione salvifica universale» (p. 41).

La mano tesa da Dio già nell’Antico Testamento, affinché l’uomo scopra sempre di più la fraternità, si dispiega nell’orizzonte universale del Nuovo Testamento. Questa novità di respiro porta il nome di Cristo: Figlio di Dio fatto carne e quindi segnato dalla cultura e dalla mentalità ebraica. Egli, per esempio, supera il timore di divenire “impuro” toccando il lebbroso e – sapendo comprendere fino in fondo le paure cultuali e sociali dei suoi contemporanei nei confronti dell’altro – con questo gesto si fa carico anche di suscitare un movimento per andare incontro al fratello “diverso” ed escluso al fine di reintegrarlo (Mc 1,40-44). E ancora, Gesù sa andare anche oltre le proprie coordinate culturali quando, di fronte alla donna straniera che lo implora di guarirgli la figlioletta (Mc 7,24-30), passa dalla dichiarazione tipica di un ebreo chiuso in se stesso («Lascia che prima siano sfamati i figli, non è bene infatti prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini») alla presa d’atto di un capovolgimento («Io non ho trovato mai una fede così grande in Israele»).

Gesù stesso ha dunque vissuto la dialettica tra esclusione e accoglienza e l’apostolo Paolo lo definisce “nostra pace” proprio perché ha abbattuto il muro dell’inimicizia tra ebrei e stranieri, riconciliando tutti i popoli con Dio in un solo corpo (Ef 2,14ss). Tutti noi siamo divinizzati dal Figlio di Dio che è entrato nella storia e vuole salvare tutti gli uomini, tutta l’umanità e non soltanto alcuni privilegiati, trasformando tutti in figli di Dio. Infatti siamo una sola persona, il corpo di Cristo in cui siamo immersi: «Non c’è più giudeo né greco. Non c’è più né schiavo né libero. Non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

 

M.C.

 

1. RAVASI G., L’altro nella Scrittura. Paolo agli Efesini (2,12), EDB, Bologna 2003, pp. 72, € 7,75.