LINEE DI SPIRITUALITÀ MISSIONARIA

DUE VOLTI UN SOLO AMORE

 

Gli istituti religiosi avranno un futuro se offriranno alla gente un luogo per i loro interrogativi, i loro dubbi e le loro speranze. Se presenteranno una spiritualità e una forma di vita che prende sul serio le domande che oggi agitano gli uomini.Si tratta di servire “la vita del mondo” a partire dall’incontro con Dio.

 

Questo testo di padre Hermann Schalück1 può costituire un buon punto di riferimento per una approfondita riflessione sulla spiritualità della quaresima.

Sulla scorta di tre testi biblici il padre dimostra come nella nostra vita non ci debba essere separazione tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo, e nemmeno tra contemplazione e azione, come se un aspetto potesse esistere senza l’altro o essere considerato superiore all’altro. È a partire dalla sinergia di questi due amori che la vita religiosa avrà un futuro e potrà riscoprire il suo ruolo profetico.

 

Vorrei anzitutto cercare di presentarvi, a partire da tre testi del Vangelo di Luca, tre elementi costanti della spiritualità cristiana che possono avere un particolare significato per la vita religiosa.

 

Si tratta della parabola del buon samaritano, dell’episodio di Gesù in casa di Marta e Maria e dell’insegnamento di Gesù riguardo alla preghiera.In una breve parte conclusiva vorrei anche sottolineare quali indicazioni si possono forse trarre per il rinnovamento della nostra vita religiosa.

 

DI CHE COSA VIVE

LA SOLIDARIETÀ

 

La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-27) cerca, come anche i racconti successivi che narrano la visita di Gesù in casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42) e propongono l’insegnamento di Gesù ai discepoli circa la preghiera (Lc 11,1-13), di fare per così dire il punto su alcuni interrogativi umani di fondo, con le relative risposte: si tratta del problema riguardante lo “specifico” della fede e della sequela: che cosa devo fare perché la mia vita abbia una buona riuscita, soprattutto davanti a Dio? che cosa è in questione in definitiva? quali sono le opzioni fondamentali irrinunciabili della mia vita? e come possiamo/dobbiamo pregare?

In tutti e tre i testi si tratta del problema circa il rapporto tra l’amore di Dio e del prossimo, tra l’aprirsi in maniera gratuita a Dio e l’attività solidale, tra preghiera e impegno, tra azione e contemplazione, “mistica e politica”. Le risposte di Gesù sono plastiche, ricche di sfumature, “narrative” (a mo’ di racconto) e “inclusive”, vale a dire, evitano il discorso teorico e quindi il rischio di proporre alternative che si escludono, che si valutano e svalutano a vicenda.

In altre parole: vorrei mostrare come per il cristiano e la comunità nel suo insieme il progetto di vita inerente alla sequela è e rimane uno solo: l’amore di Dio inseparabile dall’amore del prossimo. Così pure che azione e contemplazione dipendono l’una dall’altra. Ambedue gli aspetti possono e devono essere chiaramente tra loro distinti. Uomini e donne nella storia della Chiesa li hanno vissuti con sfumature diverse. Ma i due aspetti dell’unica sequela, come è capitato, non devono essere separati e addirittura messi in contrapposizione tra loro. A mio parere, oggi più che mai abbiamo bisogno di una spiritualità incarnata, credibile, appropriata e portatrice di futuro, che di fronte a un mercato di diffusa religiosità in espansione e in una società orientata verso esperienze personali gratificanti (egotrip), e in una fase di perdita di solidarietà (Zulehner), indichi percorsi di “vita devota” e di necessaria solidarietà, sia a livello mondiale sia là dove gli uomini oggi sono feriti e cadono vittime dei briganti.

 

Anzitutto: quasi tutta la storia della fede fino ai tempi moderni, in seguito agli influssi platonici e neoplatonici che vedevano nella “contemplazione della suprema verità” l’atteggiamento fondamentale verso cui tendere, si è sviluppata all’insegna di una supremazia in linea di principio della contemplazione sull’azione. Il lavoro, l’impegno, la fatica quotidiana per l’altro e per gli altri, per i feriti lasciati ai margini della strada e le vittime delle guerre e delle strutture di peccato sul piano mondiale, tutto questo, per usare un linguaggio d’oggi, non trova un suo giusto posto, anzi stranamente deve ancora essere “giustificato”. Per esempio, troviamo in sant’Agostino una serie di riflessioni a carattere speculativo secondo cui la vita attiva, le sue lacerazioni, i dolori, le lacrime, come pure le gioie, sono da ritenersi forme di penitenza preparatorie e un passaggio necessario per un incontro autentico con Dio. Il grande dottore scrive nell’esegesi a Fil 1,23ss (“essere con Cristo è la cosa migliore, ma è necessario essere nella carne”), che ogni occupazione e ogni forma di attività si fanno per pura necessità (ex necessitate), mentre l’occuparsi di Dio e la preghiera si fanno per amore (ex caritate). Ma nel Nuovo Testamento è detto: «Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).

Ogni separazione tra l’uomo e le sue operazioni, compresa la fede, non è a mio parere sostenibile anche da un punto di vista antropologico.

 

OCCORRE

UNA NUOVA SPIRITUALITÀ

 

L’uomo contemporaneo si sente chiaramente creatore, homo faber. Egli può e vuole valorizzare questa capacità che, pur con tutta la sua ambivalenza e forza distruttiva, è anche fonte di pienezza, di creatività, di gioia e benedizione e non permette che gli venga sottratta né che sia deprezzata questa sua capacità nemmeno dalle chiese. Da prendere molto sul serio è l’esigenza dell’inculturazione del Vangelo nel tempo moderno. D’altra parte noi siamo homo ludens (Huizinga), aperti per natura all’arte, alla fantasia, al gioco, all’amore e anche alla preghiera e alla contemplazione.

Agire e non agire, parlare e tacere, azione e contemplazione, per la vita di fede sono importanti quanto il respirare e l’espirare per la vita umana, come il giorno e la notte per il ritmo della vita. Chi vive un aspetto sta sempre in rapporto vitale anche con l’altro, poiché ambedue costituiscono un tutto inscindibile. Così pure la preghiera, il silenzio, la contemplazione e la festa, da una parte, e una solidarietà costantemente impegnata, dall’altra, hanno il medesimo fondamento vitale, poiché Dio attraverso il suo agire in Cristo si è aperto e reso accessibile al mondo. Anche Gesù ha vissuto la sua missione nell’unione e l’incontro personale con il Padre, ed egli torna di continuo a questo incontro.

Tenendo presente l’esperienza della storia e del mondo d’oggi è necessario fondare una nuova spiritualità e sequela cristiana, sia nella sua globalità, sia anche nei suoi aspetti distinti che si fecondano a vicenda, di azione e contemplazione: da una parte si tratta del rilievo che deve avere il messaggio evangelico nell’ambito pubblico, dell’agire storico-politico, del necessario discorso e anche nella pubblica lotta per un mondo e un ordine sociale più giusto di quello che abbiamo oggi davanti agli occhi. Si tratta di far giungere la buona novella di un Dio rivolto al mondo, amico e impegnato per i poveri oltre gli orizzonti della Chiesa visibile, fino ai confini della terra, e di esaminare e scandagliare con coraggio e spirito critico i limiti della scienza, della ricerca e della tecnologia. Siccome Dio ama e sostiene la sua creazione, l’homo faber deve impegnarsi incessantemente a favore di ogni forma di vita del mondo. Dall’altra parte le catastrofi degli ultimi tempi ci hanno ricordato quanto fragile, contraddittoria e distruttiva può essere l’azione umana che non si nutre delle cose profonde, del mistero e dell’adorazione di colui che è la vera vita. L’attività umana, se non vuole perdere la sua base di umanità non deve esaurirsi unicamente in finalità intramondane, puramente sociali e politiche: dovrà sempre tenere lo sguardo rivolto verso il «centro del mistero, di cui noi tutti viviamo e cercare di rimanere aperta ad esso» (Rahner).

Questo non tanto per sottrarci ai pericoli che sono in agguato sulle vie della solidarietà, ma per superarli, pur essendo noi stessi feriti. Di fronte alle nuove sfide globali davanti a cui si trovano anche le comunità religiose e la stessa nostra Chiesa e la sua rete di opere missionarie a livello mondiale, l’evangelizzazione, lo sviluppo, la promozione della pace, la contemplazione e l’adorazione diventano più che mai necessità assolute. Infatti, siccome il fine ultimo del mondo e della storia sfugge all’azione umana più impegnata e non potrà mai essere completamente raggiunto attraverso l’attività, e siccome lo stesso agire umano è così ambiguo e fragile, per una solidarietà cristiana durevole, portatrice di futuro bisogna rimanere radicati nel mistero e nell’adorazione del mistero, di Dio che è la vita.

Inoltre, siccome il fine ultimo della storia non è fattibile da noi, malgrado ogni prognosi, i cinismi, lo scetticismo e la rassegnazione, la promessa di qualcosa di bene e degno della vita in senso universale può in quanto mistero riunire uomini di provenienza, cultura e religione quanto mai diverse e ispirare in essi pensieri di pace, di dialogo e di solidarietà. Nell’adorazione del mistero sta il fondamento primo per agire insieme a favore della liberazione dei poveri e la custodia della creazione. L’adorazione consente che l’altro, senza alcun pregiudizio attivo o passivo, rimanga nella sua diversità e non lo giudica in base a criteri puramente umani, perché Dio stesso è il giudice di tutto (Mt 7,1). Il non conoscere fino in fondo, il silenzio e l’adorazione, sono necessità urgenti perché preservano dai contraccolpi ideologici e dai pregiudizi e perciò possono cooperare in maniera particolare al rispetto e alla promozione del dialogo e della pace da parte di tutti, non solo dei cristiani.

 

In una parola: la contemplazione e la solidarietà sono ambedue in relazione con la vita del mondo. Ambedue derivano da un unico centro e sono ad esso ordinate. La lode, la celebrazione, la meditazione, la contemplazione e il silenzio, vale a dire un atteggiamento che si ferma davanti al mistero di Dio come fine del mondo e che “gratuitamente” adora, costituisce un aspetto di una spiritualità radicalmente riferita alla terra e ai poveri. La parabola del buon samaritano fra i tre testi che qui brevemente consideriamo tiene desta definitivamente ma anche criticamente la memoria che la solidarietà esercitata sul piano mondiale oppure in concreto ai margini della strada, non è un privilegio di coloro che guardano a Gesù. Il samaritano che ha prestato il “primo aiuto” in maniera intelligente, disinteressata e pronta, oggi in Europa forse potrebbe essere il “turco” che fa ciò che dovrebbero fare i principali responsabili delle Chiesa cristiana. Più che una critica, questa è per me una consolazione: esistono indubbiamente possibilità di dialogo e di solidarietà che vanno al di là delle confessioni e culture, del dare e dell’avere, che fino ad oggi non abbiamo valorizzato a dovere.

 

OPZIONE PER GLI ALTRI

OPZIONE PER DIO

 

Da lungo tempo è avvenuta una svolta: l’uomo moderno non si percepisce più solo come colui che osserva/contempla le verità e le bellezze eterne.

Egli vuole modellare, collaborare a plasmare, produrre, consumare. Il mondo e il cosmo sono percepiti come realtà dinamiche, mutevoli, distruttibili, comunque non definitive. La creazione e lo sviluppo perdurano (Teilhard de Chardin).

Questa svolta ha posto in maniera nuova anche la domanda circa il rapporto tra contemplare e fare, tra contemplazione e azione. Anche l’orientamento della domanda è cambiato, e viene meno il modo dualistico di pensare con la sua tendenza a sopravvalutare e sottovalutare due “campi di forza” umani, senza il rischio tuttavia di poter bandire dalla nostra Chiesa il modello spiritualistico o semplicemente sociale politico di vita e di azione.

Tuttavia, oggi è posto in primo piano l’approccio biblico di una spiritualità globale. In base ad esso l’amore al prossimo e a Dio, il servizio di Dio e del mondo costituiscono due aspetti di un’unica vocazione cristiana, distinguibili, ma tali da non poter essere separati.

È quanto vuole dimostrare in sostanza anche il racconto di Gesù in casa di Marta e Maria (Lc 1,28-35). Ma è opportuno leggerlo nel contesto di altre affermazioni neotestamentarie.

Nel Nuovo Testamento non c’è alcun genere di vita, nella sequela di Gesù e in obbedienza alla legge del suo Spirito, che si contrapponga e sia superiore o inferiore all’altro. Si tratta piuttosto di un modo di pensare, o meglio del modello di vita e di Chiesa dei carismi, ossia dei diversi doni e grazie dello Spirito, che pur nella loro diversità sono uguali per dignità, nel senso che tutti cooperano alla edificazione dell’unico corpo di Cristo (1Cor 12). A ciascuno/a è affidato un suo compito – modello di vita – un servizio caratteristico nell’insieme come identità non intercambiabile (cf. Ef 4,7), così come la creazione dell’unico essere umano in quanto uomo e donna (cf. Gen 1,11) non vuol dire un ordine superiore o inferiore, ma complementarietà, ossia bisogno di reciproco complemento e uguale partecipazione alla stessa umanità e alla medesima immagine di Dio. L’unico e medesimo Spirito secondo il Nuovo Testamento opera “tutto in tutti” (Ef 4,6.10). Non si possono dedurre giudizi di merito in base allo stato, genere, razza, colore della pelle, attività. Tutti sono valutati secondo la misura assolutamente nuova di Dio: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Perfino nella condizione di schiavitù non esiste alcuna ragione per una minore stima (cf. 1Cor 7,17-24).

 

Di fronte a questo cambiamento di prospettiva la preghiera e il dimorare nel segreto di Dio nella contemplazione non sono in se stessi qualcosa di migliore rispetto al lavoro, all’impegno, alla fatica e a tutti i servizi del buon samaritano che vengono compiuti nel nome del Signore. Infatti sarà accolto dal Padre non chi dice “Signore, Signore”, ma chi “fa la volontà del Padre” (Mt 7,21). Nel discorso apocalittico (Mt 25,40) questo è posto come criterio di giudizio circa il rapporto con il Signore (Mt 25,40): «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». L’apostolo Paolo, infine, nella sua dottrina sui carismi

(i doni dello Spirito) pone come unico criterio l’amore. Su di esso si misura la validità di tutti gli altri doni, anche di quelli straordinari (estasi) come il dono della preghiera, della fede che trasporta le montagne e dello stesso martirio (cf. 1Cor 13). Anche le lettere di Giovanni affermano esplicitamente (cf. 1Gv 4,12) il vincolo inscindibile tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo.

Per tornare al racconto dell’incontro con Marta e Maria: tra gli esperti di esegesi è ampiamente pacifico che da questa pericope non si può dedurre alcuna inferiorità di Marta rispetto a Maria e quindi nessuna subordinazione della vita “attiva” a quella “contemplativa”. Nel modo di presentare nel corso della storia la vita devota ciò è spesso accaduto, e sono stati elaborati, anche se in una visione complessiva complementare del tutto legittima, modelli quanto mai diversi, claustrali e secolari, e forme di vita “attiva” e “contemplativa”. Ma la pericope in quanto tale non fa altro che esprimere l’unico volto del duplice comandamento di Lc 10,27 (amare Dio e il prossimo come se stessi), mentre ciò che viene immediatamente prima, l’episodio del buon samaritano (Lc 10,29-37) presenta l’altra faccia della medaglia, ossia l’amore al prossimo, la liberazione dei poveri, l’opzione per gli altri.

Non parla del resto Gesù dell’unica cosa necessaria, ascoltare la Parola e lo stare vicino alla sua persona? Le sue parole sono chiare. Indicano al singolo cristiano e a ciascuna comunità, anzi a tutta la Chiesa, che la fede e l’azione derivano dall’ascolto della Parola e che noi senza di essa e senza la forza dello Spirito non possiamo fare nulla. La parola dell’uno necessario qui è detta in riferimento a una ben determinata situazione; anzitutto quando Marta si lamenta e accusa Maria di pigrizia, Gesù reagisce, difende e conferma il comportamento di Maria e definisce la sua scelta quella migliore. Ma è forse da escludere che Gesù non avrebbe rimproverato ambedue se esse, col pretesto di voler “solo” ascoltarlo, gli avessero rifiutato l’ospitalità, come avevano fatto prima (cf. Lc 9,52ss) i samaritani? Non è forse in armonia con tutto il Nuovo Testamento dire che anche l’ospitalità, l’accoglienza di Gesù e dei suoi discepoli nella propria casa è un atto, una professione di fede (cf. Mt 10,40; 25,35)? Gesù attribuisce valore ad ambedue le cose e ad ambedue le donne, alla professione di fede di Marta nell’atto dell’ospitalità e a quella di Maria nell’ascolto della Parola. Diaconia e annuncio, ambedue sono importanti. Ambedue fanno parte anche oggi dei compiti essenziali di coloro che seguono Gesù e condividono le funzioni basilari di ogni comunità cristiana: il servizio al prossimo e quello alla Parola (Martina Blasberg-Kunke).

La spiegazione del testo nell’orizzonte attuale della società e della vita della Chiesa attira l’attenzione su un altro aspetto significativo per il cammino futuro della Chiesa ossia il superamento del secolare dualismo tra azione e contemplazione. Per la Chiesa si tratterà, in ordine alla sua inculturazione e incarnazione nel mondo e alla comprensione e alla rilevanza storica del suo annuncio, non solo di superare la determinazione dei ruoli e dei modelli di vita non più comprensibili e biblicamente infondati, maschile e femminile, ma anche di una nuova rielaborazione del ministero nella Chiesa: Marta, una donna, accoglie Gesù e lo serve. Da questo fatto si può dedurre la vocazione della donna: dare alla sequela il suo volto specifico e un’accoglienza ospitale al Vangelo. Il racconto non vuole in alcun modo relegare la donna nel servizio domestico e nelle cosiddette funzioni di servizio. La chiama invece a un modo particolare di stare vicina al Signore. Tutti coloro che nel Nuovo Testamento sono particolarmente vicini al Signore, ricevono da questo servizio il potere di annunciare, di sanare, di rafforzare i fratelli e le sorelle e di edificare la comunità. Anche Maria vive la vicinanza al Signore ed è da lui confermata: il suo comportamento è del tutto inconsueto, dal momento che ordinariamente solo gli uomini si mettevano in ascolto di un rabbì. Essa si permette ciò che propriamente non competeva alle donne. E per questo viene lodata e confermata da Gesù. Così Maria è l’archetipo della donna che, dopo aver posto premurosa attenzione all’unico necessario, ossia dopo aver ascoltato la buona novella del regno di Dio, ora deve uscire per andare ad aiutare a costruire la comunità cristiana, segno del Regno che viene, della sua pace, giustizia e fraternità.

In una parola, nella pericope di Gesù in casa di Marta e Maria vedo per la Chiesa d’oggi il fiducioso invito a superare coraggiosamente la distinzione dei ruoli e del genere a partire dall’opzione per Dio e a osare qualcosa di nuovo. In questo testo c’è molto incoraggiamento, non solo per le donne.

 

COSA ASSUMERE

NELLA PREGHIERA

 

Il racconto della visita di Gesù in casa di Marta e Maria (cf. Lc 10,38-42) terminava con l’invito a non perdere di vista l’“unico necessario”. Come per darne ora una spiegazione in che cosa consista, segue un insegnamento ai discepoli sulla preghiera (cf. Lc 11,1-13). Come nei due testi precedenti, si tratta di elementi essenziali della sequela e della vita di una comunità cristiana: cosa devo fare? chi è il mio prossimo? cosa conta davanti a Dio? e come e per che cosa dobbiamo pregare? Sembra che nell’insieme del racconto di Luca tutto sia finalizzato a questo punto culminante. La risposta di Gesù alla domanda dei discepoli: “Signore, insegnaci a pregare” è il “Padre nostro”. Essendo la preghiera di Gesù stesso, essa insegna come i cristiani di tutti i tempi possono e devono pregare.

L’esegeta protestante Joachim Jeremias, attraverso un assiduo lavoro di ricerca sulle due tradizioni neotestamentarie del “Padre nostro” (cf. Mt 6,9-13 e Lc 11,2-4) ha ricostruito un testo che può essere considerato con una certa probabilità la più antica formulazione della preghiera di Gesù. Sembra più vicino alla versione più breve di Luca che non a quella di Matteo: “Padre nostro, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno. Dacci oggi il nostro pane per il domani e rimetti i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. E fa che non cadiamo in tentazione”.

Queste «parole originali di Gesù» (Jeremias) sono la traduzione verbale del suo atteggiamento di vita, della sua missione universale e inoltre il modello fondante di ogni preghiera cristiana. Esse danno alla preghiera un fondamento, un centro e un orizzonte. Quattro sono gli aspetti da mettere qui in risalto.

Anzitutto l’intimità della preghiera personale: essa si basa sulla consapevolezza della propria identità ed è in base ad essa che con piena fiducia e confidenza viene cercato e trovato l’incontro con il Tu. Gesù ha coscienza della sua origine e del mistero della sua vita. Ciò non viene espresso mediante un discorso, ma nel dialogo fiducioso, nella preghiera. La missione di Gesù, la sua azione e la continuità della sua opera sono profondamente radicati nella coscienza della sua figliolanza e nel costante incontro con colui che lo ha mandato e lo sostiene. Il rivolgersi a Dio in maniera immediata e fiduciosa appartiene alla forma originale della preghiera della Chiesa (mi chiedo soltanto: se Gesù ci dà questo esempio, perché un’infinità di preghiere della liturgia romana cominciano con “Dio onnipotente” o “Dio eterno”?).

 

Al secondo posto viene l’adorazione (“sia santificato il tuo nome”), seguita dalla domanda che sia Dio stesso a promuovere la sua azione nella storia e la possa cambiare (“venga il tuo Regno”). Il “Padre nostro”, nel suo attacco, comincia, per così dire soggettivamente. Ma apre anche direttamente su vasti orizzonti e porta alla solidarietà: nella sua forma riprende le due domande dell’aramaico Qaddi?, vale a dire una preghiera di lode del servizio di culto della sinagoga, e invoca come questa la venuta del regno escatologico di Dio. È espressione di speranza, di sicura attesa senza ansia, di certezza senza limiti. Dio stesso deve rimanere la misura dell’uomo e della storia. E pregando per la venuta del Regno, si prega anche per la venuta in tutti i tempi della giustizia e la liberazione di tutti i poveri, per la consolazione di tutti gli afflitti, per l’amore verso coloro che non sono amati.

Anche le domande riguardanti il pane e la remissione dei peccati sono parte essenziale della preghiera originale di Gesù. Ambedue riguardano aspetti vitali della condizione umana. Da una parte si tratta della preoccupazione per la vita e il benessere corporale, quindi del desiderio profondo di vivere riconciliati con se stessi e con il mondo. Rimane tuttavia aperta la domanda, secondo Jeremias, di quale pane esattamente si tratti, di quello immediato per l’oggi, quello quotidiano o oppure di quello per il domani. Come indica il testo che ha redatto, “il nostro pane quotidiano per il domani”, egli opta per l’aspetto escatologico. Si tratterebbe in primo luogo del pane di vita del tempo definitivo della salvezza. La richiesta elementare di essere saziati ogni giorno, bisogno fondamentale di ogni uomo, non sarebbe esclusa ma implicita. E anche la domanda di perdono dovrebbe, secondo Jeremias, essere rivolta ai tempi ultimi, senza perdere di vista il momento presente. Da notare in ogni modo che nel “Padre nostro” originale sono tenuti presenti il bisogno esistenziale della riconciliazione e della pace, anche se non come condizione preliminare del perdono dell’uomo da parte di Dio.

L’ultima parte della presunta redazione originale della preghiera, infine, parla ancora più chiaramente di un’esperienza fondamentale umana soggettiva. Tocca il problema delle debolezze e dell’errore. Tuttavia dall’invocazione “e fa che non cadiamo in tentazione” non si deve pensare che Dio stesso sia considerato un tentatore. Ciò sarebbe in contraddizione diretta con un’altra affermazione neotestamentaria, secondo cui Dio non tenta nessuno (cf. Gc 1,13). S’intende piuttosto il pericolo che l’uomo si chiuda definitivamente alla buona novella. Ma perché non si dovrebbe ancora una volta, anche qui, come riguardo al pane, dove è implicito l’aspetto “quotidiano”, intendere il venir meno quotidiano e il rimanere indietro di fronte all’invito alla sequela?

La preghiera è il caso serio e la pietra di paragone della sequela, sia del singolo sia della comunità. Da essa scaturisce una sorgente di energia da cui solo può avere esito positivo la vita. Ci pone davanti allo sguardo di Dio. Solo volgendosi e operando in questo modo il mondo può avere vita e speranza. Significa mettersi in sintonia sia personalmente che comunitariamente con le intenzioni che Dio stesso ha nei riguardi della sua creazione e dell’umanità. La preghiera di Gesù dice chiaramente che io, in quanto singolo, chiamato per nome, sono invitato alla lode, al ringraziamento, ma anche alla supplica e al lamento. Personalmente trovo anche molto aiuto quando nei tempi di aridità spirituale, di fatica, di chiusura entro piccoli orizzonti posso rifugiarmi nella comunione della Chiesa visibile e invisibile. La solidarietà con tutti gli uomini e tutte le donne, che oggi seguono Gesù, è benefica. La sintonia personale con una comunità visibile o anche con quella invisibile di tutti coloro che, prima di me, hanno cercato di seguire Gesù, ammorbidisce le nostre pusillanimità, ispira e allarga la prospettiva verso i bisogni del mondo e il gemito della creazione, acutizza lo sguardo degli occhi e del cuore e anche verso i bisogni in casa propria. Nell’attuale situazione della Chiesa e della società avvertiamo molto chiaramente: preghiera, liturgia e culto non dovrebbero essere sentiti come un estraniarsi dalla realtà e dalla storia che Dio ci ha dato, ma come un incentivo a servire la vita del mondo. Il culto a Dio e il servizio ai poveri non sono evidentemente la stessa cosa, ma viverli contrapponendoli sarebbe parimenti senza significato, come se volessi contrapporre il flusso e riflusso dell’unico mare. Preghiera e servizio alla vita non possono nemmeno stare separati tra di loro uno accanto all’altro, come spesso avviene. Dio, afferma Francesco d’Assisi, «deve essere adorato e glorificato per se stesso». L’adorazione e la preghiera per la venuta del Regno restano riferiti, in maniera visibile o invisibile, all’impegno per la vita nel mondo.

Durante una visita in Vietnam manifestai il mio stupore e la mia meraviglia per il modo rigoroso e insieme luminoso di vivere la preghiera e la pratica della clausura di un monastero di clarisse. L’abbadessa mi disse semplicemente: «Noi facciamo la nostra parte affinché Dio sia glorificato e venga per tutti il suo regno di vera pace, da noi e altrove. Noi portiamo voi fratelli e la Chiesa intera nella preghiera affinché tutti siano fedeli al loro compito».

 

VITA RELIGIOSA

CON UN FUTURO

 

Gli istituti religiosi oggi non sembrano essere molto di moda. Tuttavia sono convinto che essi avranno un futuro se offriranno alla gente un luogo per i loro interrogativi, i loro dubbi e alle loro speranze. Se presentano ad essa anche una spiritualità e una forma di vita che prende molto sul serio quelle domande che oggi agitano gli uomini. Si tratta di servire la vita del mondo a partire dall’incontro con Dio. Vorrei qui sottolineare alcuni aspetti.

Essere testimoni di Cristo

Il gesuita S. Painadath afferma: «La nostra vita scaturisce costantemente dalla radice nutritiva del Padre, ha consistenza attraverso il tronco portante del Figlio e fiorisce mediante il flusso trasformatore dello Spirito. Lo Spirito di Dio scorre in e attraverso di noi e ci unisce al Padre e al Figlio, ma anche gli uni agli altri nel flusso di vita intima di Dio. La nostra vita non si sviluppa davanti a Dio, ma all’interno della realtà divina». Come il tralcio unito alla vite (cf. Gv 15,5), così noi siamo radicati in Dio. Come ramoscelli siamo “eredi di Dio, coeredi di Cristo” (cf. Rm 8,17).

Come le foglie e i frutti si sviluppano dalla radice e attraverso il tronco, così noi siamo figli e figlie di Dio, poiché lo Spirito scorre in noi (Rm 8,14-15). Viviamo radicati sul fondamento divino e mediante un’energia che non cessa mai di fluire.

È un’esperienza straordinaria che libera e incoraggia, di cui non possiamo mai ricordarci a sufficienza.

Gesù vuole che abbiamo a partecipare alla stessa esperienza che ha caratterizzato la sua vita. “Io sono nel Padre e il Padre è in me. Così anche voi siete in me e io in voi”.

Come io ricevo continuamente la vita dal Padre, così anche voi riceverete la vita attraverso di me. Come io vivo dell’amore del Padre, così la vostra vita fiorisce nel mio amore. Come il tralcio è unito alla vite, così voi rimanete in me e io rimango nel Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola. Così anche voi dovete essere in noi una cosa sola e giungere all’unità perfetta (cf. Gv 17,21-23; 6,57; 15,9-10).

La Chiesa e in essa le comunità religiose sono chiamate a essere un segno (“sacramento”) della presenza di Dio e dell’unità degli uomini. In mezzo all’esperienza di solitudine e di diffusa ricerca di senso e di spiritualità, questo è un compito, o meglio una realtà che ci è data in antecedenza, che ci sostiene e che non dobbiamo mai dimenticare.

Strumenti di pace, giustizia e di custodia della creazione

L’impegno per la pace, la giustizia e la custodia della creazione nel senso di una fede che è per la vita del mondo costituiscono aspetti essenziali della fede. Si tratta della vita e del futuro del mondo, della pace e della giustizia. Fede e mondo, redenzione e liberazione, culto a Dio e servizio per un futuro degno dell’uomo non si possono separare tra di loro. Qui si trova una particolare sfida. C’è un numero sempre maggiore di fratelli e sorelle che accolgono gli impulsi dello Spirito a farsi promotori di pace, a costruire un mondo di pace nella giustizia e nella custodia della creazione e che nella sequela del Signore crocifisso e risorto sono pronti a nuovi slanci profetici. Per cambiare la società non abbiamo bisogno solo di strategie. Occorrono uomini e donne che si uniscono all’“altro” al di là di ogni diversità, che ascoltano e colgono negli altri l’azione di Dio, che non si propongono come padroni, ma come servi, fratelli e sorelle. È impensabile un nuovo ordine del mondo senza la sensibilità per la solidarietà, la compassione, la prontezza all’ascolto, alla partecipazione e condivisione.

I voti come invito alla libertàe al coraggio

Molti consacrati dovrebbero immergersi più profondamente nella storia per radicare lì la testimonianza di Dio: in nuove, piccole e fraterne forme di vita tra i poveri, non tanto nelle opere, e nemmeno esclusivamente nel servizio di carità e nella diaconia, ma con un nuovo stile di vita, quello di una Chiesa di sorelle e fratelli sotto l’unico Signore, lo stile della preghiera e della contemplazione in mezzo al mondo e con un linguaggio che i poveri possano capire. E tutto ciò in una cultura di sobrietà, di povertà, di libertà evangelica senza seconde intenzioni e di assoluta non violenza. Certo valori sono in contrasto con la cultura dominante della nostra società occidentale. Essere coerenti ad essi per tutta la vita, sull’esempio di Cristo, vuol dire in concreto mettersi più “sotto” che “sopra”. Nella profonda convinzione che alla fine è la speranza a vincere e il mondo intero avrà la vita in pienezza.

Sono profondamente convinto che è possibile che i voti possano infondere questi valori liberanti nella nostra cultura moderna e postmoderna. Da una parte essi hanno a che fare con l’inculturazione, con la volontà di solidarietà con il mondo e la creazione, così come è, ma anche con il coraggio di porsi come controcultura. Una vita religiosa rinnovata deve interpretare così i consigli evangelici e cercare di viverli affinché in mezzo a una società consumistica e individualistica siano riconoscibili come possibilità dell’uomo libero e maturo e come servizio al regno di Dio e alla sua giustizia. Non in prima linea come rinuncia e fuga del mondo, ma come possibilità di libertà e di impegno per plasmare il mondo nella fede.

Come coraggio di tentare qualcosa, soprattutto per i poveri, per la pace, il dialogo e la non violenza, e non in prima linea o esclusivamente come obbligo di evitare qualcosa. I voti possono diventare segni di solidarietà con le vittime della storia e della società, una benedizione per coloro che sono poveri di vita e di speranza. Un invito a una più profonda solidarietà con gli oppressi, gli impediti, gli esclusi, i non amati. Io credo che un impegno del genere possa attirare sempre delle persone.

Possibilità di una nuova partenza

La crisi attuale costituisce un’opportunità per una nuova partenza. Credo che lo Spirito di Dio in questo momento storico doloroso vorrà suscitare tra di noi nuovi doni di grazia (carismi). Si tratta dell’opportunità unica di riscoprire il compito fondamentale profetico e missionario e di offrirlo di nuovo alla Chiesa e alla società. Non si tratta più della fuga del mondo, ma di uno sguardo amorevole e solidale al mondo, alle sue speranze, ansie e minacce. Di un cammino verso e con gli uomini, con i poveri e i deboli; del coraggio di ripensare in maniera radicale l’attuale modo di pensare, le opere e le strutture nella Chiesa e negli istituti religiosi, poiché non è sempre sicuro che esse corrispondano ancora alle esigenze del Vangelo. Una presenza fraterna tra i poveri, in ascolto e in dialogo con essi, quale segni e strumenti di pace in un mondo conflittuale, violento, strutturalmente ingiusto come pure in ambiente e in una creazione sfruttata e defraudata della sua dignità. Una delle maggiori sfide del nuovo secolo che ci viene rivolta è di vivere la contemplazione e la profezia in una più stretta unione e in una polare tensione.

Ci sono delle giovani chiese, ma anche tra di noi ci sono numerose incoraggianti iniziative, che dicono che gli ordini e le comunità religiose possono superare e supereranno l’attuale crisi. Essi avranno il loro posto in mezzo al popolo di Dio con pari dignità e competenza tra chierici e laici, uomini e donne. La certezza non sta nelle nostre capacità, ma nella parola di Dio che rende l’intera Chiesa di Gesù, una Chiesa missionaria:

«Io sono con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20)

 

1. Si tratta della riflessione che p. Schalück ha tenuto all’incontro dei religiosi/e della diocesi di Bamberg (Germania) lo scorso autunno.