VC E PASTORALE PARROCCHIALE

ALLE FRONTIERE DELL’EVANGELIZZAZIONE

 

Questa sfida dei nostri tempi chiede a tutti la conversione a un’ecclesiologia più realista e attenta. Punto di riferimento obbligato il trinomio: chiesa locale, vita consacrata, territorio.

 

Nel corso dell’Assemblea CISM tenutasi a Valdragone (San Marino), dal 3 all’8 novembre 2003, un intervento di mons Italo Castellani, arcivescovo coadiutore di Lucca e presidente della commissione Clero e vita consacrata della CEI, ha messo a fuoco il rapporto religiosi–vescovi nella realtà parrocchiale e nell’impegno di evangelizzazione.

L’evangelizzazione, grande posta in gioco dei nostri tempi, chiede a tutti il coraggio di un confronto costruttivo volto a chiarire e organizzarne meglio la realizzazione. Altrimenti si rischia l’insignificanza.

Come vescovo, mons. Castellani si augura che nella vita diocesana i consacrati possano essere sempre più significativi perché riscoprono e vivono il proprio carisma hic et nunc e perché collaborano in modo organico con la chiesa locale. Egli cerca, nel suo intervento, di individuare alcune frontiere dell’evangelizzazione, a livello teologico–sapienziale e istituzionale.

 

SENSO TEOLOGICO

E SAPIENZIALE

 

Tra le più importanti frontiere dell’evangelizzazione vi è «l’ascolto profondo dei bisogni della gente». Mons. Castellani coglie nella vita ecclesiale attuale un rischio molto evidente: chiudersi nelle sacrestie e nei conventi; ridurre la pastorale a burocrazia e a celebrazione di sacramenti. Si entra così in un circolo vizioso: noi non capiamo la gente e la gente non capisce noi.

Sono evidenti i problemi di linguaggio, in un mondo che parla diversamente da noi. Perciò, «tutti siamo chiamati a una rivoluzione copernicana; la vita consacrata in quanto tale ha però nel suo DNA una fondamentale “laicità”, che non deve sovrapporsi né tanto meno essere sacrificata al ministero. Essa è una risorsa profonda per individuare un bisogno di salvezza oggi»: è necessario entrare nelle domande concrete che la gente si pone e lasciarsene provocare.

All’interno delle domande della gente, la vita consacrata porta la testimonianza della santità, il suo profumo, «la domanda di cosa significhi oggi santità e le sue nuove coniugazioni: il senso critico di fronte alla globalizzazione del consenso, le alternative alla politica come il volontariato, le prospettive aperte dalla comunicazione, ecc.». Anche qui la vita consacrata ha parecchio da dire, con le sue figure semplici e straordinarie di santità, allenata a valori magari oggi fuori moda – come la regola di vita, l’impegno per tutta una vita, l’ascesi , ecc. – ma che andrebbero riletti secondo la sensibilità di oggi e riproposti.

Collegata a questa testimonianza, «c’è la memoria escatologica, che tutti oggi siamo tentati di rimuovere, in un mondo sempre più inchiodato all’attimo presente». Se oggi ha ancora un senso la connotazione escatologica dei voti, bisogna che lo sia in termini molto realistici, piantata nei solchi dove il pastore passa per spargere il seme della Parola. Solo per fare un esempio: povertà è oggi sinonimo di sobrietà e di gratuità. Vivere i voti in relazione al territorio, strettamente agganciati e in costante confronto con la fatica del vivere quotidiano di una parte cospicua della nostra gente, rende più vera la nostra scelta e ad un tempo leggibile dalla gente stessa».

Altra frontiera è la tensione tra locale e universale. «Siamo tutti globalizzati, ma nello stesso tempo preoccupati di salvaguardare le nostre tradizioni locali, le nostre identità, il nostro specifico». Tutta la Chiesa è chiamata ad armonizzare la tensione tra globale e locale, «ma penso che l’apporto specifico dei religiosi sia fuori discussione, con il loro duplice radicarsi in un territorio e contemporaneamente con la loro concreta esperienza (e relativi agganci) a livello universale». Il compito di aiutare la gente a raccordare le loro preoccupazioni particolari con un più ampio orizzonte mondiale una chiesa locale può concretizzarlo più agevolmente col contributo dei religiosi: si pensi ai progetti missionari di aiuto economico, di volontariato, di comunicazione, di gemellaggio ecc. Animati da questa sana tensione, i religiosi dovrebbero essere un invito a non chiudersi nei propri orizzonti, a comunicare con le chiese vicine e lontane, a trovare “più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35)».

 

SENSO

ISTITUZIONALE

 

Gli strumenti coi quali i consacrati possono offrire il loro contributo sulle vaste frontiere dell’evangelizzazione – secondo mons. Castellani – sono molteplici.

Anzitutto l’annuncio straordinario della Parola, che sia esso realizzato nelle missioni popolari, animazione ai ritiri, centri di ascolto, lectio divina, ecc., «a condizione che essi siano doverosamente preparati e si pongano al servizio di una Chiesa locale e non si sovrappongano ad essa».

La pastorale educativa della scuola, in cui molti istituti religiosi sono impegnati, «rappresenta una straordinaria risorsa educativa e una maniera efficace di educare le persone a Cristo. A condizione che essa non sia un’isola rispetto alla chiesa locale, ma operi in sinergia con una parrocchia, una diocesi, e sia a servizio degli “ultimi” di oggi nell’accezione materiale e spirituale del termine.

Altra risorsa straordinaria è la spiritualità, che vari istituti religiosi hanno scelto come tema di confronto, di revisione e di animazione. «Dio voglia che questo tema non si esaurisca all’interno dei conventi, ma si traduca in progetti concreti al servizio della chiesa locale: in termini di scuola di preghiera, di offerta di luoghi dove riscoprire il silenzio e imparare a meditare, ecc.». È compito di tutta la chiesa locale, « ma il mio timore è che se i religiosi non sono i primi a farsi avanti, alla chiesa locale finirà per mancare qualcosa di concreto e di importante. E la nostra gente finirà col cercare altrove, fuori della chiesa, la risposta al bisogno di spiritualità innato nell’uomo e molto vivo anche nell’uomo del nostro tempo».

Accanto alla proposta di spiritualità c’è quella di comunità, di fraternità e di accoglienza. Anche la parrocchia riesce meglio a essere casa di tutti se è aiutata da una comunità religiosa aperta, che mette al servizio del territorio la propria esperienza vissuta di comunità, le proprie risorse e strutture; che si incontra in quanto comunità col clero locale, che organizza giornate di studio o altre manifestazioni al servizio e in sinergia con la parrocchia.

Infine la carità, la più importante delle risorse e degli strumenti. «Una chiesa locale che gode di scelte di gratuità non soltanto dei singoli consacrati, ma di una comunità religiosa (es.: il servizio mensa di una comunità religiosa) deve solo rendere gloria a Dio per questo. Ma questa lode può risuonare ancora più forte se tale servizio è vissuto come espressione di tutta una parrocchia o diocesi: es. una comunità religiosa che mette a disposizione i suoi spazi per organizzare il volontariato, sempre con e a nome di tutta una chiesa locale».

L’urgenza della carità richiama lo spazio di maggiore libertà e discernimento, di cui dovrebbe godere la vita consacrata rispetto al resto della chiesa locale. Resta il fatto che oggi la geografia della carità è perennemente cangiante, sempre nuovi spazi d’intervento si aprono, i nuovi poveri si affacciano ai nostri orizzonti col volto degli immigrati, dei senza tetto, dei nomadi, a cui va aggiunta la sfida dell’ecumenismo e del dialogo con altre religioni. Spesso, sempre più spesso, si chiede ai religiosi di muovere le tende e andare lì dove la chiesa locale non riesce ad arrivare.

 

LA PARROCCHIA

DEI RELIGIOSI

 

Alcune cifre aprono questa parte della riflessione di mons. Castellani. La vita consacrata maschile italiana rappresenta il 27% dei religiosi europei (il 30% dei religiosi presbiteri) e con 3.257 comunità costituisce di gran lunga la presenza territorialmente più diffusa. Un radicamento che trova nelle 1.879 parrocchie affidate a un religioso una sua peculiare qualificazione.

Il 9% dei religiosi è direttamente impegnato in parrocchia e, tenendo conto del numero delle comunità esistenti, circa la metà di esse ha un qualche legame, diretto o indiretto, con la struttura parrocchiale.

Nonostante la vita religiosa italiana abbia una presenza territoriale molto ricca e diversificata fatta di santuari, case di spiritualità, centri giovanili e oratori, ospedali e strutture per disabili, anziani, tossicodipendenti, scuole, librerie e case editrici, ecc., l’impegno parrocchiale rimane la modalità che più direttamente coinvolge nella relazione con la diocesi e con il territorio.

Esiste tuttavia il rischio che la mediazione parrocchiale finisca con l’omologare lo stile e la modalità di azione di una comunità religiosa ai modelli operativi del clero diocesano. «Malgrado il molto parlare in convegni e dibattiti – annota mons. Castellani – non è emersa, tolto qualche caso, una specifica e peculiare fisionomia di parrocchia tenuta da religiosi. Questo non perché vi sia una qualche preclusione da parte dei vescovi, ma per il fatto che sono gli stessi istituti religiosi a non esprimere proposte e modelli operativi».

Manca una peculiare riflessione su questo argomento. Ciò fa sì che i rapporti comunità religiosa–parrocchia rimangano legati alla modalità con la quale un istituto si è radicato in una diocesi, o a esigenze di “supplenza” di un clero diocesano sempre più anziano e con poche vocazioni. In questa logica dell’emergenza è comprensibile la fatica di vescovi e strutture diocesane ad accogliere la decisione di un istituto di lasciare una parrocchia, chiudere una comunità o ritirarsi dalla diocesi.

«Quello che in molti casi si rileva mancante è il dialogo, condotto prima di assumere una decisione, in modo da maturare orientamenti effettivamente condivisi. In tal senso il documento elaborato nel 1992 dalla commissione CEI per la vita consacrata, con l’apporto di CISM e USMI, sui criteri per il ridimensionamento costituisce tuttora un buon punto di incontro e una prospettiva metodologica ancora valida. Sarebbe però opportuno verificare l’effettiva recezione di quelle proposte e pensarne una riformulazione per affrontare un futuro, ormai prossimo, nel quale si faranno acute le tensioni tra esigenze di una evangelizzazione, nuova non solo per strumenti e metodologie, ma perché si rivolge a una società profondamente secolarizzata, anche se mantiene un esteriore e generico riferimento alla esperienza cristiana, e scarsità, invecchiamento, frammentazione delle risorse umane disponibili». In questa prospettiva il coordinamento e la collaborazione tra istituti religiosi e strutture diocesane è una scelta necessaria per un efficace impegno di evangelizzazione. «I religiosi in una diocesi non sono una risorsa aggiuntiva e men che meno una riserva alla quale attingere nei casi di emergenza o per motivi di supplenza, essi sono una componente essenziale dell’evangelizzazione».

È necessario, tuttavia, un cambiamento di mentalità e non solo un diverso rapporto tra istituzioni e strutture organizzative. Sono processi lenti e faticosi, ma non ci sono alternative.

 

UN RUOLO

DI SUPPLENZA?

 

La “parrocchia dei religiosi” è chiamata a ruoli di supplenza, o può aspirare a una fisionomia più confacente al suo carisma? Deve semplicemente omologarsi alle altre parrocchie, o ha un contributo proprio da apportare?

«Penso innanzitutto che all’interno di un piano organico, una parrocchia gestita da religiosi può e deve distinguersi per un servizio, consono il più possibile al suo specifico carisma».

Il rischio ricorrente di una parrocchia – secondo mons. Castellani – è duplice: far coincidere la sua azione col fare (sacramenti e catechesi), e limitare questa sua azione ai vicini.

Una parrocchia condotta da religiosi dovrebbe mostrare la centralità dell’essere più che del fare. Inoltre, proprio per una loro formazione diversa, i religiosi non dovrebbero adeguarsi acriticamente allo standard delle altre parrocchie in diocesi.

«Ancora una volta si dovrebbe partire dal territorio, dalla “gente” e dai “feriti” del territorio, dal grido di salvezza che da esso promana, e chiedersi come rispondere. Il territorio – nella sua accezione geografica, soprattutto antropologica e culturale – è il “giardino” da Dio affidato all’uomo. I consacrati sono chiamati oggi a vivere la propria vocazione e missione nel “giardino di Dio” che è la chiesa locale, porzione di popolo di Dio ove mettere a frutto il proprio carisma. Con la consapevolezza che i consacrati per vocazione e missione sono chiamati a essere: evangelicamente efficaci (“forti nella tribolazione” sotto la croce), e non solo efficienti; gratuiti (“ad maiorem Dei gloriam” – s. Ignazio), ma non in cerca di autogratificazioni; pronti a marcire (“il chicco di grano”), ma non ad essere serviti».

Nella logica e nello spirito dell’“incarnazione” – continua mons. Castellani – i consacrati non coltivano una spiritualità senza territorio: donati al territorio, amano il territorio, la gente che in esso vive, facendosi quotidianamente discepoli del Signore che nelle loro persone passa oggi “beneficando e sanando tutti”. La spiritualità del territorio interpella i consacrati e le comunità consacrate in relazioni e stili di vita nuovi.

Per i religiosi «una risposta obbligata può essere il raggiungimento dei lontani, in ambito diocesano e non solo nel cerchio della propria parrocchia. Forse ci si deve disporre a muovere le tende e accettare di andare in frontiera, là dove gli altri non vanno, dove c’è da creare addirittura una nuova parrocchia. Forse bisogna assicurare nella propria parrocchia servizi che altri non riescono ad assicurare (scuole di preghiera, mense, caritas, ecc.). Forse c’è da interrogarsi su cosa fare delle proprie strutture, sia quando le si abita (ad esempio rendendole disponibili per incontri di presbiterio o per alcuni servizi diocesani), sia quando le si abbandona».

Per non rimanere sul piano delle buone intenzioni, mons. Castellani auspica di far diventare normale la prassi della progettazione. «Dato per scontato che nessuno in questa situazione attuale di Chiesa ha il diritto di sentirsi spettatore ed è invece chiamato a un sano protagonismo, io continuo a sognare una Chiesa capace di convenire, che davvero si metta al servizio del territorio, individui i bisogni che più invocano salvezza, sia capace di discernere la situazione e i vari tipi di intervento, e distribuisca le forze tra le varie componenti».

E fare questo non solo in occasione di un sinodo o all’inizio di un anno pastorale, ma come normale stile ecclesiale, fatto di verifica e di reciproca animazione. A questa condizione gli auspici cominceranno a divenire realtà.

 

E. B.