LA VITA CONSACRATA OGGI
PROBLEMI E PROVOCAZIONI
Assistiamo oggi a cambiamenti tanto vasti e radicali, che
sembrano sfuggire alla nostra capacità di osservazione e di interpretazione. La
vita consacrata non è un’isola felice, estranea a questi mutamenti. Essi la
rendono non solo più difficile da capire ma anche più ardua da praticare.
La festa della Presentazione del 2 febbraio, secondo una tradizione che dura ormai da molti anni, oltre che un invito ai consacrati a ravvivare il dono della grazia ricevuta e viverlo con rinnovata fedeltà, costituisce anche un’opportunità per riflettere sull’attuale momento che la vita consacrata sta attraversando, con le sue luci e le sue ombre, i suoi problemi e le sue provocazioni.
Un’analisi del genere è questa che presentiamo di fra Agostino Gardin ofmconv. Si tratta di una relazione che il padre ha tenuto la primavera scorsa al capitolo spirituale dei frati minori conventuali della provincia patavina di sant’Antonio. La riprendiamo un po’ abbreviata e con qualche altro taglio redazionale, soprattutto nella parte bibliografica, per farla rientrare negli spazi a noi consentiti. L’analisi si propone come un aiuto a individuare percorsi per il futuro, per trovare il coraggio, con la forza dello Spirito, di guardare avanti verso orizzonti nuovi.
S
Si è soliti descrivere il presente confrontandolo con il passato: è così che emerge con più evidenza ciò che caratterizza il momento attuale.
A partire dal Vaticano II diversi aspetti o dimensioni della vita consacrata sono via via apparsi come importanti o essenziali, magari prima emergendo e poi, almeno in parte, scomparendo, come i fagioli nella pentola in ebollizione.
Ecco, per esempio, quali dimensioni qualche autore vede succedersi e accavallarsi nel trentennio successivo al Vaticano II: il valore della persona nella sua individualità; il carisma specifico dell’istituto come elemento importante per ridefinire la propria identità; il valore della vita fraterna con una nuova visione della vita comunitaria, la percezione della Chiesa locale come spazio concreto di inserimento nella Chiesa; un rapporto meno diffidente e più positivo con il mondo e con la storia; e ancora, una percezione della missione come dimensione coestensiva all’intera vita consacrata; l’importanza decisiva della formazione (integrale), in particolare della formazione permanente; la cura della vita spirituale come impegno prioritario. In altre aree, in particolare nell’America latina, sono emersi prepotentemente temi come l’opzione per poveri e anche l’ inserimento tra di essi.
Sono questi solo degli accenni, che probabilmente a qualcuno, specie a quelli della mia generazione, richiamano momenti, vicende, passioni vissute con una certa intensità: un periodo di effervescenza e di vivacità, anche se non privo di confusione e di crisi. Non si può negare infatti che le acquisizioni positive di questa fase abbiano portato con sé anche degli effetti destrutturanti, che hanno determinato disorientamenti, sofferenze e talora defezioni.
Ma per quanto delicato e faticoso, non privo di tensioni e travagli, dobbiamo riconoscere che questo periodo ha visto anche la vita consacrata gioire della grazia del concilio. Ed è doveroso riconoscere che noi oggi godiamo dei vari frutti che la pur tormentata stagione postconciliare ha prodotto. Ne richiamo alcuni, che suppongo ben noti, quasi solo a titolo di esempio, indicandoli sotto forma di passaggi: da una lettura prevalentemente giuridica e ascetica a una lettura teologica della vita consacrata; da una spiritualità abbondantemente nutrita di devozioni alla riscoperta della Parola e della liturgia come prime e irrinunciabili fonti della spiritualità; da una vita comunitaria molto incentrata sulla regolare osservanza all’accentuazione della comunione fraterna come anima della comunità religiosa; da una concezione di formazione riduttivamente applicata solo al periodo precedente ai voti definitivi a una formazione intesa come tensione permanente verso la maturità umana e spirituale; da una conoscenza generalmente vaga del carisma a un accostamento a esso assai più nutriente. ecc.
Che cosa dunque può considerarsi problematico oggi nella vita consacrata? Raccolgo in sintesi ciò che alcuni osservatori attenti e qualificati vedono oggi come problema. Riunisco questi elementi attorno ad alcuni nuclei o nodi, ispirandomi a un’ottima sintesi di Ugo Sartorio.1
IL NODO
CULTURALE
Attualmente assistiamo a cambiamenti culturali e sociali talmente vasti e radicali, che sembrano sfuggire alla nostra capacità di osservazione e di interpretazione. Eravamo abituati alla “tradizione”, nel senso della trasmissione (tradere) da una generazione all’altra dello stesso modo di pensare, dello stesso stile di vita, ecc.; ora, nell’arco di un’esistenza, la realtà cambia molto velocemente. E ciò che più colpisce è che non sappiamo se siamo in mezzo al guado, con la prospettiva dunque di un approdo a situazioni più stabili, o se il cambiamento è ormai strutturale, cioè permanente, e anzi continuerà con una accelerazione progressiva. Del resto già la Gaudium et spes, quasi quarant’anni fa, sottolineava l’ampiezza e la rapidità dei mutamenti: «L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo. (...) Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa (non nel senso della vita consacrata, ma del praticare la religione cristiana) (4). II movimento stesso della storia diventa così rapido, da poter difficilmente esser seguito dai singoli uomini» (5).
Se poi ci addentrassimo nell’analisi di tali mutamenti ci renderemmo conto come essi rendono più estranea alla cultura, rispetto al passato, l’opzione della vita consacrata. Richiamo solo alcune caratteristiche (negative, poi ve ne sono anche di positive) della cultura del nostro tempo, almeno nel mondo occidentale, frutto di profondi cambiamenti: l’individualismo radicale, la cultura del narcisismo, il relativismo etico, il vuoto di senso, il crepuscolo del dovere, il pragmatismo; a cui si potrebbe aggiungere la difficoltà di progettare la propria vita assumendo scelte definitive, e la difficoltà, specie per le generazioni più giovani, di definire la propria identità: si parla di identità-patchwork (il termine inglese indica una coperta fatta di riquadri di tessuto cuciti insieme): un’identità cioè che non si ispira a valori alti e solidi o a grandi modelli, ma che è frutto di piccole frammentarie esperienze, tutte relative e sostituibili, e dunque un’identità fragile, incerta, di corto respiro.
All’interno di questi mutamenti culturali si dà anche una serie di cambiamenti nell’ambito più strettamente religioso, che siamo soliti sintetizzare con il termine, ormai insufficiente a esprimerli, di secolarizzazione. Questa è solo apparentemente superata da nuove forme di religiosità e da un certo ritorno al sacro, che si presentano ambigui e non raramente lontani da ciò che è il cristianesimo. II recente documento della CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia segnala, tra gli elementi della nostra cultura problematici rispetto alla fede, il crescente analfabetismo religioso delle giovani generazioni, una vera e propria eclissi del senso morale, una scarsa trasmissione della memoria storica, e poi forme di relativismo e indifferenza diffusa per le domande radicali, senso del provvisorio, una scissione interiore tra razionalità, dimensione affettivo-emotiva e vita spirituale.
È ovvio che la vita consacrata non può considerarsi un’isola felice, lontana o estranea rispetto a questi mutamenti. Essi la rendono non solo più difficilmente comprensibile a chi la guarda dall’esterno, ma anche più ardua da praticare per chi la assume come scelta totalizzante della propria esistenza. La cultura del provvisorio e dell’effimero, per esempio, non simpatizza per scelte che abbiano il carattere della totalità e della radicalità (impegnarsi per con tutta la vita, assumere i contenuti della scelta evangelica fino alle loro esigenze estreme).
Non è forse una conferma di ciò la resistenza che – così sembra – un sempre maggior numero di genitori pongono a figli che manifestano il desiderio di entrare nella vita consacrata?
Si dirà: ma tutto questo riguarda più che altro le nuove generazioni o le nuove vocazioni. È molto probabile. Tuttavia, se anche fossimo impermeabili all’influsso della cultura (ma lo siamo davvero? ed è possibile esserlo? e sarebbe totalmente positivo l’esserlo?), dobbiamo riconoscere, quanto meno, che avvertire attorno alla propria scelta di vita non più il consenso, la stima e addirittura la venerazione, come avveniva quasi abitualmente nel passato, soprattutto nelle nostre regioni, ma la crescente incomprensione, o anche solo l’indifferenza, dà luogo a un senso di solitudine che richiede una notevole solidità interiore.
IL NODO
DELL’APOSTOLATO
Un secondo nucleo-nodo è quello riguardante la dimensione apostolica della vita consacrata. Ne accenno brevemente, segnalando solo due tipi di problematiche che molti istituti religiosi sono chiamati ad affrontare, particolarmente quelli nati con finalità di tipo apostolico o diaconale.
Una prima problematica concerne l’inserimento dei religiosi nella pastorale della chiesa locale. L’insistenza sulla chiesa locale o particolare, come spazio concreto in cui pulsa la chiesa universale come religiosi ci ha trovati impreparati. Bisogna anche riconoscere che il clero diocesano, i fedeli, e talora anche i vescovi, non sono consapevoli di che cosa veramente è la vita consacrata nella Chiesa (ma talora c’è da chiedersi se lo siano anche tanti religiosi!). Avviene così, per esempio, che dove vi è ancora una presenza consistente del clero diocesano (come nel caso di Lombardia, Veneto e Trentino) siamo talora avvertiti come un disturbo, mentre dove il clero diocesano è scarso siamo percepiti come utile clero (!) di rincalzo; e così il nostro essere religiosi risulta irrilevante in ambedue i casi.
Tuttavia a me pare che sarebbe ingiusto attribuire la causa di tale percezione distorta o riduttiva all’ignoranza vincibile nel clero di ciò che è la vita consacrata. Non dovremmo forse chiederci se talora non sia troppo opaca la nostra carismaticità e tiepida la nostra partecipazione alla vita della diocesi? Non dipende forse da noi segnalarci nella Chiesa locale, per esempio, non solo come incolori erogatori di sacramenti, ma anche come significativi riferimenti per itinerari personali di fede, o seducenti testimoni del primato della vita spirituale? Senza dimenticare che la preoccupazione non deve essere quella di essere tenuti in considerazione dalla chiesa particolare, ma di servirla con la fedeltà alla nostra scelta di vita evangelica.
Una seconda problematica riguarda la crisi delle opere. Molte opere dei religiosi/e, spesso prestigiose e dotate di grandi strutture, sono ormai sentite, per varie ragioni, più come un peso che come un valido mezzo di apostolato. E se nel passato rappresentavano dei luoghi di attrazione vocazionale, oggi, magari anche a causa dell’immagine non povera che danno dell’istituto, non lo sono più. Esse, inoltre, vengono apprezzate esclusivamente per i servizi che offrono e non perché sono trasparenza di un carisma. Ma ciò che più preoccupa è che i problemi legati alla gestione dell’opera possono ripercuotersi negativamente anche sulla comunità che conduce l’opera, e con essa in qualche modo si identifica e su di essa riversa tutte o quasi le sue energie e risorse: umane, spirituali e carismatiche, oltre che economiche.
Mi pare che questo preciso problema sia notevolmente avvertito in alcuni istituti. Non può esserci estraneo il fatto di una eccessiva identificazione della comunità, o anche dei singolo, con l’opera, cioè con l’attività ministeriale, di varia natura, svolta. Può avvenire così che l’insieme delle attività, il fare, l’organizzare diventi il tutto effettivo di una comunità, la sua – di fatto – unica ragione di vita; le altre dimensioni proprie della nostra vita (il dare tempo a Dio – vacare Deo – la frequentazione della Parola, l’edificazione di una fraternità evangelica, l’assimilazione personale dei contenuti di fede da annunciare) sono piuttosto di contorno, collaterali: non determinano né alimentano l’identità.
IL NODO
DELL’IDENTITÀ
Questa importante parola, l’identità – ciò che noi siamo – ci fa giungere al cuore delle problematiche che, a parere di molti, producono la crisi più seria della vita consacrata oggi.
La crisi d’identità del consacrato appare il risultato di vari fattori. A quelli già richiamati (i rapidi mutamenti culturali, il non sempre facile inserimento nella chiesa locale, la problematicità delle, o di alcune, opere) si deve aggiungere la fatica di cogliere la nostra collocazione teologica nella Chiesa (e nell’ecclesiologia). II Vaticano II ci ha fatti scendere, giustamente, dal presuntuoso piedistallo dello status perfectionis: tutti sono chiamati alla perfetta carità, o alla santità, in forza del battesimo; ma nello stesso tempo ci ha creato qualche difficoltà nel capire con chiarezza chi siamo e in che cosa consistono i magis, i “di più”, che pure continuano a essere usati per indicare la vita consacrata. La Lumen gentium 44, infatti, usa espressioni del tipo: la vita religiosa «rende più liberi...», «meglio manifesta...», «meglio testimonia...», «più fedelmente imita...»; in Vita consecrata si parla della vita consacrata come un «modo più radicale di vivere il Vangelo», della «obiettiva eccellenza della vita consacrata» (18), di «una conformazione più compiutamente espressa e realizzata» a Cristo, di «un’appartenenza più stretta al Signore» (30), ecc.
II battesimo, più importante, ci accomuna; i carismi, meno importanti, ci distinguono. È presto detto, ma tradurre tutto ciò nel vissuto personale ed ecclesiale non è semplice, soprattutto quando si tratta di motivare una definitiva scelta di vita.
Non dobbiamo poi dimenticare che una certa dedizione alla missione che ci poneva in prima linea, e che sembrava caratterizzarci (i religiosi come uomini di frontiera), vede ora anche altri protagonisti ecclesiali.
Nel suo discorso ai rappresentanti di movimenti e nuove comunità ecclesiali, riuniti in piazza San Pietro il 30 maggio 1998, il papa affermava: «Oggi la Chiesa gioisce nel constatare il rinnovato avverarsi delle parole del profeta Gioele: “lo effonderò il mio Spirito sopra ogni persona”. Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa “effusione” dello Spirito. Ogni movimento differisce dall’altro, ma tutti sono uniti nella stessa comunione e per la stessa missione. Alcuni carismi suscitati dallo Spirito irrompono come vento impetuoso, che afferra e trascina le persone verso nuovi cammini di impegno missionario al servizio del Vangelo, proclamando senza pausa le verità della fede, accogliendo come dono il flusso vivo della Tradizione e suscitando in ciascuno l’ardente desiderio dì santità».
Tutti questi fattori portano il consacrato a porsi domande profonde, che riguardano non solo il come essere, ma il chi siamo, e il perché esiste la vita consacrata. Si tratta di domande non solo teoriche, utili ad alimentare dibattiti teologici, ma che possono creare incertezze e disorientamenti interiori nella persona del consacrato. E forse anche spiegano, assieme ad altre cause, il perché della diminuzione delle vocazioni.
Nasce dunque l’esigenza di ridirci come consacrati, di ricomprenderci, di ritrovare l’essenziale che ci caratterizza e motiva il nostro esserci nella Chiesa e nel mondo.
RINNOVAMENTO
E NUOVA PARTENZA
Le domande sull’identità potrebbero rivelarsi salutari, e trasformare la crisi d’identità in crisi di crescita. Come ha scritto il ministro provinciale, «gli aspetti negativi possono essere – per chi vive di fede – occasione propizia per una nuova partenza, semi di speranza e di ritrovato coraggio, per non continuare a piangere all’infinito “lungo i fiumi di Babilonia”».2 A maggior ragione se, nell’affrontare i problemi, valorizziamo tutto il bagaglio di dottrina e di stimoli ricevuti dal Vaticano II in poi per rinnovarci. In effetti i testi venuti dal magistero degli ultimi trent’anni – dalla Evangelica testificatio di Paolo VI (1971) all’istruzione Ripartire da Cristo (2002) – rappresentano una miniera di indicazioni preziose. Se aggiungiamo tutto il lavoro compiuto all’interno degli istituti, soprattutto quelli meglio attrezzati a curare la formazione permanente, potremmo dire: queste nuove situazioni difficili non ci devono intimorire; siamo in grado di affrontarle ben equipaggiati.
In realtà, non pare che in questo momento la crisi della vita consacrata si manifesti come una crisi di crescita, foriera di stagioni primaverili, gestazione di qualcosa di nuovo che sta per nascere. Infatti, per indicare sinteticamente la situazione attuale della vita consacrata, spesso non si esita a usare espressioni del tipo “situazione di stallo”, “stanchezza da logoramento”; oppure si afferma che “il passato non c’è più e il nuovo ancora non nasce”.
Più di qualcuno sostiene che ci troviamo di fronte a un rinnovamento incompiuto della vita consacrata. Non si dimentichi che il rinnovamento – nel duplice significato di ritorno alla fonti e di adattamento alle mutate condizioni del tempo – è stata la parola chiave, riassuntiva dell’impegno chiesto alla vita religiosa (in effetti il Perfectae caritatis è il Decretum de accomodata renovatione vitae religiosae). Ma questo termine sembra piuttosto dimenticato, e sembra cessato l’incanto che ha suscitato. In un importante congresso organizzato dall’Unione superiori generali prima del sinodo dei vescovi sulla vita consacrata, nel 1993, autorevoli esperti hanno affermato: «Sembra che il rinnovamento iniziato con il concilio Vaticano II continui a essere un’alba eccessivamente lunga; non riesce mai a spuntare il giorno. Si intuiscono molte cose; ma le tenebre impediscono ancora di vedere il loro profilo»
Altri dicono: «Vi sono notevoli presupposti per una vita religiosa nuova, ma non sono stati condotti a compimento». Personalmente trovo particolarmente puntuale l’analisi che L. Guccini va da qualche anno proponendo al riguardo. Egli afferma che «le molte e importanti acquisizioni maturate in questi anni sono state assimilate – quando questo è avvenuto – solo dai singoli, o da alcuni singoli; mentre non le ha invece assunte la comunità, che è rimasta impostata secondo lo schema di sempre, ma senza più la carica di convinzione che c’era precedentemente. (...) Per certi aspetti abbiamo demolito senza riedificare. Abbiamo affermato cose nuove e importanti, ma senza ricavarne le dovute conseguenze».3
L’analisi può apparire severa; in realtà a me pare realista, anche senza rinnegare quanto ho detto sui frutti positivi della stagione conciliare. È davvero difficile, in molti casi, non avvertire la sensazione che solo alcuni singoli hanno accolto con attenzione e assunto con convinzione una nuova concezione di vita consacrata nella Chiesa. Questi sperimentano una certa solitudine nel loro desiderio di una vita consacrata più evangelica, più espressiva della sua dimensione carismatica, più testimone, più incentrata sul primato di Dio. Trovano difficoltà, nella loro comunità, o nella provincia, ad aprire dialoghi sul come progettare e verificare lo stile di vita, o a proporre anche semplici comunicazioni o condivisioni su come deve essere la vita consacrata oggi. Non trovano interlocutori, o avvertono che si tratta di interrogativi estranei alle preoccupazioni reali dei loro confratelli; alcuni dei quali, oltretutto, sono assai lontani dal conoscere, non dico il dibattito teologico, ma anche solo i rudimenti dell’immagine nuova della vita consacrata offertaci dai documenti della Chiesa.
Tra l’altro – come osserva ancora padre Guccini – «non possiamo continuare a dire “come dovrebbe essere” la vita religiosa senza metterlo in pratica, perché questo ci svuota, ci porta alla crisi di identità, alla convinzione che non ha più senso quello che stiamo facendo».
Si potrebbe dire, dunque, che disponiamo di idee, di modelli ideali, di contenuti interessanti; potremmo insomma considerarci pronti per un cammino nuovo della vita consacrata; ma di fatto stentiamo a partire, i progetti rimangono teorici, i modelli ideali non diventano modelli reali.
ALLA RADICE
DELLA VITA CONSACRATA
Nonostante tutto ciò, non credo che siamo in un vicolo cieco, che l’impasse sia insuperabile. Non dobbiamo dimenticare, anzitutto, che ci è difficile riconoscere che cosa avviene nell’intimo e imperscrutabile spazio della coscienza dei singoli religiosi, là dove si determina l’opzione profonda e personalissima per Cristo. Ma ci sono i segni di una vitalità che non è spenta, anche se forse in questo momento non sono numerosi – sembrano piccolo gregge – coloro che si mostrano desiderosi di impegnarsi nella ricerca di vie più espressive di ciò che la vita consacrata dovrebbe essere nella Chiesa, consapevoli che la strada del rinnovamento è più lunga e più in salita di quanto si pensava qualche tempo fa.
A me pare che uno di questi segni sia anche la ricerca di nuove formule. La più recente è la formula del rifondare, termine che da qualche tempo viene applicato alla vita consacrata. Certo, il coniare nuove formule può anche indicare che continuiamo a girare intorno alle teorie e che veniamo sedotti dalla vuota suggestione delle parole: «II miraggio e la magia delle parole – ha scritto F. Martínez Díez – ci tendono agguati da ogni parte e spingono a considerare ciò che pensiamo o desideriamo come già realizzato».4 Ma abbiamo pur bisogno di esprimere con le parole i desideri e i progetti.
Rifondare e rifondazione sono parole non prive di ambiguità (soprattutto nel mondo nordamericano, dove questi termini sono nati, e dove sembrano esprimere una concezione, a mio avviso, disgregante della vita consacrata) e non da tutti accettate; altri preferiscono usare la più sicura formula fedeltà creativa, senza dubbio felice, presente in Vita consecrata 37. In ogni caso, c’è chi sostiene che «l’idea di rifondazione ha il merito di porre il problema del rinnovamento in modo critico, radicale e realista. È una provocazione salutare... (...) mette in movimento, sprona, interpella, confronta, obbliga a decidere e ad agire».5
Ma, al di là del dibattito sulle parole, l’importante è che non venga meno il desiderio di aprire strade nuove per il cammino della vita consacrata, prendendo sul serio l’affermazione del papa in Vita consecrata 13: «Occorre impegnarsi con nuovo slancio, perché la Chiesa ha bisogno dell’apporto spirituale e apostolico di una vita consacrata rinnovata e rinvigorita».
QUALI STRADE
IMBOCCARE?
Ma quali strade imboccare per essere fedeli a ciò che la vita consacrata è chiamata a essere nella Chiesa e nel mondo?
a) Anzitutto una specie di condizione previa, senza la quale si rischia di rimanere paralizzati, di non partire proprio. È accettare che il mondo sia diverso rispetto a ieri, sia più complesso, meno uniforme, più difficile da capire. I problemi non si risolvono fuggendo da essi, né imprecando contro il fatto che ci sono. Il ripetere mala tempora currunt ci rende estranei a quel mondo al quale siamo mandati (la consacrazione implica sempre la missione). Prendere le distanze da esso in nome del Vangelo non significa disprezzarlo o condannarlo in blocco. Si deve sì rifiutare la “mondanità” come logica antievangelica, ma rimanendo nel mondo. Vale sempre il metodo indicato da Gaudium et spes 46 nell’affrontare i problemi di oggi: alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, cioè l’esperienza degli uomini, anche non credenti, con cui è necessario dialogare. Giustamente osserva Sartorio: «Il luogo della vita consacrata coincide con il luogo del Vangelo, cioè il mondo amato da Dio. La passione per Dio non permette di disertare i cammini, anche problematici e contorti, degli uomini del nostro tempo».
b) Ma veniamo alla proposta che costituisce, a mio avviso, la grande richiesta fatta oggi a una vita consacrata che, per certi aspetti, potrebbe sembrare al capolinea. Padre Guccini la indica come “riqualificazione spirituale”.
Certo, il termine spiritualità e l’aggettivo spirituale hanno sempre, o hanno ancora, bisogno di precisazioni, giacché lo spiritualismo è sempre in agguato. In ogni caso, si deve subito ricordare che il più autorevole testo magisteriale recente sulla vita consacrata, l’esortazione post-sinodale Vita consecrata, insiste fortemente sul primato della vita spirituale. E l’intera terza parte dell’istruzione Ripartire da Cristo porta il titolo (20-32) La vita spirituale al primo posto. Vale la pena di citare alcune righe dell’importante n. 93 di Vita consecrata, intitolato Un deciso impegno di vita spirituale: «Una delle preoccupazioni più volte manifestate nel sinodo è stata quella di una vita consacrata che si alimenti alle sorgenti di una spiritualità solida e profonda. Si tratta, in effetti, di un’esigenza prioritaria, inscritta nell’essenza stessa della vita consacrata... (...). La vita spirituale dev’essere dunque al primo posto nel programma delle famiglie di vita consacrata, in modo che ogni istituto e ogni comunità si presentino come scuole di vera spiritualità evangelica. Da questa opzione prioritaria, sviluppata nell’impegno personale e comunitario, dipendono la fecondità apostolica, la generosità nell’amore per i poveri, la stessa attrattiva vocazionale sulle nuove generazioni. È proprio la qualità spirituale della vita consacrata che può scuotere le persone del nostro tempo, anch’esse assetate di valori assoluti, trasformandosi così in affascinante testimonianza». Lo stesso numero definisce la vita spirituale come «vita in Cristo, vita secondo lo Spirito», che «si configura come un itinerario di crescente fedeltà, in cui la persona consacrata è guidata dallo Spirito e da lui configurata a Cristo, in piena comunione di amore e di servizio nella Chiesa».
Il medesimo concetto – il primato della vita spirituale e la sua riqualificazione – viene espresso anche, con l’espressione “ritorno al Vangelo”, o, come fa Martinez Diez, con le parole “fede radicale”. La vita consacrata ha bisogno di trovare la sua radice evangelica, la sua ragion d’essere in una fede totale nel Signore, del quale si mette alla sequela. In questo senso qualcuno parla della necessità di ritrovare l’anima monastica della vita consacrata. In effetti la vita religiosa è nata, nell’esperienza del primo monachesimo, come «contestazione dell’affievolimento della fede e dell’omologazione dell’esistenza ai non cristiani, senza più la testimonianza del martirio, memoria dell’unico necessario». Ma non diversa fu la scelta di Francesco: la sua povertà, per esempio, non è pauperismo, ma conseguenza evidente di quella volontà di estrema marginalità (minorità) nella società e nella Chiesa del suo tempo, che è dichiarazione con i fatti che l’unico necessario è Cristo.
La vita consacrata, in questo suo travagliato muoversi tra speranze e smarrimenti, ha bisogno di ritrovare l’essenziale, e l’essenziale è dato dalla confessione assolutamente convinta del primato di Dio e dal perseguire senza tregua una profonda relazione con Cristo e la conformità a lui dell’esistenza; dalla tenace volontà di essere, prima di tutto e soprattutto, dei “veri cristiani”, senza dare per scontato che lo siamo. Tutto il resto viene dopo e trova qui il suo fondamento.
Tutto ciò mi sembra ben espresso in questa bella pagina di E. Bianchi: «La vita religiosa, nell’intenzione dei fondatori, è sempre vita segnata da una differenza che viene dall’evangelo, è una vita umana, umanissima, un’opera d’arte antropologica, ma altra, differente, tesa a dimostrare che l’impossibile è possibile, che l’utopico, il senza luogo (utopos) trova per la forza dello Spirito santo un luogo di incarnazione in una comunità, per quanto è possibile a uomini e a donne che fanno voto non già di non mancare all’evangelo, ma di non cessare mai di conformarsi a Cristo nella sua sequela. II religioso, grazie alla sua assiduità con il Signore, al suo essere non distratto (amérimnos), non diviso (aperíspastos), dovrebbe rappresentare una denuncia di ogni sufficienza delle realtà presenti, una proclamazione di speranza, una narrazione dell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, dovrebbe essere una vita tesa alla parusia, libera da paure e perciò senza compromessi, salda nell’adesione “come se vedesse la realtà invisibile” (Eb 11,27)». E ancora: «I religiosi devono essere testimoni di un Dio al quale sappiano parlare e non di un Dio del quale soltanto parlino, un Dio che essi conoscano e frequentino assiduamente, senza distrazioni, come se vedessero l’invisibile».6
Questa insistenza sull’espressione della lettera agli Ebrei “come se vedessero l’invisibile” ci interpella seriamente sulla nostra fede. La prima e decisiva preoccupazione del religioso è quella di percorrere un cammino di fede che non è mai compiuto, che ha sempre tratti di strada davanti a sé.
Forse qualcuno dirà: ma è tutto qui il nuovo, il segreto del rinnovamento? II fatto è che, dopo esserci detti mille volte, senza risultati clamorosi, che la fede o il primato di Dio o della vita spirituale sono importanti, oggi ci accorgiamo che questa è diventata una questione di vita o di morte per la vita consacrata. Ha assunto un’urgenza quasi drammatica. O diventa una priorità reale, o l’insignificanza della vita consacrata condurrà progressivamente verso il suo eclissarsi. Se ci mettiamo in ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alla vita consacrata, egli ci chiede una nuova presa di coscienza che essa è prima di tutto e soprattutto una radicale opzione di fede. Darlo per scontato significa “decaffeinare” la vita consacrata. Ridurre questo appello a una blanda e indolore pia esortazione, tra le tante, porta a un’estinzione, se non delle strutture della vita consacrata, del suo significato vero.
E a proposito di strutture è opportuna una precisazione. Siamo abituati a pensare al rinnovamento della vita consacrata in termini di interventi sulle strutture in cui essa si esprime (per esempio, i tempi e le forme della preghiera, lo stile della vita fraterna, la quantità e il tipo di opere da portare avanti, la gestione dei beni economici, le varie attività di animazione della provincia, ecc.). È fuori dubbio che il rinnovamento deve arrivare a cambiare le strutture: l’intuizione – per ricordare una diade classica – ha bisogno dell’istituzione; i valori allo stato puro non esistono, ma vanno calati in scelte concrete, definite, programmate, attuate e verificate. Ma ci sono momenti in cui ciò che va cambiato è prima dì tutto lo spirito, la radice, la mentalità di fondo (rifondazione); insomma ciò che “sta sotto” o anche “sta oltre” le strutture.
Il rinnovamento oggi necessario non è dato da un cambiamento di strutture condito da una dose un po’ più consistente di vaga spiritualità. La proposta che ho richiamato chiede il cambiamento delle persone, prima che delle strutture, perché diventino capaci di un’opzione radicale di fede, di una solida e profonda vita spirituale. Da qui scaturiranno, quasi per esigenza insopprimibile, i conseguenti interventi sulle strutture: nuovi stili, nuove scelte, nuove attenzioni; e quindi nuovi progetti, priorità, strategie. “Vino nuovo in otri nuovi”, dice Gesù (Mt 9,17). Ma prima di dotarci di otri nuovi, il vino nuovo ce l’abbiamo davvero? Forse l’unica struttura su cui è opportuno intervenire con urgenza è la formazione permanente. Ma più che una struttura essa, intesa nel suo vero senso, è – come indica il titolo di un bel libro di A. Cencini – il respiro stesso della vita.7
c) Partendo dalla presa di coscienza della necessaria riqualificazione spirituale, provengono altri urgenti appelli alla vita consacrata. Ne richiamo tre.
– II primo è l’appello a una comunità in cui, se proprio non si giunge ancora a sperimentare la vera fraternità evangelica, si avverte che i fratelli sono convinti che a essa si deve tendere. Una comunità, perciò (sottolineo questa connessione), in cui si condivide la ricerca del primato di Dio. Se la comunità non offre – come si dice bene nel documento sul ridimensionamento preparato dal governo provinciale dello scorso quadriennio – «un habitat conventuale dove i frati possano vivere la loro consacrazione»8 cioè la loro radicale e condivisa opzione di fede, fallisce la prima e basilare finalità che giustifica la sua esistenza.
– Un secondo appello è quello a nutrire una grande passione per il Regno da annunciare, soprattutto ai poveri (di beni materiali e spirituali). La consapevolezza della missione è la controprova che la vita spirituale non è né intimismo né fuga dalla storia. Pare di scorgere anche in questo ambito alcuni segni di stanchezza o addirittura di indolenza, che fanno pensare a una relazione debole con Colui che ci invia.
– Un terzo appello è quello a una vita consacrata umile. Dovrebbe essere tramontata la stagione dei trionfalismi, che ormai suscitano il sorriso, delle “glorie dell’ordine”. Troppe volte, a mio avviso, si sente ripetere con un certo fatuo compiacimento l’espressione rivolta dal papa ai religiosi in Vita consecrata 110: «Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire». Dobbiamo essere grati al papa di queste parole, ma non dobbiamo pavoneggiarci troppo. San Pacomio diceva dei monaci – ricorda E. Bianchi –- che erano dei «poveri laici senza importanza ». Ma non diversamente era per Francesco.
A questo punto si potrebbe anche tentare di dire qualcosa sulla traduzione nel vissuto dei singoli, e soprattutto delle comunità, di queste indicazioni “alte”: dunque possibili strategie, progetti, linee operative concrete (le strutture cui mi riferivo sopra). Le idee e i suggerimenti oggi non mancano, gli strumenti metodologici neppure, soprattutto quello strumento particolarmente importante che è il progetto, sia comunitario che personale. Ma ciò allargherebbe troppo il tema.
Mi permetto di concludere con due semplici considerazioni.
Se è vero quanto è stato esposto, la riqualificazione spirituale dovrebbe diventare impegno prioritario sia dei singoli che delle comunità. Ma bisogna riconoscere che non tutti i singoli e non tutte le comunità sono in grado, per mille ragioni, di compiere il medesimo cammino. Pur nella ricerca di percorsi comuni, e soprattutto comunitari, si dovranno probabilmente rispettare le diverse condizioni, risorse, esigenze e desideri, senza, nello stesso tempo, creare spaccature o “categorie” diverse. È difficile, infatti, pretendere che si proceda sempre a ranghi compatti; si deve accettare che vi siano velocità diverse. Viene in mente l’elasticità di Francesco nella Regola non bollata IX (FF 32): «E colui che mangia non disprezzi colui che non mangia e colui che non mangia non giudichi colui che mangia (Rm 14,3)». Questo significa anche accettare che vi sia chi sperimenta, chi tenta cammini nuovi, anche sbagliando, chi elabora progetti più impegnativi (possibilmente esportabili e capaci di diffondersi per contagio), senza né darsi né ricevere etichette di “comunità modello” o “comunità pilota”, o anche di “comunità... stravaganti” (nel senso che amano vagare extra le linee collaudate).
E infine credo che dobbiamo tutti amare di più la vita consacrata. Talora si ha l’impressione che per qualcuno essa sia una sorta di supporto per il proprio presbiterato e che la consacrazione religiosa non basti a riempire la vita senza il coronamento dei sacerdozio. In realtà, come ci mostrano confratelli che vivono con generosità la loro vocazione, essa può riempire la vita, eccome!
Lo Spirito, per mezzo del quale “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5) ci faccia riconoscere con gioia la bellezza della totale donazione di noi stessi a Cristo, nel segno di una sovrabbondanza di gratuità e d’amore (cf. Vita consecrata 105).
A.G.
1 Dire la vita consacrata oggi, Ancora, Milano 2001, 16-25.54.
2 Lettera del Ministro provinciale OFMconv per la Quaresima francescana 2002, 6.
3 Una comunità per domani (a cura ) EDB, Bologna 2000, 252.
4 Rifondare la vita religiosa. Vita carismatica e missione profetica, Paoline, Milano 2001, 11.
5 Ivi, 315.
6 Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini, Qiqajon, Comunità di Bose, 2002, 271.
7 Il respiro della vita.La grazia della formazione permanente, san Paolo, Cinisello Balsamo, 2002.
8 Per disegnare il futuro della provincia. Documento del Definitorio 1997-2001, 8.