LA CONGREGAZIONE DEI PROCURATORI DEI GESUITI

LO “STATO” DELLA COMPAGNIA

 

Una lettura in chiaroscuro dell’attuale stato della Compagnia di Gesù nei molteplici campi apostolici, di animazione vocazionale e della formazione dei gesuiti. Le indicazioni ricavate dai rapporti delle province di ogni parte del mondo.

 

Un tono franco e realistico, fatto di luci e di ombre, di slanci apostolici e di resistenze; è questo il realistico riconoscimento iniziale con cui, p. Kolvenbach, ha aperto nel settembre scorso, il discorso sullo “stato della Compagnia”, di fronte alla congregazione dei procuratori dei gesuiti.

«Bisogna, ha detto, arrendersi all’evidenza: non c’è soltanto il buon seme che è stato seminato; c’è anche della zizzania che può, in certi luoghi, essere così vi­gorosa che abbiamo bisogno di tutta la nostra fede nel Padrone del campo per credere che, nonostante questa massa di zizzania, il grano germoglierà e produrrà frutto». Di fronte ai diversi rapporti in “chiaroscuro”, il superiore generale ha dato atto ai suoi interlocutori d’aver saputo resistere a due forti tentazioni: quella, anzitutto, di «rinchiudersi nelle ombre, che certo non mancano, senza escludere affatto che il Signore della sto­ria sappia scrivere un futuro sulle nostre linee curve», e poi quella di «sorvolare sui nostri difetti e i nostri errori e fermarsi soltanto sulle nostre pagine glo­riose, che pure non mancano, ma che non dicono mai tutta la nostra realtà».

Anche se dai vari rapporti sembrerebbe difficile giungere alla conclusione che la Compagnia sia «profondamente malata, anzi morente», è pur sempre vero, ha ricordato p. Kolvenbach, il detto di un saggio indiano: «un uomo in buona salute è un malato che non sa di esserlo».

Anche i gesuiti, chiamati alla proclamazione integrale del Vangelo all’interno del mondo e nel cuore delle masse, sono esposti al­le malattie del nostro tempo: lo spiritualismo disincarnato, l’attivismo puramente secolarizzato, gli eccessi del consumismo e di abusi sessuali, le diverse forme di ingiustizia sociale e di discriminazio­ne, una umanità sempre più autonoma e indipendente da ogni rapporto soprannaturale; tutte queste malattie «non sono da curare soltanto fuori, ma anche nei nostri cuori, all’interno della Compagnia».

 

LA QUALITÀ

PRIMA DELLA QUANTITÀ

 

In vari rapporti si parla di un preoccupante arretramento dei gesuiti nell’impegno di solidarietà con i poveri; per quanto ci si senta tutti impegnati nell’opzione preferenziale per i poveri, non si può non rilevare però che «l’espressione concreta di questo legame naturale con quelli e quelle che sono condannati a vivere nella mi­seria, nell’ingiustizia e nell’insicurezza, dovrebbe essere più generosa e più esplicita». Purtroppo «l’individualismo innato e la tendenza naturale a rinchiu­dersi in un lavoro gradevole indeboliscono spesso la disponibilità apo­stolica».

Nello stesso tempo, p. Kovenbach sente il desiderio di esprimere una profonda gratitudine ai suoi religiosi per gli oltre 900 novizi, e per il coraggio di cercare, nella promozione delle vocazioni, «la qualità apostolica piuttosto che il numero dei candidati». Una allarmante preoccupazione è quella derivante dalla mancanza di fratelli laici: «più che il loro lavoro, ci manca la te­stimonianza della gratuità apostolica della loro vocazione». Ma non sono solo i fratelli laici a diminuire; più in generale, l’età dei can­didati continua a elevarsi, e oggi «scegliere la Compagnia è visibilmente un problema». Non si può sottrarsi all’evidenza; proprio per questo si impone una vigorosa promozione delle voca­zioni, pienamente consapevoli del rischio «di invitare i candida­ti a venire a vedere, per scoprire che in fondo non c’è niente da vedere che li chiami alla vita e al lavoro della Compagnia».

Passando poi dall’animazione vocazionale alla formazione, p. Kolvenbach osserva che essa è generalmente ben seguita; tuttavia «qua e là gli studi esigenti di filosofia e di teologia sono conce­piti troppo strettamente come una condizione indispensabile per l’or­dinazione sacerdotale, e non abbastanza come una formazione necessa­ria per ogni ministero, per poter dialogare, a partire dalla nostra fede, con il mondo moderno».

E a proposito di governo, qual è lo stato di salute della Compagnia? Dai rapporti emerge con chiarezza un dato di fatto: l’estrema diversità di modalità del suo concreto esercizio; accanto a superiori che sanno dialogare, decidere e pianificare, ce ne sono altri incapaci di ascoltare, di fare delle scelte, di affrontare e risolvere i problemi. Diversi gesuiti si interrogano sull’autorità dei loro moderatori e sull’efficacia delle diverse conferenze dei provinciali. In un periodo in cui molti istituti religiosi, di fronte al calo inarrestabile dei propri membri, vanno ristrutturando, vale a dire riducendo e unificando, dove possibile, le diverse realtà provinciali e regionali, anche i gesuiti si stanno orientando verso un rafforzamento inter e sovraprovinciale delle loro unità; non manca, infatti, una presa in carico di ciò che le singole province non possono più sostenere da sole, come nel campo della formazione e dell’apertura di nuove missioni: «per ora, sono rare le province o le regioni che si sentono senza futuro. Più numerose sono quelle che si aprono lentamente ma decisamente verso l’unione con altre province per una maggiore efficacia apostolica».

 

LA “MISSIONE”

DEI GESUITI OGGI

 

Non poteva mancare in questi rapporti l’interrogativo sul tema della missione dei gesuiti nella Chiesa e nel mondo di oggi. Anche se il missionario, qua o là, può essere ancora sospettato di conquista e di colonialismo, in un mondo che è ormai diventato tutto terra di missione, questa ha ritrovato finalmente il suo significato originario di invio. La missione, infatti, non è prima di tutto un territorio da evangelizza­re o un’opera da compiere; anche per sant’Ignazio la priorità non era dell’azione o del lavoro, ma di tutto ciò che fa crescere «il senso della volontà di Colui che ci invia in missione»; con infinita gratitudine non si può non prendere atto del fatto che si moltiplicano le riunioni di ogni genere, per discernere e scru­tare quello che il Signore si attende da noi, per leggere i segni dei tem­pi e ascoltare gli appelli della Chiesa per la salvezza del mondo, con un’attenzione assidua alle provocazioni e alle sfide del nostro tempo.

Se in alcuni rapporti si parla di crisi nella vita di preghiera, questo potrebbe dipendere dal fatto che oggi è facile perdere di vista le “tracce di Dio”, oppure abbandonarsi a un attivismo così esagerato da considerare la preghiera “tempo perso”. Oggi sant’Ignazio, ha osservato Kolvenbach, «non ci direbbe: pregate di più, lavorate di meno! Ci direbbe piuttosto che nessu­no nella Compagnia, chiamato ad essere “in missione”, è dispensato dal riprendere continuamente la via della sorgente, che è in tutto e per tut­ti Colui che invia in missione».

La sintesi della “missione” per il fondatore di gesuiti stava tutta nell’espressione “ayudar a las almas”, aiutare le persone nel loro incontro personale con Cristo, loro creatore e salvatore. Da qui allora l’interrogativo che i gesuiti oggi non possono non porsi: «in tutto quello che facciamo – pregare, vivere e lavorare – siamo un aiuto per quelli e per quelle che, nella loro sete di Dio, il Signore ha messo sulla nostra strada?». È risaputo che sant’Igna­zio non ha mai voluto legare questo ayudar a un solo tipo di impegno apostolico, per cui, anche og­gi, non c’è ancora un’opera o un ministero che sia di esclusiva competenza dei gesuiti. «È il nostro modo di procedere che sarà, molto più del lavoro stesso, l’espressione della nostra missione. Padre Pedro Arrupe lo sottolineava quando domandava nella sua preghiera che il Signore ci insegni il suo modo di agire, perché diventi oggi il nostro modo di agire. Quanto più ci lasciamo configurare a Cristo nel nostro modo di fare, tanto più lo rendiamo pre­sente e operante per la salvezza del mondo, tanto più il nostro modo di fare sarà una memoria viva del modo di esistenza e di azione del Signore. Tocca a noi interessarci di più del «come» della nostra attività sovrabbondante, perché essa sia missione».

Il senso missionario della vita di un gesuita, osserva p. Kolvenbach, si verifica anche in vari altri modi come, ad esempio, un costante e trasparente rendiconto di coscienza (soprattutto nel momento di ricevere la propria missione, di vederla confermata o cambiata), la testimonianza di una vita autenticamente comunitaria in un mondo di divisioni, di conflitto, di vio­lenza, di nazionalismo, di razzismo, di particolarismi e esclusivismi, non assenti spesso anche all’interno di una comunità religiosa; infatti, ha detto p. Kolvenbach, «i vostri rapporti indicano che dobbiamo rifare continuamente, attraverso un cammino di dono e di perdono, una unione che l’individualismo e la rivalità continuano a disfare», soprattutto in vista della testimonianza da dare alle nuove generazioni.

 

L’EDUCAZIONE

E L’AZIONE SOCIALE

 

Per dare una forma concreta alla propria missione, c’è un altro modo particolarmente importante: l’elaborazione di un progetto apostolico. Non basta “benedire” quello che si fa già ordinariamente; non ci si deve mai accontentare dello status quo; sulla base di alcune priorità apostoliche, anche se a volte possono sembrare molto dolorose, bisogna progettare il futuro programmando coraggiosamente nuove iniziative e abbandoni, aperture e chiusure di opere, preparando sia gli scolastici che i fratelli al compito che verrà loro affidato, mantenendo sempre un clima di aperto dinamismo nella pianificazione della propria attività apostolica; il fatto poi di preoccuparsi delle proprie province, non dispensa nessuno dalla attiva partecipazione alle priorità di tutta la Compagnia di Gesù, affinché le sia sempre garantita, anche mediante le necessarie mediazioni istituzionali, professionali, specialistiche quando richieste, la sua identità e la sua specificità nella missione.

Anche nel caso delle centinaia di parrocchie che la Chiesa ha affidato ai gesuiti si devono sempre condividere esplicitamente le priorità apostoliche di tutta la Compagnia. Non basta «accontentarsi di prendersi cura di quelli e di quelle che pra­ticano la fede», ma «bisogna andare incontro a quelli e a quelle che sono lon­tani, assicurare l’opzione preferenziale per i poveri con impegni concre­ti in questo senso, e offrire la spiritualità degli Esercizi spirituali nella vita di tutti i giorni».

Un analogo discorso vale anche per il grosso impegno in campo educativo della Compagnia; «nonostante gli ostacoli di ogni genere, è in corso un lavoro creativo e continuo, per as­sicurare che l’identità dell’educazione cristiana continui a essere chia­ramente proposta, e che le caratteristiche ignaziane di questa educazio­ne continuino a essere operative». Ormai però il numero di gesuiti direttamente impegnati in questo campo è sempre più ridotto; è allora il caso di pensare seriamente, non come ripiego ma «come un miglior bene», alla collaborazione con i non gesuiti: lo scopo fondamentale è sempre quello di creare un ambiente educativo permeato del­lo spirito evangelico di libertà e di carità. Il futuro di tanti popoli e di tante culture si gioca nella qualità dell’educazione e qui «la Compagnia non può sottrarsi, avendo il dovere di partecipare a questa responsabilità apostolica».

A volte si è rimproverato alla Compagnia di avere abbandonato la cau­sa dell’educazione per lanciarsi nell’azione sociale. «bisogna arrendersi all’evidenza», risponde p. Kolvenbach: mentre il settore dell’educazione è ancora in piena crescita, «il settore sociale propriamente detto rischia di scomparire nella Compagnia, se non si compie senza indugio uno sforzo speciale»; attraverso i centri sociali, tutte le possibili forme di inserimento tra i disagiati, il sostegno ai sindacati e ai momenti popolari, i gesuiti non possono rinunciare alla convinzione che il servizio privilegiato dei più poveri e dei più bisognosi fa parte integrante della missione di Cristo. è questa la missione che attende una risposta convinta anche dai gesuiti: vivere con Cristo da poveri e abbracciare con lui la causa dei poveri. Ma non basta però solo servire i poveri, al seguito del Signore, nel dono umile e gratuito di noi stessi; al tempo stesso bisogna «agire sulla società umana e sulle sue strutture di peccato».

Di fronte al fenomeno della mondializzazione dei mercati, ha concluso p. Kolvenbach, i gesuiti devono avere il coraggio di essere la voce di tanti senza voce, rafforzando e assicurando la massima efficacia a tutti i centri sociali, anche là dove la sequela Christi può giungere fino al dono della vita con il martirio». Se la Compagnia ha spesso dovuto lottare per trovare la sua identità, lo ha fatto perché, nonostante alcune defezioni, ha sempre creduto, all’interno dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, a una missione indivisibile di fede e di giustizia.

 

A. A.