RIFLESSIONI DEL PATRIARCA LATINO DI GERUSALEMME

ESSERE CHIESA IN TERRA SANTA

 

C’è posto per la speranza in Terra Santa? Là dove sembra fallire la politica può riuscire l’impegno dei credenti di ogni religione. Per i cristiani è cruciale riflettere su violenza e terrorismo, sulle relazioni tra il popolo ebreo e quello musulmano.

 

La problematica israeliano–palestinese continua a rimanere una questione non risolta. Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto al corpo diplomatico (12.04.2004), ricordava che la non risoluzione di questo problema «continua a essere un fattore di destabilizzazione permanente per tutta la regione». Il ricorso alle armi, al terrorismo e alle rappresaglie, l’umiliazione dell’avversario, la propaganda carica di odio – diceva il papa – non portano da nessuna parte.

Il dramma della quotidianità, al di là delle notizie relative agli attentati e ai fatti di sangue più violenti, rimane un peso che tocca la vita e il lavoro di ogni uomo e donna, incide sui valori, sugli affetti e sulle relazioni di ognuno, sia esso palestinese o israeliano. Un peso difficile da tradurre in un articolo giornalistico o in un servizio televisivo.

Dalla prospettiva ecclesiale che gli è propria, il patriarca latino di Gerusalemme mons. Michel Sabbah ha tentato di leggere e interpretare lo scenario drammatico nel quale vive e agisce la comunità cristiana. Nei giorni precedenti il Natale il patriarca ha voluto offrire queste riflessioni della chiesa palestinese a tutti coloro che cercano la pace. La sua riflessione, condivisa con i membri della commissione teologica diocesana, secolari e religiosi, converge su tre punti cruciali: violenza e terrorismo, relazioni con il popolo ebreo in Terra santa, relazioni con i musulmani.1

 

VIOLENZA

E TERRORISMO

 

«Abbiamo sempre condannato e condanniamo ogni atto di violenza contro l’individuo e contro la società… soprattutto il terrorismo, violenza estrema e organizzata, che ha lo scopo di ferire e uccidere innocenti per ottenere sostegno per la propria causa». L’affermazione di netto ripudio della violenza non è una semplice dichiarazione di principio. È, semmai, il risultato a cui il credente giunge consapevole della complessità politica e del contesto di disperazione in cui vivono palestinesi e israeliani.

«Nel caso del terrorismo – chiarisce mons. Sabbah – ci sono due colpevoli: da un lato coloro che eseguono gli attentati, coloro che li ispirano e li appoggiano, e dall’altro coloro che sostengono le situazioni di ingiustizia che causano il terrorismo». Quando si genera un tale clima di violenza si supera ogni limite: esso non conosce distinzione tra palestinesi e israeliani. Impotenza, frustrazione e disperazione alimentano collera e vendetta e portano a un ciclo di violenza senza fine.

«La legittima difesa diviene illegittima poiché ricorre a mezzi sproporzionati ed essenzialmente cattivi, con il pretesto di ottenere sicurezza e libertà, come per esempio la punizione collettiva o il mantenimento dell’occupazione. La speranza reale di una vera pace – attraverso la giustizia, il perdono e l’amore – è considerata pura illusione e facile ottimismo. Questi valori sono rimpiazzati dalla paralisi di un fatalismo cinico. Allora si innalzano muri nel paese e nei cuori. E la speranza viene ridotta a un puro desiderio di sopravvivere giorno per giorno. Qualcuno dice che la Terra Santa è diventata una terra profanata».

Eppure questa è la terra in cui Dio ha donato all’umanità il suo Figlio, che ha riconciliato nel suo sangue l’uomo con Dio, abbattendo i muri di ostilità che separavano gli uomini tra loro e con Dio. I cristiani di questa terra, in quanto discepoli di Gesù Cristo, si riconoscono chiamati da Dio «a essere una comunità di riconciliazione», persone ammaestrate e spinte dallo Spirito Santo a essere «portatori profetici della buona notizia della pace a coloro che sono lontani e a coloro che sono vicini (cf. 2Cor 13,13; Ef 2,17; Is 57,19) non con atti di violenza, ma coi gesti concreti della pace». Questi ultimi – insiste mons. Sabbah – richiedono «una pedagogia specifica, un insegnamento progressivo di un Vangelo di non violenza attiva e creativa nei nostri atteggiamenti, parole e azioni. Fare la pace non è una tattica ma uno stile di vita».

 

EBREI, EBRAISMO

E STATO D’ISRAELE

 

C’è un fondamento antico che alimenta la possibilità di intesa con il popolo ebreo, l’ebraismo e lo stato d’Israele: «Con tutta la Chiesa meditiamo sulle radici della nostra fede: nell’Antico Testamento che condividiamo con il popolo ebreo, e nel Nuovo Testamento che è scritto in gran parte da ebrei su Gesù di Nazaret. Con tutta la Chiesa, noi ci dispiacciamo degli atteggiamenti di disprezzo, dei conflitti e delle ostilità che hanno segnato la storia delle relazioni ebraico-cristiane».

Certamente il contesto nel quale si trova a vivere la Chiesa di Palestina è del tutto particolare. «A differenza dei nostri fratelli e sorelle in Europa, la nostra storia di cristiani in Terra Santa è stata la storia di una comunità minoritaria (condizione condivisa anche dagli ebrei del Medio oriente) in seno a una società a predominanza musulmana. Per diversi secoli non siamo stati una maggioranza dominante in relazione al popolo ebreo, come invece è stato in occidente». Il contesto attuale – precisa mons. Sabbah – è unico: «siamo la sola chiesa locale a incontrare il popolo ebreo in uno stato definito come ebraico e nel quale gli ebrei sono la maggioranza dominante, realtà che dura dal 1948. Ancora, il conflitto che continua tra lo stato d’Israele e il mondo arabo, e in particolare tra israeliani e palestinesi, significa che l’identità nazionale della grande maggioranza dei nostri fedeli è alle prese con l’identità nazionale della grande maggioranza degli ebrei».

Il carattere composito, e perciò per certi versi profetico, della comunità cristiana della Terra Santa, è – a parere del patriarca – un richiamo vivente «alla unità, alla riconciliazione e all’amore». In questa chiesa locale convivono «cristiani di espressione ebraica che sono ebrei o hanno scelto di vivere in seno al popolo ebreo. Per questa comunità il santo padre sta per nominare un vescovo ausiliare… Ci sono poi numerosi cattolici di diversi paesi che hanno scelto la Terra Santa come dimora. Desiderando vivere una comunione con gli arabi, gli ebrei e coloro che sono venuti dalle nazioni, la Chiesa di Gerusalemme impara a essere un segno visibile di unità per tutta l’umanità. Nella nostra ricerca costante per il dialogo con i fratelli e le sorelle ebrei, dobbiamo avere pienamente coscienza di questo particolare contesto».

Questa chiesa, con tutta la sua ricchezza composita, non può tuttavia fare a meno di essere «testimone della continua occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi, e della violenza sanguinaria tra i due popoli». Se mai sarà possibile una riconciliazione essa potrà avvenire soltanto se «uomini e donne di buona volontà, ivi compresi numerosi israeliani e palestinesi, ebrei, cristiani e musulmani» accetteranno di essere insieme «la voce della verità e una presenza che guarisce le ferite».

In tutto il mondo la Chiesa cattolica «insegna che il dialogo con il popolo ebreo è distinto dalle scelte politiche dello stato d’Israele. Di più, “l’esistenza dello stato d’Israele e le sue scelte politiche devono essere affrontate in una prospettiva non religiosa, ma in riferimento ai principi comuni della legge internazionale. La Chiesa è chiamata a essere testimone profetica nel nostro particolare contesto, una testimone che osa immaginare un futuro diverso, di libertà, di giustizia, di sicurezza, di pace e di prosperità per tutti gli abitanti della Terra Santa, che è prima di tutto la terra del Signore».

Di fronte a una responsabilità così pesante e a un lavoro così difficile «la Chiesa di Gerusalemme lotta, impara, dispiega le sue energie e conta su tutti i suoi fedeli, arabi, ebrei e fedeli venuti da tutte le nazioni, per aiutarla a discernere la volontà di Dio e la vera via dei discepoli di Cristo. Siamo già impegnati con i fratelli e sorelle ebrei in un dialogo basato sul nostro contesto, quello di una terra tristemente stravolta dalla guerra e dalla violenza. I nostri fedeli in Israele vivono in un dialogo permanente, continuo con i loro vicini ebrei, un dialogo di vita e di amicizia. Nei territori palestinesi, le nostre istituzioni cattoliche (il seminario diocesano, l’Università cattolica di Betlemme, ecc.) offrono corsi sugli ebrei e la loro eredità. La nostra commissione diocesana per i rapporti con il popolo ebreo è attiva e ci aiuta ad ascoltare e apprendere prima di tutto sugli ebrei e sull’ebraismo».

 

MUSULMANI, ISLAM

E SOCIETÀ ARABA

 

Argomentare sulle possibilità di dialogo con il mondo islamico può risultare intento molto approssimativo, poiché la realtà concreta della società araba è diversa da paese a paese. Perciò mons. Sabbah parla dell’esperienza di dialogo tipica della Terra Santa dove cristiani e musulmani hanno vissuto insieme per 1400 anni. «La nostra società ha conosciuto giorni facili e giorni difficili, e affronta oggi molte importanti sfide nella ricerca di un equilibrio, di fronte alla modernità, al pluralismo, alla democrazia e alla ricerca della pace e della giustizia. Inoltre, il nostro atteggiamento si radica nell’insegnamento della Chiesa nel concilio Vaticano II relativo ai musulmani».

In concreto, sono due i principi che regolano le relazioni tra musulmani e cristiani arabi in Terra Santa: «in primo luogo tutti, cristiani e musulmani, apparteniamo a un solo popolo; condividiamo la stessa storia, la lingua, la cultura e la società. In secondo luogo, come cristiani arabi siamo chiamati a essere i testimoni di Gesù Cristo nella nostra società araba e musulmana, come anche all’interno della società israeliana ebrea».

Il passaggio dalla proclamazione dei principi alla realtà vissuta evidenzia la necessità di un cambiamento ancora profondo. Mons. Sabbah menziona la presenza di «ignoranza e pregiudizi reciproci, un vuoto d’autorità che produce insicurezza, una discriminazione che tende verso l’islamizzazione in certi movimenti politici, minacciando così non solo i cristiani coinvolti ma anche i numerosi musulmani che desiderano una società aperta. Quando l’islamizzazione costituisce una violazione della libertà dei cristiani, noi dobbiamo insistere sulla necessità di rispettare la nostra identità e la nostra libertà religiosa. Questa complessità è spesso sfruttata per fini politici allo scopo di dividere la società. Tuttavia, per il dialogo e altre iniziative, cristiani e musulmani, siamo chiamati a collaborare per la costruzione di una società comune basata sul mutuo rispetto e sulle reciproche responsabilità».

Come muoversi in questo scenario? «In questa situazione – afferma mons. Sabbah – cerchiamo di aiutare i nostri fedeli arabi che sono la maggioranza del nostro gregge, a integrare e a vivere la complessità della loro identità come cristiani, come arabi e come cittadini, in Giordania, Palestina e Israele. Il fatto che i cristiani siano poco numerosi non significa che essi non abbiano importanza o che debbano lasciarsi andare allo scoraggiamento. Noi incoraggiamo tutti i nostri fedeli ad assumere il loro posto nella vita pubblica e a contribuire a tutto campo alla costruzione della società».

Per la Chiesa di Gerusalemme si tratta, nella visione del suo patriarca, di prendere coscienza della propria vocazione «a essere una presenza cristiana in mezzo alla società, musulmana araba o ebrea israeliana. Crediamo di essere chiamati a essere lievito, contribuendo alla soluzione positiva delle crisi che ci attraversano. Siamo voce che si alza dall’interno delle nostre società di cui condividiamo la storia, la lingua e la cultura. Cerchiamo di essere una presenza che promuove la riconciliazione, invitando i nostri popoli al dialogo che aiuta la mutua comprensione e che condurrà finalmente alla pace in questa terra».

Perché, come scriveva Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Pastores gregis «se non c’è speranza per i poveri, non ce ne sarà per nessuno, nemmeno per coloro che si chiamano ricchi» (67).

 

E. B.

 

1 SABBAH mons. M., Réflections sur la présence de l’Eglise en Terre Sainte, Gerusalemme, 3/12/2003.