UN’ESIGENZA ORMAI IMPROROGABILE

VA RIPENSATO IL DIRITTO INTERNAZIONALE

 

Il messaggio del papa per la Giornata della pace 2004 ed il discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede dello scorso 12 gennaio, in occasione dello scambio degli auguri agli inizi del nuovo anno, sono solo gli ultimi tra i molti interventi in venticinque anni di pontificato sul tema del diritto internazionale. Tenendo conto dei molti cambiamenti che hanno caratterizzato la comunità internazionale negli ultimi decenni e altresì di alcuni recentissimi accadimenti, come la questione del terrorismo, la guerra in Afghanistan e in Iraq, si esige un ripensamento della presenza e del ruolo stesso del diritto internazionale. Ciò che viviamo non è frutto di un cieco fatalismo perché, rispettando Iddio la libertà umana, alla fine il mondo è “…così come gli uomini e le donne di questo tempo lo modellano” (Discorso al corpo diplomatico 2004). Questo significa che ognuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e che, vista l’estrema fragilità dell’attuale sistema, è necessario pensare a un grado superiore di ordinamento internazionale dove l’Organizzazione delle Nazioni Unite acquisti sempre più un ruolo centrale e propulsore (cf. Messaggio per la pace 2004, 7).

 

Ma in concreto in quale direzione occorre muoversi per uscire dall’attuale situazione di stallo e pericolo nella quale si trova la comunità internazionale? Alla luce delle sapienti riflessioni di Giovanni Paolo II e recuperando le profetiche intuizioni di un famoso domenicano spagnolo del XVI sec., Francisco De Vitoria, è indispensabile lavorare per creare una nuova mentalità che pensi e s’impegni per un mondo percepito come società universale dei popoli, politicamente organizzati, che vivono e collaborano insieme sulla base di un reale principio di uguaglianza. Come è noto a chi si interessa di questa branca del diritto, la caratteristica fondamentale, quasi assunto dogmatico, dell’ordinamento giuridico internazionale, dalla sua nascita fino ai nostri giorni, è che le sue funzioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria), sono decentralizzate. In altri termini, nella comunità internazionale le tre fondamentali funzioni, di produzione di norme giuridiche, di accertamento del diritto e di attuazione coattiva, non sono riconducibili a organi determinati cui spetti la responsabilità ultima. Le norme che la disciplinano non sono prodotte dal legislatore, così come avviene negli ordinamenti interni, ma sono determinazione della condotta e della volontà dei soggetti che compongono la stessa comunità, allo stesso tempo legislatori e destinatari delle norme. Soprattutto, quasi inesistente e sempre fragile è stata la funzione di accertamento e sanzione dell’eventuali violazioni, spesso condizionata da interessi politici ed economici degli stati più potenti.

 

Oggi ci si rende conto che un simile sistema non è in grado di risolvere positivamente gli enormi problemi di fronte ai quali si trova l’umanità, che l’attuale sistema non condurrà da nessuna parte (cf. Discorso al corpo diplomatico 1). Quella che da sempre è stata considerata una specifica peculiarità dell’ordinamento internazionale si sta purtroppo rilevando un pericoloso laccio che alla fine arriverà a provocare il soffocamento dell’intero sistema. L’attuale congiuntura storica impone a tutti, ma in particolare a coloro che hanno in mano il bene delle nazioni, di essere audaci e uscire dagli sterili particolarismi, forti della convinzione che non c’è alternativa: o si escogiterà un sistema alternativo che porterà ad un nuovo assetto giuridico internazionale o si aggraveranno sempre di più le tante emergenze che popolano questo nostro tempo: diritti umani, guerra, fame, alfabetizzazione, ecologia, ecc.

Concretamente pensiamo che siano maturi i tempi per iniziare un processo di riflessione che porti quanto prima a una specie di rifondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (cf. Centesimus annus 21) attraverso una sorta di assemblea costituente che veda rappresentate tutte le nazioni della terra nel rispetto del principio d’uguaglianza ma anche tenendo conto di altri criteri che facciano giustizia all’identità e all’impegno di ciascuno, evitando così di scadere in un ideologico qualunquismo. Compito principale di detta assemblea dovrebbe essere quello di distinguere l’ambito di competenza degli ordinamenti statuali, rispettando la loro sovranità interna e indipendenza esterna, da quella propria dell’ordinamento internazionale che potrebbe determinarsi in modo chiaro e dettagliato applicando in modo analogico la Regula iuris: Quod omnes tangit debet ab omnibus approbari (n. 29). Per esempio, essendo la pace oggi un bene di tutti, la disciplina del suo mantenimento o della sanzione della sua violazione dovrebbe essere materia di produzione legislativa di uno speciale organo riconosciuto a livello internazionale. Ugualmente si dovrebbero avere organi esecutivi e giudiziari a ciò preposti. In ogni caso si dovrebbe arrivare a una chiara riserva di competenza in materie di interesse comune, con la chiara determinazione degli organi competenti forniti di reali poteri. In questo modo si avrebbe il rispetto della sovranità e indipendenza dei singoli soggetti della comunità internazionale, non in modo assoluto ma relativo al bene comune della comunità internazionale. Questa, una volta stabilita la sua area di competenza, avrebbe la possibilità di operare attraverso le funzioni dell’ordinamento giuridico in modo però “centralizzato”.

Per molti, soprattutto per la maggioranza degli internazionalisti, tutto ciò apparirà utopistico, fuori dalla realtà, manifestazione di pericolosa ingenuità, ma anche costoro devono riconoscere che questo passaggio è ai nostri giorni più che mai vitale. Il diritto internazionale è oggi chiamato a fare un salto di qualità e questo avverrà se saprà mettersi veramente al servizio della famiglia delle nazioni, realizzando la giustizia e favorendo così il bene comune e la pace.

Il “principio di realtà”, più che quello di effettività applicato per secoli nei rapporti internazionali e nel cui nome sono stati sacrificati valori come la giustizia e la pace, impone che le norme e gli istituti giuridici favoriscano le relazioni internazionali in ordine alla realizzazione di una pacifica convivenza e non viceversa, cioè che si rimanga schiavi di regole che di fatto l’impediscono, essendo essenzialmente ingiuste. Se il diritto internazionale mancherà questo appuntamento con la storia, perderà inevitabilmente la sua stessa ragion d’essere e manifestando la sua inutilità sarà messo da parte o condannato a svolgere un ruolo del tutto marginale.

Affinché questo passaggio si realizzi molto ci si attende dal contributo di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, in particolare i cristiani (cf. Discorso al corpo diplomatico 2004, 4), ma soprattutto dei politici e dei giuristi cattolici. Crediamo che questi ultimi interventi del Santo Padre costituiscano per questi ultimi in modo speciale un monito a non cedere a colpevoli omissioni all’alba del terzo millennio.

La fede che li illumina permetterà loro di mettersi in ascolto del Signore che annunzia la pace e di impegnarsi in questa opera nella certezza che un giorno “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno” (Sal 85).

 

Prof. P. Bruno Esposito, op

Vice Decano della Facoltà di Diritto canonico

 della Pontificia Università san Tommaso d’Aquino

di Roma - Angelicum