IL PAPA AL CORPO DIPLOMATICO

SGUARDO SUL MONDO D’OGGI

 

Quattro i punti cruciali indicati dal papa con i quali il mondo si deve confrontare in questo 2004.Che cosa può offrire la fede cristiana per costruirela pace e come possono i cristianicercare di promuoverla?

 

Il panorama che Giovanni Paolo II ha tracciato nell’udienza ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno ha messo a fuoco i punti cruciali che possono mettere a repentaglio la pace nel mondo. È pertanto opportuno cercare di approfondirlo anche perché questa è la realtà in cui vive oggi la Chiesa e la stessa in cui anche noi religiosi siamo chiamati a operare e a testimoniare il Vangelo. Come scrive infatti la Gaudium et spes «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore… Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche» (1.4).

Il papa ha indicato in quattro punti, o “convizioni”, i problemi più importanti davanti ai quali si trova il 2004 sul piano mondiale proponendoli a tutti gli uomini di buona volontà «che Dio ama» come momenti di riflessione e di impegno.

Il primo riguarda il grande tema della pace «tuttora minacciata» in tante parti del mondo; il secondo, il contributo che la fede è chiamata a offrire quale «forza per costruire un mondo nuovo»; il terzo, il ruolo della religione nella società, quale strumento di dialogo; il quarto, infine, il compito dei cristiani affinché insieme si sentano responsabili della pace e dell’unità della famiglia umana.

 

LA PACE

MINACCIATA

 

Anzitutto il problema della pace. Molti popoli, ha affermato il papa, continuano a «conoscere le conseguenze delle lotte armate, soffrono la povertà, sono vittime di clamorose ingiustizie o di pandemie difficili da governare». Il riferimento va all’Iraq, al problema israeliano-palestinese, ai persistenti conflitti soprattutto in Africa e al terrorismo internazionale.

La situazione in Iraq è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Mentre però i mass media offrono grande spazio alle violenze che ogni giorno vengono perpetrate e agli attentati terroristici che continuano praticamente con lo stesso ritmo anche dopo la cattura di Saddam, non sempre essi riescono a far capire la complessità del problema e il fitto intreccio di interessi in campo, in contrasto tra di loro, che potrebbero far fallire il sogno di un futuro paese liberale e democratico. Come rilevava recentemente anche Avvenire (20 gennaio), la realtà è questa: sciiti (la grande maggioranza della popolazione, oppressi ed emarginati al tempo di Saddam Hussein) contro sunniti, religiosi contro laici, curdi contro il resto e, se non si correrà ai ripari, iracheni contro occidentali. Le recenti manifestazioni degli sciiti a Bagdad, dove sono stati gridati slogan antiamericani, è un preoccupante campanello di allarme di una situazione che potrebbe sfuggire di mano e preludere a clamorosi disordini e a una realtà ingovernabile. L’attuale Consiglio governativo iracheno e l’Amministrazione civile guidata da Paul Bremer (responsabile davanti a Washington) hanno tracciato una scaletta in vista delle elezioni generali che dovrebbero aver luogo non prima del 2005. Ma è un itinerario pieno di insidie. Entro la fine di febbraio i due organismi dovranno approvare una costituzione provvisoria, mentre per la fine di maggio è prevista l’entrata in vigore di un’Assemblea nazionale provvisoria incaricata di scegliere il governo che verso la fine di giugno prenderà in mano i poteri di Bremer. Nel medesimo tempo dovrebbe nascere un’assemblea costituente a cui spetterà di scrivere la costituzione definitiva per giungere alle elezioni generali il prossimo anno.

Sulla carta sembra tutto facile, in effetti invece è tutto molto complesso e lo diventerà ancora di più se gli sciiti, capeggiati dall’ayatollah Ali Sistani, continuernno a insistere (e a manifestare sulle piazze) affinché ciascuno di questi passaggi sia il risultato di consultazioni popolari dirette. Una richiesta del genere creerebbe gravissimi problemi ai gruppi minoritari come i sunniti (un quinto soltanto della popolazione) e più ancora ai curdi i quali aspirano a consolidare la loro autonomia, dopo anni di massacri e di misure repressive da parte di Saddam, una scelta tuttavia fortemente avversata dalla vicina Turchia.

Alla enorme difficoltà di mettere d’accordo tutti questi gruppi si aggiunge quella di riuscire a piantare una democrazia di tipo liberale in un mondo e in una cultura, come quella musulmana, a cui essa è totalmente estranea; inoltre la difficoltà a conciliare i principi dell’islam a cui il paese intende rimanere fedele con quelli di una società laica secondo i criteri occidentali. Senza dimenticare che un regime democratico, posto al centro di altri paesi musulmani confinanti a regime autoritario, sarebbe avvertita come una minaccia e guardato con sospetto. Comunque l’America ora spera che nel paese venga rafforzato il ruolo delle Nazioni Unite poiché si è accorta di non poter più uscire da sola dal pantano in cui si è cacciata con la guerra.

 

DALLA PALESTINA

ALL’AFRICA

 

Il secondo punto toccato dal papa riguarda il conflitto israeliano-palestinese. Il papa ha osservato: «La scelta delle armi, il ricorso, da una parte, al terrorismo, e dall’altra parte, alle rappresaglie, l’umiliazione dell’avversario, la propaganda odiosa, non portano da nessuna parte. Solo il rispetto delle legittime aspirazioni, degli uni e degli altri, il ritorno alla tavola dei negoziati e l’impegno concreto della comunità internazionale sono suscettibili di far giungere a una soluzione. La pace durevole non può ridursi a un semplice equilibrio tra le forze presenti; essa è il frutto di un’azione morale e giuridica».

Purtroppo l’impegno della comunità internazionale, invocato dal papa, è molto debole e non va al di là delle semplici parole. Anche l’Unione europea ha preferito finora lavarsene le mani.

Sul problema israeliano-palestinese invitiamo a leggere in altra parte della rivista le dichiarazioni del patriarca latino di Gerusalemme, Michael Sabbah, e la breve descrizione che le suore del Baby Hospital di Betlemme ci danno dell’allucinante situazione in cui vivono oggi i palestinesi. Ogni altra parola ci pare superflua (cf. p. 6).

Il papa ha poi accennato ai conflitti dimenticati, in particolare in Africa, di cui abbiamo parlato più volte. Le tensioni e i conflitti, ha sottolineato, hanno «un impatto drammatico sulle popolazioni; agli effetti della violenza si aggiungono la pauperizzazione e il deterioramento del tessuto istituzionale, piombando popoli interi nella disperazione; bisognerebbe inoltre evocare il pericolo che rappresentano sempre la fabbricazione e il commercio delle armi, che alimentano abbondantemente queste zone a rischio».

Fortunatamente qualcosa si sta movendo nel senso che qua e là si profilano tentativi di pace come nella zona tormentata dei Grandi Laghi, nel Sudan (dopo oltre trent’anni di guerra):  paese che ha conosciuto gli orrori della schiavitù, degli stupri e delle crocifissioni, un paese dall’islamizzazione forzata, dei diritti negati ai cristiani, ecc.

Ma come l’esperienza insegna, i trattati di pace in questi paesi sono sempre molto precari e lo sono ancora di più quando di mezzo c’è il dio petrolio, come nel Sudan. La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire.

Resta poi il dramma del terrorismo internazionale, il quale, come ha ribadito il papa, «seminando la paura, l’odio e il fanatismo, disonora tutte le cause che pretende di servire». Da parte mia, ha aggiunto, «mi limiterò semplicemente a dire che ogni civiltà degna di questo nome suppone il rifiuto categorico dei rapporti di violenza».

Dal nostro punto di vista, possiamo osservare che la guerra al terrorismo, ingaggiata dall’America, con la forza delle armi – anziché percorrere la via più lunga ma più sicura del dialogo – e l’applicazione dei principi della cosiddetta “guerra preventiva”, almeno finora non ha fatto altro che aumentarlo. Per ora è una guerra tutt’altro che vinta.

 

LA FEDE

PER LA PACE

 

Il papa ha toccato poi il problema della fede nel mondo d’oggi, quale «forza per costruire la pace» e ha affermato che «si può facilmente capire il capitale che rappresentano le comunità dei credenti nell’edificazione di un mondo pacifico e pacificato». Quindi si è alquanto dilungato sul ruolo della religione nella società, deplorando il fenomeno della progressiva emarginazione della religione dalla società. «Siamo testimoni, in questi ultimi tempi in certi paesi d’Europa, ha affermato, di un atteggiamento che potrebbe mettere in pericolo il rispetto effettivo della libertà religiosa» nel senso che viene negata «la dimensione sociale delle religioni». A questo proposito «si invoca il principio della laicità dello stato, in sé legittimo… ma distinzione non vuol dire ignoranza. La laicità non è il laicismo: essa non è altro che il rispetto di tutte le fedi da parte dello stato, il quale assicura il libero esercizio delle attività spirituali, culturali e caritative delle comunità dei credenti. In una società pluralista, la laicità è un luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la nazione. I rapporti Chiesa-stato possono e devono dar luogo, al contrario, a un dialogo rispettoso, portatore di speranze e di valori fecondi per l’avvenire di una nazione. Un sano dialogo tra lo stato e la Chiesa può senza alcun dubbio favorire lo sviluppo integrale della persona umana e l’armonia della società».

Il papa ha quindi deplorato il fatto di un’Europa che non riconosce più le sue radici cristiane. Certuni infatti, ha sottolineato, «hanno riletto la storia attraverso il prisma di ideologie riduttrici, dimenticando ciò che il cristianesimo ha apportato alla cultura e alle istituzioni del continente: la dignità della persona umana, la libertà, il senso dell’universale, la scuola e l’università, le opere di solidarietà. Senza sottovalutare le altre tradizioni religiose, resta vero che l’Europa si è affermata nel tempo stesso in cui è stata evangelizzata. E ci si deve in tutta giustizia ricordare che nei tempi recenti i cristiani, promovendo la libertà e i diritti dell’uomo, hanno contribuito alla trasformazione pacifica dei regimi autoritari, e alla restaurazione della democrazia in Europa centrale e orientale».

Eppure, nonostante l’evidenza, questa realtà è ora volutamente ignorata e si continua a giocare subdolamente con le parole. Chi ha seguito i dibattiti che stanno avendo luogo in Francia (e in certo senso anche in Italia) in questi ultimi mesi può facilmente rendersi conto dell’ambiguità con cui viene usato il termine laicità: si dice laicità, ma in realtà si intende laicismo. I vescovi francesi lo hanno chiaramente denunciato.

 

UNA DIFFICILE

UNITÀ DEI CRISTIANI

 

Nell’ultima parte del discorso il papa ha attirato l’attenzione sul problema ecumenico affermando che «tutti noi cristiani, insieme, siamo responsabili della pace e dell’unità della famiglia umana».

L’ecumenismo tuttavia non sta vivendo una grande stagione. Come ha dichiarato il card. Walter Kasper, presidente del Consiglio per l’unità all’assemblea plenaria che si è tenuta a Roma dal 3 all’8 novembre scorso, il dialogo ecumenico è diventato difficile da quando nel discorso, oltre ai problemi della fede, sono entrati anche quelli etici, sui quali le chiese sono molto divise. Nel suo intervento il cardinale ha passato in rassegna gli attuali rapporti con gli ortodossi – con i quali il dialogo è fermo – con le chiese della Riforma con le quali, ha sottolineato, non sono attualmente possibili sostanziali progressi, con l’anglicanesimo con il quale, al di là dei buoni rapporti, restano problemi che in questi ultimi tempi si sono ulteriormente aggravati, soprattutto nel campo etico, e per la frammentazione a cui sta andando incontro la stessa comunione anglicana nel suo insieme.

Abbiamo a che fare, ha precisato il cardinale, con ecclesiologie tra loro diverse e ciò non facilita il dialogo perché «fino a quando non saranno risolti i problemi ecclesiologici di fondo, non sarà possibile alcun sostanziale progresso».

Ci troviamo di fronte quindi a un futuro pieno di problemi e di interrogativi. Problemi e interrogativi che emergono anche in altri versanti dell’attuale realtà socio-poilitica del mondo. Sarebbe interessante avere il tempo e lo spazio per esaminare il cumulo di dati raccolti dalla Gallup International in vista del Forum economico mondiale che si è tenuto Davos alle fine del gennaio scorso. Il sondaggio riporta il risultato di 43.000 interviste in 51 paesi del mondo e, secondo i promotori, rispecchierebbe l’opinione di un miliardo di persone. Il risultato è che un numero molto elevato di abitanti del pianeta vede il futuro del mondo a tinte piuttosto scure. I più pessimisti sono gli europei occidentali: il 64% di essi ritiene che il mondo sarà meno sicuro per la prossima generazione e solo il 15% ha espresso un parere contrario. Ma anche l’analisi dei dati per continente, salvo qualche eccezione per i paesi emergenti, lascia trasparire un pessimismo molto diffuso.

Ecco perché ci pare importante l’invito del papa ai cristiani a farsi promotori e testimoni di speranza, quella che viene da Cristo, il quale continua ad amare il mondo e a donare la pace agli uomini di buona volontà. Oggi più che mai è necessario sentirsi uniti e solidali se si vuole cooperare a costruire un mondo nuovo, basato non sulla paura, ma sulla fiducia e la fraternità, al cui centro vi sia la giustizia e la pace.

 

A. D.