UNA SUORA
IN CAPO AL MONDO
«Dopo la scomparsa degli
indiani degli Stati Uniti e l’emancipazione dei neri, sono gli immigrati
italiani quelli che in gran numero rappresentano i paria della grande repubblica americana»: così il Rapporto
sull’emigrazione italiana pubblicato dalla congregazione di Propaganda Fide nel
1887.
Ed erano trascorsi soltanto
due anni, da tale data, quando s. Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) con sette delle sue
Missionarie del Sacro Cuore si imbarcava dal porto di
Le Havre nel piroscafo Bourgogne diretta in America, destinazione New York,
chiamata irresistibilmente a operare proprio tra quei paria nella “grande
repubblica” oltre oceano: a operare col preciso scopo di riscattarli, a forza
di Vangelo, dallo status che offendeva la loro dignità di lavoratori italiani e
quella delle famiglie che li avevano seguiti in cerca di fortuna.
Di essi,
infatti, ella già conosceva, mediante l’assillo della Chiesa per quei
gravissimi problemi ai quali non bastavano in Italia le iniziative del vescovo
di Piacenza Giovanni Battista Scalabrini, le condizioni di abbandono sociale e
su di esse andava verificando con sempre maggior lucidità la propria vocazione
religiosa e di fondatrice. Una vocazione delusa dalla prova di inserirsi in
percorsi già tracciati, di vita consacrata attiva, e che Francesca avvertiva proiettata verso qualcosa di inedito, non soltanto nel
panorama delle fondazioni italiane nell’ultimo scorcio del XIX secolo (aveva
fondato il suo istituto a Codogno/Milano nel 1880), ma specialmente in quello
più vasto e inquietante dei problemi che la modernità andava creando dappertutto.
Leggiamo il racconto della
sua vita nella recentissima biografia pubblicata dalla
storica Lucetta Scaraffia,
racconto che conferma l’eccezionalità dell’avventura vissuta dalla santa
italiana: una donna – scrive l’autrice nella sua introduzione - «che non parla
mai di emancipazione, ma che lancia uno dei programmi più rivoluzionari in
questo senso»; una donna che «ha capito che gli emigranti sono uno degli
effetti più destabilizzanti della modernità» e decide, sulla scorta della
parola di san Paolo da lei privilegiata «Tutto posso
in Colui che mi dà forza», di buttarvi dentro la propria vita con la
conseguenza di attrarvi ben presto, per amore del cuore di Cristo, tante altre
vite.
DA “EMIGRANTE”
E MOLTO DI PIU’
La sua vocazione era –
Francesca diceva con linguaggio allora poco comune – assolutamente missionaria;
e lei aveva pensato inizialmente alla Cina, patria
missionaria del santo che più ammirava e del quale volle prendere il secondo
nome di Saverio, al maschile; lei che quale maestra aveva insegnato a volgere
al femminile i nomi maschili, volle chiamarsi proprio così, Francesca Saverio,
quasi a dotarsi di una luce in più dall’alto o forse per confermare a se stessa
quelle capacità di amministrare che alle donne religiose del suo tempo venivano
finalmente riconosciute; ciò che – osserva l’autrice – alle donne laiche venne
riconosciuto giuridicamente soltanto nel 1919.
Un vero e autorevole invio
in missione Francesca l’aveva già ricevuto, secondo il suo desiderio, da Leone
XIII il quale le aveva indicato non l’oriente, ma l’occidente e con una
sicurezza tale che la confortò nella sua volontà di andare – come ella disse – «tranquillamente sino in capo al mondo», con la
forza della benedizione del papa e con l’incrollabile fiducia nel “suo” Sacro
Cuore.
E in capo al mondo la
seguono passo per passo i quattro densi capitoli di questo libro nei quali
l’autrice, forte della conoscenza diretta del patrimonio archivistico delle
Missionarie del Sacro Cuore – grazie alla scelta coraggiosa delle stesse
cabriniane di aprire i propri archivi alla ricerca storica esterna – raccoglie gli elementi concreti
dell’avventura missionaria della santa, armonizzandoli col gradevole
contrappunto della vicenda spirituale che a quell’avventura aveva
dato significato evangelico e sapore di santità.
Vi leggiamo, dopo gli
antefatti raccontati nel primo capitolo, l’incontro con la modernità che
Francesca Saverio intravide in anticipo sul mare, in quel primo dei 28 viaggi
della sua spola continua tra l’Italia e il nuovo mondo, e vide
più chiaramente nell’America dei disprezzati paria italiani, soffrendone in
tutta la terribile concretezza, con le sue sette giovani suore e poi con le
tante altre, la condizione insopportabile.
Vi leggiamo ancora il
graduale e pur rapido acquisire lo spirito americano, il che le permise di
affrontare situazioni difficilissime da condurre a normalità «elaborando un
nuovo modello di integrazione per gli immigrati – un
modello inaugurato da lei stessa, che prenderà la cittadinanza americana nel
1909, e dalle sue suore – per cui la nuova identità americana poteva convivere
con quella italiana originaria grazie all’appartenenza alla religione
cattolica»; guidata quindi dalla fede, che illuminava le sue qualità umane e il
suo genio imprenditoriale, già nei primi tre anni della sua avventura americana
si diede linee originali di intervento che con le sue suore portò avanti, con
sempre nuovi sprazzi di creatività in ordine, anzitutto, a risuscitare o a far
germogliare nei cuori sentimenti di amore a Dio e di appartenenza alla Chiesa
cattolica. Non pochi vescovi del luogo e altre personalità dapprima diffidenti,
e ostacolanti i progetti di lei (ne leggiamo episodi
gustosi), diedero presto atto del suo coraggio e della sua saggezza e le
fornirono poi cordiale aiuto, si trattasse di aprire scuole o orfanotrofi,
collegi o ospedali, dai quali si irradiavano iniziative sempre nuove
finalizzate alla promozione sociale degli immigrati. «Vorrei – scriveva alle
suore – che le scuole fossero pulite, e pulite pure le fanciulle
che le frequentano. Fate di tutto su questo punto, vi raccomando, per alzare un
tantino l’onore decaduto degli italiani».
Nell’esperienza di
Francesca Cabrini – scrive Scaraffia – «niente di più lontano dall’idea
ottocentesca della donna come figura eternamente infantile, naturalmente
sottomessa, che sembra pervadere l’immagine della suora ancora ai nostri
giorni».
Non si era mai occupata di
femminismo, ma di sé donna cristianamente emancipata diede
senza volerlo un ritratto convincente allorché essendo stata invitata al primo
congresso delle donne italiane a Buenos Aires (1908) così rispose
all’organizzatrice: «La sua lettera mi trova di ritorno da un viaggio traverso
le sterminate pianure della pampa centrale e in procinto di imbarcarmi per il
Brasile. Da alcuni giorni essa è sulla mia tavola, fra un mucchio di lettere
che chiedono risposta, di carte d’affari che vogliono essere sbrigate,
mescolate a piani di nuove costruzioni, a progetti di proprietà a
comperarsi...».
Ammiriamo così in questa
storia densamente raccolta in sole 200 pagine e godibilissima, il profilo di
una santa la cui modernità è evidente non soltanto nel modo di realizzare un
progetto missionario insolito ma pure nei vari aspetti del pensiero
di lei: nella visione teologica umilmente vissuta in fedeltà alla Chiesa
cattolica e nel sapiente, talvolta ironico benché rispettoso, diffidare di
persone dalla vista corta anche in campo ecclesiale; nell’intelligenza dei
problemi sociali per risolvere i quali non aveva paura neppure del denaro, che
procurava mettendo insieme umiltà e fantasia e amministrava con larghezza di
vedute pur coltivando e insegnando a coltivare la povertà anche quale voto
religioso; nel suo linguaggio, di cui leggiamo il rapido irrobustirsi libero da
forme romantiche ed espressivo di quel personale vivo senso estetico che trasfondeva nella
formazione delle sue missionarie (frammenti bellissimi di sue lettere a esse lo
documentano nel libro) e nei loro progetti educativi.
Ecco: questo è stata
Francesca Cabrini, una donna anche per oggi.
Z. P.
1 SCARAFFIA L., Francesca
Cabrini. Tra la terra e il cielo, Edizioni Figlie di s.
Paolo, Milano 2003, pp.191, Euro 13,50.
2 È quanto afferma la
stessa Scaraffia nel suo Il concilio in convento, Morcelliana, Brescia 1996,
p.16.