Preg.mo direttore,
mi sento profondamente coinvolta dalla parola del p.
Radcliffe nell’ultimo numero di Testimoni (20 /2003, “Anche gli istituti
possono morire”). Sono parole che sì fanno male, ma proprio perché piene di
realismo e della luce di quella verità che fa soffrire gli occhi di colui che si è compiaciuto nella penombra. “Morire con
dignità” è una sfida e – perché no? – una chiamata alla quale
molte congregazioni devono rispondere con lucidità.
Faccio parte di una di queste e ciò che segue non lo
posso dire in Fraternità proprio perché causerebbe troppa, sofferenza. Ci siamo
nascoste da questa verità ardente camuffandola dietro il nostro quotidiano
“fare” che ci protegge, ci corazza in modo illusorio dinanzi alle vere
difficoltà del mondo. Siamo attaccate al nostro “fare scuola, “fare le pulizie”
(come molte congregazioni, penso!), tanto da non aver più tempo per riflettere…
ahimè, per pregare, tanto da rinchiuderci in una dolce mediocrità culturale, la
quale però ci fa star bene tra di noi. Però, nel nostro intimo, ognuna è cosciente della minaccia
che ci sfida, volendo o no, e ne diamo prova ogni qualvolta quando valutiamo le
nostre missioni, non secondo le loro opere di bene, ma secondo il numero di
vocazioni che ci hanno portato. Mi chiedo allora, perché andiamo in missione?! Che ci spinge in verità: la paura di morte o l’amore a
Cristo?
Poi il dolore continua perché le vocazioni di oggi non sono più le ragazzine di una volta. Ma spesso
donne mature, con una valida formazione ed esperienza di vita, dinanzi alle
quali il nostro saper “fare” tante cose impallidisce.
Loro non ci chiedono più di dimostrare il “fare con le mani”, ma di
testimoniare l’ “essere” in Cristo, con Cristo e per
Cristo. Dopo che entrano, le richiudiamo in una categoria formativa e non le
valutiamo più come persone ma, appunto come categoria. Ci fa comodo perché
così, una novizia deve tacere dinanzi a una junior e
le opinioni di una junior non valgono mai quanto quelle di una professa
perpetua, sia pure la junior superpreparata in quel campo. Ci fa comodo sì,
all’interno della nostra fraternità! Ma, qual è la
testimonianza che diamo al mondo che ci circonda?!
Ci erigiamo spesso maestre, anche nei campi in cui abbiamo
solo pallide informazioni, ma non vogliamo capire che oggi, forse più che mai,
la gente ha bisogno di testimoni dell’“essere” e non del “fare”, neanche del
“sapere” I veri testimoni ci sono per “essere” lì, per ascoltare e per
condividere senza nessuna prepotenza, ma con l’umiltà di colui che ha spazio
per tutti nel suo cuore.
Non credo che il mondo di oggi
abbia bisogno di dimostrazioni di varia arte se non dell’arte di amare.
Se le congregazioni muoiono e lo sanno fare con dignità e
senza disperazione, il seme gettato da loro germoglierà. Se sappiamo vivere la
nostra vocazione amando tutti con particolare amore, uno per uno, senza
classificare e valutare i nostri fratelli secondo la nostra categoria, ma
amandoli personalmente, come persone, allora potremo anche morire nella
speranza delle risurrezione.
Chiara Angelica
Non c’è molto da aggiungere
alle sue osservazioni. Certamente, come lei afferma, ciò che dice p. Radcliffe può essere risentito come una sofferenza. Purtroppo, spesso
la paura di guardare in faccia i problemi ci fa chiudere gli occhi, credendo
così di rimuoverli. È una paura che ci rende miopi e non ci permette di vedere
i segni che Dio ci invia e così finiamo con l’adagiarci
in un’apparente quanto illusoria tranquillità. Non si può far finta che il
problema non esista se non si vuole andare incontro ad amare sorprese. È necessario, come lei dice, un sano realismo, basato sulla
fede e sostenuto dalla speranza. Ma non dobbiamo illuderci di
essere noi i padroni del nostro domani e tanto meno di poterci
sostituire a Dio. Non saranno infatti le nostre
“astuzie” a salvarci. (A.D.)