I CONSACRATI E IL DIALOGO INTERRELIGIOSO

A CASA IN OGNI CULTURA

 

Per i consacrati la via del dialogo non sta nelle sottili discussioni teologiche, ma nel vivere con rispetto e apertura accanto all’uomo, condividendone le gioie, le crisi e le pene. Un dialogo della vita, animato da una profonda ricerca di fede, fatto di reciproca testimonianza.

 

Dopo l’assemblea nel maggio 2003 (Il religioso, uomo di dialogo nella Chiesa e con la Chiesa), il 63° appuntamento semestrale dell’Unione superiori generali si è occupato del dialogo interreligioso (Il dialogo interreligioso, compito prioritario della vita consacrata; Roma, 26-29/11/2003).

L’assemblea – alla luce delle chiare indicazioni contenute in Vita consecrata: «Dal momento che “il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”, gli istituti di vita consacrata non possono esimersi dall’impegnarsi anche in questo campo, ciascuno secondo il proprio carisma… Questi e altri impegni delle persone consacrate a servizio del dialogo interreligioso esigono una adeguata preparazione nella formazione iniziale e nella formazione permanente, come pure nello studio e nella ricerca, dal momento che in questo non facile settore occorre profonda conoscenza del cristianesimo e delle altre religioni, accompagnata da fede solida e da maturità spirituale ed umana» (102) – si è proposta di studiare le implicazioni che questa opzione comporta per il modo di vivere la spiritualità e la vita di comunione, la formazione e i compiti pastorali della VC stessa.

 

SPIRITUALITÀ

E CULTURA DEL DIALOGO

 

Fratel Álvaro R. Echeverria fsc, presidente riconfermato dell’USG, dopo aver ricordato le quattro classiche dimensioni del dialogo interreligioso (riguardanti la vita, le opere, gli scambi teologici e l’esperienza religiosa; (cf. il documento vaticano Dialogo e annuncio del 1991), ha suggerito di concentrarsi sul livello della condivisione quotidiana della vita e della specifica esperienza di Dio dal momento che «la vita religiosa non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa, ma appartiene alla sua vita e alla sua santità (LG 44)».

«Per noi cristiani, ha affermato, le ragioni più profonde del dialogo interreligioso si trovano nel Vangelo e nell’insegnamento, nella libertà e nella prassi di Gesù. Per lui il comandamento fondamentale è quello di amare Dio e il prossimo. Dopo di lui, alla fine della vita saremo giudicati sull’amore (cf. Mt 25). Il dialogo dunque ci deve portare a costruire un mondo in cui tutti possano sentirsi figli di Dio, fratelli e sorelle, al di là delle differenze religiose, e in cui si dia un’attenzione particolare ai poveri e ai sofferenti. In una parola, a costruire insieme il regno di Dio partendo da accoglienza, perdono, umiltà, prossimità, tenerezza».

In questo senso il dialogo interreligioso, accomunando le persone in un processo di vera e propria purificazione, apre a enormi prospettive: facilita l’inculturazione, promuove la pace e la non violenza, stimola alla solidarietà e all’impegno per un ordine internazionale più giusto, difende la vita umana e la natura, diventa testimonianza di valori trascendenti e morali.

 

Essere fuori dell’accampamento

 

Su questa linea  p. Chris McVey (consigliere incaricato del dialogo interreligioso presso la curia dei domenicani) ha insistito sul fatto che oggi è proprio l’incontro con persone di fedi diverse che ci apre a una nuova comprensione dei fondamenti della VC. «La sfida del pluralismo religioso ci invita a tornare al cuore del paradosso cristiano di una religione dell’incarnazione e della kenosi di Dio». Citando il confratello teologo Claude Geffré, il quale descrive la natura del cristianesimo come essenzialmente dialogica e che consente e suppone l’altro da sé , p. McVey ha invitato a raccogliere la sfida di una identità che si realizza nella relazione, di un’etica che precede la metafisica, del buono che è prioritario rispetto al vero: «Questo essere per gli altri è ciò a cui sono chiamati i religiosi, “essere per gli altri” che sono carne e sangue, donne e uomini, non solo “idee”… la nostra vera identità come cristiani e come religiosi dipende dalla dinamica di attenzione e responsabilità verso gli altri. I nostri voti ci liberano precisamente per questo compito. Siamo liberi di attraversare il mondo degli altri, liberi di attraversare confini, liberi di andare oltre la nostra eredità di fede per entrare nel mistero che è il vero cuore della fede».

Così il “rischiare Cristo per amore di Cristo” ci fa recuperare l’originalità del cristianesimo, che consiste nell’essere non tanto una “religione” ma la “imprevedibile potenza del Vangelo”: «qui troviamo la possibilità della sua capacità di vera incarnazione, di sentirsi a casa, in ogni cultura, con ogni religione e mai in competizione». Ci fa anche recuperare il senso originario dell’essere Chiesa: infatti per il gruppo dei discepoli, riconosciuto come una “compagnia di stranieri” gli uni agli altri, Gesù arriva a offrire se stesso rivelando così che solo una comunità aperta all’alterità diventa strumento del Regno.

Gesù è infatti colui che viene da fuori dell’accampamento, colui che si mette al servizio di coloro che vivono fuori dell’accampamento e dice ai discepoli che lì sempre lo troveranno. «Le nostre vite come religiosi, ha concluso il padre domenicano, iniziano “fuori dell’accampamento” (Es 33,7). Fuori dell’accampamento è dove incontriamo Dio: fuori dell’istituzione, al di fuori delle percezioni e delle credenze culturalmente condizionate… È fuori dell’accampamento, in tutte le Galilee che ci circondano, che scopriamo Gesù nell’altro, in tutti gli stranieri del nostro mondo… Ma questa conoscenza richiede un costo. La Lettera agli Ebrei ci ricorda che “anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (13,12-13). Come Pierre Claverie – vescovo domenicano martirizzato in Algeria a causa del suo impegno per il dialogo, il quale comprese la missione come vivere sulle “linee di frattura” del mondo – anche noi rivendichiamo che proprio qui siamo di casa».

 

Rispetto per l’uomo e per l’azione dello Spirito

 

A partire dal fondamento dato dall’agire stesso del Verbo incarnato, ulteriori apporti hanno permesso di sviluppare gli effetti e le motivazioni di una spiritualità del dialogo fattasi particolarmente feconda a partire dal Vaticano II. «Nell’invito della Chiesa ai suoi fedeli di impegnarsi nel dialogo interreligioso, ha affermato in particolare mons. Felix A. Machado (segretario del pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso), c’è primariamente l’aspetto di una persona religiosa che incontra un’altra persona religiosa. La dimensione religiosa “personale” mi sembra al centro della chiamata della Chiesa al dialogo interreligioso».

Il primo  frutto del dialogo è dunque l’unione tra le persone e di queste con Dio: «Attraverso il dialogo facciamo sì che Dio si renda presente in mezzo a noi, dal  momento che quando ci apriamo al dialogo con gli altri, apriamo noi stessi a Dio» (Giovanni Paolo II, Ai rappresentanti delle varie religioni in India, Madras 1986).

Un altro frutto del dialogo, in un clima di pluralismo culturale e religioso, sarà quello di «stabilire una base sicura per la pace e di allontanare il terribile spettro di quelle guerre di religione che hanno tanto spesso insanguinato la storia umana. Il nome dell’unico Dio deve diventare sempre più quello che è: un nome di pace e un appello alla pace» (Novo millennio ineunte 55).

Perché questi frutti maturino in pienezza, mons. Machado ha ricordato però la necessità di una chiara motivazione teologica (il mistero della Trinità) e antropologica (l’uomo creato a immagine di Dio) che deve soggiacere all’incontro dei cristiani con altre religioni, per evitare le trappole dei nemici del dialogo stesso rappresentati da irenismo, indifferentismo, relativismo, sincretismo o fondamentalismo. A partire da questa coscienza allora, come ha dichiarato il papa nel suo pellegrinaggio in India, «la relazione della Chiesa con le altre religioni è segnata da un duplice rispetto: rispetto per l’uomo nella sua ricerca di risposte alle più profonde domande della vita, e rispetto per l’azione dello Spirito nell’uomo».

È questa consapevolezza che permette di sottolineare quanto l’impegno nel dialogo non sia il risultato di nostre strategie, ma piuttosto sia il lavoro dello Spirito stesso: ecco perché «l’attitudine del discernimento, cioè la scoperta di come lo Spirito opera nelle persone di altre religioni e le chiama a coinvolgersi come cooperatori nella sua azione di salvezza, è necessario per praticare il dialogo interreligioso».

Mons. Machado ha potuto così concludere affermando che l’incontro con le diverse esperienze religiose approfondisce la stessa spiritualità cristiana: «il cristiano che incontra altri credenti non è coinvolto in un’attività marginale alla propria fede. Piuttosto è qualcosa che nasce dalle domande di quella fede. Fiorisce dalla fede ed è nutrito per fede». Incontrarsi a livello di spiritualità enfatizza infatti la dignità di ogni persona, permette di rimanere fedeli alla propria tradizione religiosa e costringe tutti a cercare con più forza il volto di Dio.

 

A partire dalla fiducia reciproca

 

Una spiritualità del dialogo, così delineata e motivata, necessita di una crescita culturale. Come creare allora una cultura di dialogo nei nostri istituti?

Intorno a questa domanda è ruotato l’intervento di p. Thomas Michel, direttore del segretariato per il dialogo interreligioso presso la curia generale dei gesuiti, che ha fondato il suo ragionamento su di un passaggio della Redemptor hominis: «… bisogna applicare ciò che è stato detto all’attività che tende all’avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana, i quali – come ben sappiamo – non mancano neppure ai membri di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane – effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo mistico – possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei principi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? È nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere la certezza della propria fede, ovvero indebolire i principi della morale…(6)».

Questo denso passaggio, impregnato dallo spirito del Vaticano II, è una solida base su cui costruire una cultura del dialogo come espressione molto più ampia di una interazione fra esperti o leader delle varie religioni. I semplici cristiani, e tanto più le religiose e i religiosi, secondo p. Michel, «si devono sentire non costretti a sottili discussioni teologiche, ma chiamati a vivere con rispetto e apertura nei confronti dei loro vicini, a condividere le gioie e le crisi e le pene della vita con gli altri, e a insegnare ai propri figli che Dio ha un grande amore anche per i fedeli musulmani, ebrei, buddisti».

Questo dialogo della vita, animato da una profonda ricerca di fede, implica molto più di una coesistenza pacifica: diventa dialogo di «reciproca testimonianza», con la coscienza che nella vita reale non c’è conflitto tra dialogo e annuncio. Anzi, ha incalzato ancora il padre, «la distinzione di base non è tra una Chiesa in dialogo o una Chiesa che annuncia il Vangelo, ma piuttosto tra una Chiesa che è guidata dallo Spirito a condividere la vita con gli altri, e una Chiesa che è chiusa in se stessa e che si preoccupa poco del coinvolgimento con persone di altre fedi». Quando persone di fedi diverse vivono insieme, non semplicemente coabitando ma condividendo le esperienze, la controversia se venga prima il dialogo o l’annuncio non nasce neppure.

Essenziale comunque, nel far crescere questo clima culturale, è l’esempio di quei gruppi che manifestano disponibilità e apertura all’incontro: sono stati ricordati la Comunità di s. Egidio e il movimento dei Focolarini, la organizzazione buddista Risso Kosei-kai, il movimento musulmano associato al nome dello studioso turco Fethullah Gülen (attivo nella promozione del cosiddetto dialogo “abramitico” tra ebrei, cristiani e musulmani), la Società musulmana americana ora sotto la guida dell’imam Warith Deen Muhammad, i vari movimenti ghandiani in India.

Su queste piste p. Michel ha incoraggiato la VC a fare della cultura del dialogo una caratteristica strutturante della vita degli istituti, sulle orme della Compagnia di Gesù che si pronunciò in tal senso durante la congregazione generale del 1993: «L’eredità gesuita di una risposta creativa alla chiamata dello Spirito nelle concrete situazioni di vita è un incentivo a sviluppare una cultura del dialogo nel nostro approccio ai credenti di altre religioni. Questa cultura del dialogo dovrebbe diventare una caratteristica distintiva della nostra Società, inviata nel mondo per la maggior gloria di Dio e il servizio alle persone».

Ha messo in guardia però sul fatto che questa cultura nasce lentamente ed è soprattutto una questione di cambiamento di atteggiamento e mentalità (non basta scriverla in un documento!). Anche a causa degli errori del passato da parte dei seguaci di altre religioni verso i cristiani, va superato un approccio da dilettanti perché occorre lavorare, soprattutto dove i cristiani sono una minoranza, su un alto livello di sfiducia accumulato. Questo vale anche per le distorsioni e le violenze perpetrate in nome del Vangelo verso le altre religioni. Occorre superare, anche da parte dei religiosi, la sensazione che dialogare significhi in qualche modo entrare in relazione con il nemico o compromettersi con l’errore, nascondere in qualche modo i problemi o insinuare una sorta di sottile proselitismo.

La cultura del dialogo si costruisce dunque con la pazienza, dono dello Spirito, e lanciando ponti di fiducia: dobbiamo convincerci che «non siamo prigionieri del passato, che possiamo vivere insieme e lavorare meglio che in precedenza, che i singoli e le comunità possono cambiare i loro atteggiamenti e, soprattutto, che Dio desidera amore e mutua accettazione e rispetto fra coloro che gli si presentano davanti in obbedienza e adorazione». In fondo è quello che il decreto del Vaticano II Nostra aetate propone di attuare verso i musulmani, per un futuro di reciproca cooperazione nella  comune missione in favore di tutta l’umanità. Così vanno apprezzati gli sforzi di molti istituti, che hanno istituito brevi corsi sulle religioni con cui sono in contatto i propri membri: è un modo per dissolvere pregiudizi, per aprire orizzonti di nuovi stili nell’apostolato. Ma il vero passo in avanti avviene quando la VC riesce a far propria l’affermazione della Redemptoris missio: «Ogni fedele e tutte le comunità cristiane sono chiamate a praticare il dialogo» (57).

 

SFIDE PER LA VITA

CONSACRATA OGGI

 

Poste queste basi, i superiori generali si sono confrontati con le concrete esperienze di dialogo approfondite da sei atelier e riguardanti il monachesimo buddista, l’induismo e lo stile di vita dell’ashram, il contesto multiculturale in occidente, i musulmani, le religioni delle popolazioni indigene di vari continenti, gli ebrei . Si sono evidenziate le grandi ricchezze e le potenzialità già presenti (vedi, tra i tanti esempi, le molteplici attività del gruppo del Dialogo interreligioso monastico, DIM, fondato dai monaci benedettini, trappisti e cistercensi), i cui frutti possono essere sintetizzati efficacemente nelle parole di un maestro giapponese: «Se scaveremo abbastanza a fondo nelle nostre tradizioni troveremo l’acqua viva. La tradizione monastica cristiana scava molto profondo e così fa la tradizione zen: a quel livello profondo ci potremo incontrare, anche se i due pozzi saranno paralleli».

 

Missione centrata sul dialogo interculturale

 

In questo spirito, possiamo dire sinteticamente che dagli atelier è scaturito un approfondimento dei due essenziali presupposti del dialogo interreligioso già illustrati: la relazione tra le persone prima che tra i sistemi dottrinali e il dialogo che coinvolge l’intera cultura di un popolo. Si è ribadito, dalle diverse angolature, che il dialogo a livello interreligioso è sempre anche dialogo interculturale: un principio fattosi strada oggi nel movimento missionario e che è stato fondamentale per superare una evangelizzazione intesa come sinonimo di civilizzazione europea.

Questa nuova visione della missione – che impegna ancora molte congregazioni religiose a passare dalla logica del confronto a quella del dialogo verso i seguaci di altre religioni (viste fino a poco tempo addietro come un cocktail di idolatria o superstizione più che “semi del Verbo”!) – si basa su tre elementi: l’affermazione della presenza e dell’azione dello Spirito anche “al di fuori” della Chiesa, il riconoscimento delle diversità culturali e l’affermazione del dialogo come componente essenziale della missione.

Si tratta del rinnovamento assunto e rilanciato dal Vaticano II, che ha inserito la missione della Chiesa nel contesto della missione di Dio: la missione ecclesiale è partecipazione alla missione divina che abbraccia il mondo con il suo amore. Rispondere a questa missione significa entrare nell’opera dello Spirito presente in posti e modalità insospettabili: si tratta di cogliere quella partecipazione delle persone al mistero pasquale che si realizza esattamente nei modi che non immaginiamo.

Il primo compito del missionario nel tempo della globalizzazione è dunque quello di condividere la vita e di discernere come lo Spirito è presente tra soggetti di altre religioni e culture (ma anche nell’esistenza dell’uomo secolarizzato): la missione diviene arte della contemplazione con un “cuore” costituito proprio dalla capacità di relazione e di dialogo; e lo stile apostolico del futuro consisterà anche e soprattutto nell’identificare quali siano le istanze generative di una particolare cultura (cf. Paulo Freire), al fine di rispondere ai bisogni profondi della gente non in modo decorativo ma creativo.

 

Livelli del dialogo

 

Situato dunque il dialogo interreligioso in questo nuovo paradigma ecclesiologico e missiologico, la sezione finale dell’assemblea si è dedicata alle sfide che la VC deve affrontare oggi e quindi alla riscoperta del suo specifico apporto nel dialogo interreligioso.

Un primo apporto è emerso dalla relazione di p. Glen Lewandowski, superiore generale dei Canonici regolari dell’ordine della Santa Croce (i crocigeri nascono nel medioevo, in linea con il modello conventuale della vita consacrata più che con quello apostolico o quello pienamente monastico), che è partito dalle concrete esperienze della sua congregazione in Indonesia: «Il dialogo interreligioso, per i religiosi, diventa una sfida a portare nel dialogo stesso lo specifico di una vocazione che si realizza nel vivere solo per Dio. La conversazione con i fedeli di altra religione, a livello di esperienza religiosa vissuta, ci conduce nel cuore della vita consacrata stessa… Il dialogo interreligioso sfida la nostra fedeltà all’identità religiosa e ai valori più profondi del nostro carisma».

«Nella tradizione “conventuale” della vita religiosa, ha aggiunto, il contributo più consistente che portiamo è la competenza nella vita comunitaria… Alla luce del carisma di costruire comunità, non conta tanto l’uniformità o l’apparente armonia quanto la stima per i contributi di ognuno. Nel corso di una ricercata inculturazione abbiamo imparato che il retroterra culturale e sociale è la risorsa più positiva in una comunità multiculturale. In questo contesto il dialogo interreligioso ci spinge anche oltre le abitudini confortevoli e i prevedibili atteggiamenti verso nuove diversità e prospettive contrastanti. Il dialogo può aprire il nostro personale fondamentalismo, aprendoci a un futuro non ancora in essere invece di aggrapparci alle sicurezze del passato. Gli antichi ordini, con più lunghe tradizioni, hanno bisogno di ricordare di tener vive le stesse tradizioni in modo creativo… E possiamo così anche chiedere scusa per i peccati di fanatismo e di forzato proselitismo, di propaganda violenta e serpeggiante, per la paura istillate e per le profanazioni ispirate».

Su questa stessa linea, d. Notker Wolf osb, sulla base dell’esperienza del dialogo interreligioso a livello monastico avviato in molte parti del mondo, si è detto convinto che ogni ordine quando si lascia plasmare da una spiritualità del dialogo può portare un contributo in direzione de «la coesistenza di religioni e culture».

 

Dialogo e ruolo della donna

 

Sr. Christianne Mégarbané, superiora generale delle Francescane missionarie di Maria, ha mostrato come il ruolo della donna stia assumendo peso e ampiezza sempre maggiori anche in tema di dialogo interreligioso. Lo ha fatto alla luce dell’ispirazione originaria della propria fondatrice (curare i malati senza distinzione di religione, cercando di far nascere una stima verso il cristianesimo) e nella consapevolezza che – proprio nelle zone in cui il cristianesimo patisce in situazione di minoranza – le religiose possono contare su una buona accoglienza.

In particolare per la vita consacrata femminile, tra le possibili forme di dialogo interreligioso, appare più consona quella del dialogo della vita, attraverso il quale (se la  consacrazione è vissuta in coerenza e letizia) si suscitano negli interlocutori, anche musulmani, interrogativi profondi sul perché di una vita vissuta in castità, preghiera e condivisione.

Dopo aver evidenziato che ormai il dialogo interreligioso è fenomeno globale, dal momento che le migrazioni spingono il mondo ad assumere la fisionomia di una vasta società multiculturale, ha sottolineato il rischio insito nell’attuale commistione tra nazionalismi, fondamentalismi e ricorso alla violenza. Proprio per questo le consacrate sono chiamate a testimoniare che il dialogo è possibile nei luoghi di conflitto (vedi l’esperienza della chiesa d’Algeria, di certe chiese locali in India in cui si è fatta l’opzione di rimanere per condividere le sofferenze della gente) e a far evolvere il clima di competizione proselitistica verso un clima di collaborazione e rispetto reciproco (vedi alcune esperienze in Marocco e Corea). 

Sr. Mégarbané ha quindi sottolineato che «l’incontro con l’altro diverso non è spontaneo. Bisogna volerlo, prendendo l’iniziativa, a volte senza sapere dove ci potrà condurre. è una missione che oggi non è sempre compresa... Vivere il dialogo della vita in quanto donne di Vangelo, discepole di Cristo è andare con Lui verso l’altro, colui che è diverso, per meravigliarsi della fede del centurione romano, lasciarsi trasformare dall’umiltà della donna cananea, aprirsi all’incontro con la samaritana per diventare come lui accoglienza, dialogo e dono».

Ma questo è possibile se il dialogo diventa una priorità che integra la missione e se viene prima di far funzionare le proprie opere o adempiere ai propri doveri a discapito della conoscenza dell’altro e della fede che lo anima: «La nostra vita consacrata, i nostri voti, benché non siano sempre dei segni, sono accolti con un grande rispetto. Le reazioni ci meravigliano e ci invitano ad andare più lontano della verità della nostra donazione. I musulmani sono molto sensibili a una vita dedicata a Dio. “Perché non sei sposata, ma suora?”. Una domanda che esprime l’incomprensione, la difficoltà di credere in questo genere di vita e perfino il rifiuto di questo genere di vita. “Suora, il Corano dice che bisogna essere sposate”. Il fatto di vivere “con” loro permette loro di scoprire il senso profondo del perché tu hai lasciato la tua famiglia, i tuoi genitori, il tuo paese e di andare al cuore della nostra vita, della nostra consacrazione, della nostra offerta. “Capisco la mia suora, tu sei come una candela che si consuma per gli altri avendo la luce”».

Questa testimonianza diventa ancor più importante se completata dalla presenza di comunità fraterne composte di religiose di varie nazionalità e razze: soprattutto in zone di conflitto (Medio oriente, Sri Lanka) diventano un mezzo concreto per annunciare l’avvento di un Regno in cui tutti i popoli vivranno riconciliati.

 

Formazione al dialogo interreligioso

 

Un dialogo che, come si è visto, è parte del DNA come consacrate/i non può non alimentare una riflessione profonda su come possa diventare motore e contenuto della formazione, uscendo da logiche di improvvisazione.

P. José Rodriguez Carballo ofm  – dopo aver indicato, nello spirito che ha permeato l’esistenza e l’esperienza di san Francesco d’Assisi, i pilastri del dialogo interreligioso: la testimonianza della vita, l’ascolto e il rispetto, l’annuncio di Gesù come “via, verità e vita”, la preparazione adeguata – ha illustrato le sfide per tale formazione in alcuni ambiti del dialogo interreligioso stesso: la pace, la rivelazione, l’incontro con l’altro, la maturazione dell’identità, la kenosi del Dio cristiano.

Ha fatto sua l’affermazione di Hans Küng: «Non può esserci pace fra le nazioni senza pace tra le religioni. Non può esserci pace tra le religioni senza dialogo fra le religioni. Non può esserci dialogo fra le religioni senza ricerca del fondamento teologico». Da qui nasce la necessità di formarsi come uomini e donne che vivono dentro una storia, che sappiano interpretare l’uomo, il mondo e le relative riflessioni filosofico-teologiche: «i temi della pace e del futuro del mondo devono ormai essere considerati come veri e propri capitoli di una teologia dell’uomo e della creazione». Perciò, ha aggiunto p. Carballo, «formarsi a una mentalità di dialogo è la sola via che può condurre a un serio approfondimento del concetto di etica globale, in cui cercare di coniugare le risorse morali di tutte le religioni con le esigenze etiche secolari… in questo senso il dialogo interreligioso potrebbe contribuire a umanizzare il fenomeno della globalizzazione, a fronte della legge spietata del mercato e del profitto a tutti i costi».

In secondo luogo – dal momento che il dialogo interreligioso avviene tra persone già legate le une con le altre nel regno di Dio inaugurato nella storia in Gesù Cristo e che le religioni possono essere considerate come dei tentativi di ricerca del vero Dio da parte degli uomini di buona volontà – negli itinerari formativi occorrerà offrire strumenti perché la fede possa vivere in costante apertura verso la storia e la cultura, perché l’evangelizzazione sia vissuta in spirito di continuo rinnovamento, perché si coltivi l’attitudine all’ascolto, al rispetto e all’accoglienza del bene che vive in ogni creatura.

E ancora, affinché l’approfondimento del dialogo interreligioso non scada negli estremi del relativismo o del fondamentalismo, l’adesione alla propria fede e l’apertura all’altro devono essere messi in relazione fra di loro. La sfida che si pone al cristianesimo, che sta o cade con la convinzione che Gesù Cristo sia il salvatore di ogni persona, è infatti la possibilità che esso sia capace di intendere coerentemente il Cristo dentro la nuova consapevolezza religiosa e culturale. «La strada sembra quella di una cristologia che ponga nel Cristo la capacità di una relazione universale, che non distrugge e non assorbe l’alterità religiosa, ma la colloca positivamente. La grande sfida della teologia cristiana ritorna a essere una nuova comprensione del Cristo… È necessario che la formazione si realizzi come una effettiva iniziazione e mistagogia alla confessione di Gesù Cristo Salvatore, così che questa diventi il cuore dell’opzione vocazionale».

Come si vede, il tema del dialogo non può non richiamare quello dell’identità, poiché la persona è in un cammino continuo di crescita e di trasformazione nella relazione con l’altro da sé. Allora «la pratica del dialogo interreligioso può essere un capitolo di quello sviluppo integrale che è l’obiettivo della formazione nel suo accompagnare la persona verso la scoperta, la riappropriazione e la crescita della propria identità nel flusso della storia».

In ultimo, va detto che è l’approfondimento della dimensione di abbassamento (kenosi) del Dio che si rivela in Gesù Cristo a porre la condizione per il rapporto con il diverso da sé: l’essere del cristiano non ha consistenza infatti che nel suo essere-per-gli-altri. Riconoscere l’altro nella sua differenza e riconoscere il limite che esso ci impone è la logica stessa di un’esistenza pasquale. «Nella formazione, ha concluso allora p. Carballo, si dovrà avere cura di creare una cultura di accoglienza e di ospitalità… È dunque necessario operare il superamento di modelli formativi basati sul concetto di perfezione individuale e di oggettività sacrale, a favore di modelli fondati sui concetti di incontro e dialogo. La formazione avrà come compito quello di stimolare e invogliare a uscire dal proprio ambito sociale, a lasciare le sicurezze della propria tradizione culturale, per poter incontrare con fede e nella fede l’altro da sé e al tempo stesso mostrare come proprio in questo lasciare se stessi, in questo continuo cammino di kenosi verso lo straniero, la persona realizza il proprio essere e la propria vocazione».

 

Mario Chiaro 

 

1 L’assemblea è stata orientata da tre relazioni iniziali: “Il dialogo interreligioso nella vita cristiana oggi” (p. Chris McVey op), “La spiritualità su cui poggia  tutto il movimento e la riflessione sul dialogo religioso, oggi” (mons. Félix Machado), “Come creare la cultura del dialogo: metodologia del dialogo interreligioso. Conseguenze per le comunità religiose” (p. Thomas Michel sj).

2 A questo proposito rimandiamo alle acute intuizioni dello stesso p. Geffrè, riportate nello Speciale di Testimoni  18/2003 dedicato proprio al dialogo interreligioso (pp. 24-29).

3 Gli atelier sono stati condotti rispettivamente da p. Andrea Pantaloni osb, p. Alexander Thannippara cmi, prof.ssa Paola Pizzo della Comunità di Sant’Egidio, p. Thomas Michel sj, p. Michel McCabe sma, sr. Marta Bauchwitz nds.