I CONSACRATI E IL DIALOGO
INTERRELIGIOSO
A CASA IN OGNI CULTURA
Per i consacrati la via del dialogo non sta nelle sottili
discussioni teologiche, ma nel vivere con rispetto e apertura accanto all’uomo,
condividendone le gioie, le crisi e le pene. Un dialogo della vita, animato da
una profonda ricerca di fede, fatto di reciproca testimonianza.
Dopo l’assemblea nel maggio
2003 (Il religioso, uomo di dialogo nella Chiesa e con la Chiesa), il 63°
appuntamento semestrale dell’Unione superiori generali si è occupato del
dialogo interreligioso (Il dialogo interreligioso, compito prioritario della
vita consacrata; Roma, 26-29/11/2003).
L’assemblea – alla luce
delle chiare indicazioni contenute in Vita consecrata: «Dal momento che “il
dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”,
gli istituti di vita consacrata non possono esimersi dall’impegnarsi anche in
questo campo, ciascuno secondo il proprio carisma… Questi e altri impegni delle
persone consacrate a servizio del dialogo interreligioso esigono una adeguata
preparazione nella formazione iniziale e nella formazione permanente, come pure
nello studio e nella ricerca, dal momento che in questo non facile settore
occorre profonda conoscenza del cristianesimo e delle altre religioni,
accompagnata da fede solida e da maturità spirituale ed umana» (102) – si è
proposta di studiare le implicazioni che questa opzione comporta per il modo di
vivere la spiritualità e la vita di comunione, la formazione e i compiti pastorali
della VC stessa.
SPIRITUALITÀ
E CULTURA DEL DIALOGO
Fratel Álvaro R. Echeverria
fsc, presidente riconfermato dell’USG, dopo aver ricordato le quattro classiche
dimensioni del dialogo interreligioso (riguardanti la vita, le opere, gli
scambi teologici e l’esperienza religiosa; (cf. il documento vaticano Dialogo e
annuncio del 1991), ha suggerito di concentrarsi sul livello della condivisione
quotidiana della vita e della specifica esperienza di Dio dal momento che «la
vita religiosa non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa, ma appartiene
alla sua vita e alla sua santità (LG 44)».
«Per noi cristiani, ha
affermato, le ragioni più profonde del dialogo interreligioso si trovano nel
Vangelo e nell’insegnamento, nella libertà e nella prassi di Gesù. Per lui il
comandamento fondamentale è quello di amare Dio e il prossimo. Dopo di lui, alla
fine della vita saremo giudicati sull’amore (cf. Mt 25). Il dialogo dunque ci
deve portare a costruire un mondo in cui tutti possano sentirsi figli di Dio,
fratelli e sorelle, al di là delle differenze religiose, e in cui si dia
un’attenzione particolare ai poveri e ai sofferenti. In una parola, a costruire
insieme il regno di Dio partendo da accoglienza, perdono, umiltà, prossimità,
tenerezza».
In questo senso il dialogo
interreligioso, accomunando le persone in un processo di vera e propria
purificazione, apre a enormi prospettive: facilita l’inculturazione, promuove
la pace e la non violenza, stimola alla solidarietà e all’impegno per un ordine
internazionale più giusto, difende la vita umana e la natura, diventa
testimonianza di valori trascendenti e morali.
Essere fuori
dell’accampamento
Su questa linea p. Chris McVey (consigliere incaricato del
dialogo interreligioso presso la curia dei domenicani) ha insistito sul fatto
che oggi è proprio l’incontro con persone di fedi diverse che ci apre a una nuova
comprensione dei fondamenti della VC. «La sfida del pluralismo religioso ci
invita a tornare al cuore del paradosso cristiano di una religione dell’incarnazione
e della kenosi di Dio». Citando il confratello teologo Claude Geffré, il quale
descrive la natura del cristianesimo come essenzialmente dialogica e che
consente e suppone l’altro da sé , p. McVey ha invitato a raccogliere la sfida
di una identità che si realizza nella relazione, di un’etica che precede la
metafisica, del buono che è prioritario rispetto al vero: «Questo essere per
gli altri è ciò a cui sono chiamati i religiosi, “essere per gli altri” che
sono carne e sangue, donne e uomini, non solo “idee”… la nostra vera identità
come cristiani e come religiosi dipende dalla dinamica di attenzione e
responsabilità verso gli altri. I nostri voti ci liberano precisamente per
questo compito. Siamo liberi di attraversare il mondo degli altri, liberi di
attraversare confini, liberi di andare oltre la nostra eredità di fede per
entrare nel mistero che è il vero cuore della fede».
Così il “rischiare Cristo
per amore di Cristo” ci fa recuperare l’originalità del cristianesimo, che
consiste nell’essere non tanto una “religione” ma la “imprevedibile potenza del
Vangelo”: «qui troviamo la possibilità della sua capacità di vera incarnazione,
di sentirsi a casa, in ogni cultura, con ogni religione e mai in competizione».
Ci fa anche recuperare il senso originario dell’essere Chiesa: infatti per il
gruppo dei discepoli, riconosciuto come una “compagnia di stranieri” gli uni
agli altri, Gesù arriva a offrire se stesso rivelando così che solo una
comunità aperta all’alterità diventa strumento del Regno.
Gesù è infatti colui che
viene da fuori dell’accampamento, colui che si mette al servizio di coloro che
vivono fuori dell’accampamento e dice ai discepoli che lì sempre lo troveranno.
«Le nostre vite come religiosi, ha concluso il padre domenicano, iniziano
“fuori dell’accampamento” (Es 33,7). Fuori dell’accampamento è dove incontriamo
Dio: fuori dell’istituzione, al di fuori delle percezioni e delle credenze
culturalmente condizionate… È fuori dell’accampamento, in tutte le Galilee che
ci circondano, che scopriamo Gesù nell’altro, in tutti gli stranieri del nostro
mondo… Ma questa conoscenza richiede un costo. La Lettera agli Ebrei ci ricorda
che “anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori
della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo
verso di lui, portando il suo obbrobrio” (13,12-13). Come Pierre Claverie –
vescovo domenicano martirizzato in Algeria a causa del suo impegno per il
dialogo, il quale comprese la missione come vivere sulle “linee di frattura”
del mondo – anche noi rivendichiamo che proprio qui siamo di casa».
Rispetto per l’uomo e per
l’azione dello Spirito
A partire dal fondamento
dato dall’agire stesso del Verbo incarnato, ulteriori apporti hanno permesso di
sviluppare gli effetti e le motivazioni di una spiritualità del dialogo fattasi
particolarmente feconda a partire dal Vaticano II. «Nell’invito della Chiesa ai
suoi fedeli di impegnarsi nel dialogo interreligioso, ha affermato in
particolare mons. Felix A. Machado (segretario del pontificio Consiglio per il
dialogo interreligioso), c’è primariamente l’aspetto di una persona religiosa
che incontra un’altra persona religiosa. La dimensione religiosa “personale” mi
sembra al centro della chiamata della Chiesa al dialogo interreligioso».
Il primo frutto del dialogo è dunque l’unione tra le
persone e di queste con Dio: «Attraverso il dialogo facciamo sì che Dio si
renda presente in mezzo a noi, dal
momento che quando ci apriamo al dialogo con gli altri, apriamo noi
stessi a Dio» (Giovanni Paolo II, Ai rappresentanti delle varie religioni in
India, Madras 1986).
Un altro frutto del
dialogo, in un clima di pluralismo culturale e religioso, sarà quello di
«stabilire una base sicura per la pace e di allontanare il terribile spettro di
quelle guerre di religione che hanno tanto spesso insanguinato la storia umana.
Il nome dell’unico Dio deve diventare sempre più quello che è: un nome di pace
e un appello alla pace» (Novo millennio ineunte 55).
Perché questi frutti
maturino in pienezza, mons. Machado ha ricordato però la necessità di una
chiara motivazione teologica (il mistero della Trinità) e antropologica (l’uomo
creato a immagine di Dio) che deve soggiacere all’incontro dei cristiani con
altre religioni, per evitare le trappole dei nemici del dialogo stesso
rappresentati da irenismo, indifferentismo, relativismo, sincretismo o
fondamentalismo. A partire da questa coscienza allora, come ha dichiarato il
papa nel suo pellegrinaggio in India, «la relazione della Chiesa con le altre
religioni è segnata da un duplice rispetto: rispetto per l’uomo nella sua
ricerca di risposte alle più profonde domande della vita, e rispetto per
l’azione dello Spirito nell’uomo».
È questa consapevolezza che
permette di sottolineare quanto l’impegno nel dialogo non sia il risultato di
nostre strategie, ma piuttosto sia il lavoro dello Spirito stesso: ecco perché
«l’attitudine del discernimento, cioè la scoperta di come lo Spirito opera
nelle persone di altre religioni e le chiama a coinvolgersi come cooperatori
nella sua azione di salvezza, è necessario per praticare il dialogo
interreligioso».
Mons. Machado ha potuto
così concludere affermando che l’incontro con le diverse esperienze religiose
approfondisce la stessa spiritualità cristiana: «il cristiano che incontra
altri credenti non è coinvolto in un’attività marginale alla propria fede. Piuttosto
è qualcosa che nasce dalle domande di quella fede. Fiorisce dalla fede ed è
nutrito per fede». Incontrarsi a livello di spiritualità enfatizza infatti la
dignità di ogni persona, permette di rimanere fedeli alla propria tradizione
religiosa e costringe tutti a cercare con più forza il volto di Dio.
A partire dalla fiducia
reciproca
Una spiritualità del
dialogo, così delineata e motivata, necessita di una crescita culturale. Come
creare allora una cultura di dialogo nei nostri istituti?
Intorno a questa domanda è
ruotato l’intervento di p. Thomas Michel, direttore del segretariato per il
dialogo interreligioso presso la curia generale dei gesuiti, che ha fondato il
suo ragionamento su di un passaggio della Redemptor hominis: «… bisogna
applicare ciò che è stato detto all’attività che tende all’avvicinamento con i
rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il
dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della
spiritualità umana, i quali – come ben sappiamo – non mancano neppure ai membri
di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei
seguaci delle religioni non cristiane – effetto anche essa dello Spirito di
verità, operante oltre i confini visibili del Corpo mistico – possa quasi
confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità
rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei
principi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? È nobile
esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a
dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere
la certezza della propria fede, ovvero indebolire i principi della morale…(6)».
Questo denso passaggio,
impregnato dallo spirito del Vaticano II, è una solida base su cui costruire
una cultura del dialogo come espressione molto più ampia di una interazione fra
esperti o leader delle varie religioni. I semplici cristiani, e tanto più le
religiose e i religiosi, secondo p. Michel, «si devono sentire non costretti a
sottili discussioni teologiche, ma chiamati a vivere con rispetto e apertura
nei confronti dei loro vicini, a condividere le gioie e le crisi e le pene
della vita con gli altri, e a insegnare ai propri figli che Dio ha un grande
amore anche per i fedeli musulmani, ebrei, buddisti».
Questo dialogo della vita,
animato da una profonda ricerca di fede, implica molto più di una coesistenza
pacifica: diventa dialogo di «reciproca testimonianza», con la coscienza che
nella vita reale non c’è conflitto tra dialogo e annuncio. Anzi, ha incalzato
ancora il padre, «la distinzione di base non è tra una Chiesa in dialogo o una
Chiesa che annuncia il Vangelo, ma piuttosto tra una Chiesa che è guidata dallo
Spirito a condividere la vita con gli altri, e una Chiesa che è chiusa in se
stessa e che si preoccupa poco del coinvolgimento con persone di altre fedi».
Quando persone di fedi diverse vivono insieme, non semplicemente coabitando ma
condividendo le esperienze, la controversia se venga prima il dialogo o
l’annuncio non nasce neppure.
Essenziale comunque, nel
far crescere questo clima culturale, è l’esempio di quei gruppi che manifestano
disponibilità e apertura all’incontro: sono stati ricordati la Comunità di s.
Egidio e il movimento dei Focolarini, la organizzazione buddista Risso
Kosei-kai, il movimento musulmano associato al nome dello studioso turco
Fethullah Gülen (attivo nella promozione del cosiddetto dialogo “abramitico”
tra ebrei, cristiani e musulmani), la Società musulmana americana ora sotto la
guida dell’imam Warith Deen Muhammad, i vari movimenti ghandiani in India.
Su queste piste p. Michel
ha incoraggiato la VC a fare della cultura del dialogo una caratteristica
strutturante della vita degli istituti, sulle orme della Compagnia di Gesù che
si pronunciò in tal senso durante la congregazione generale del 1993:
«L’eredità gesuita di una risposta creativa alla chiamata dello Spirito nelle
concrete situazioni di vita è un incentivo a sviluppare una cultura del dialogo
nel nostro approccio ai credenti di altre religioni. Questa cultura del dialogo
dovrebbe diventare una caratteristica distintiva della nostra Società, inviata
nel mondo per la maggior gloria di Dio e il servizio alle persone».
Ha messo in guardia però
sul fatto che questa cultura nasce lentamente ed è soprattutto una questione di
cambiamento di atteggiamento e mentalità (non basta scriverla in un
documento!). Anche a causa degli errori del passato da parte dei seguaci di
altre religioni verso i cristiani, va superato un approccio da dilettanti
perché occorre lavorare, soprattutto dove i cristiani sono una minoranza, su un
alto livello di sfiducia accumulato. Questo vale anche per le distorsioni e le
violenze perpetrate in nome del Vangelo verso le altre religioni. Occorre
superare, anche da parte dei religiosi, la sensazione che dialogare significhi
in qualche modo entrare in relazione con il nemico o compromettersi con
l’errore, nascondere in qualche modo i problemi o insinuare una sorta di
sottile proselitismo.
La cultura del dialogo si
costruisce dunque con la pazienza, dono dello Spirito, e lanciando ponti di
fiducia: dobbiamo convincerci che «non siamo prigionieri del passato, che
possiamo vivere insieme e lavorare meglio che in precedenza, che i singoli e le
comunità possono cambiare i loro atteggiamenti e, soprattutto, che Dio desidera
amore e mutua accettazione e rispetto fra coloro che gli si presentano davanti
in obbedienza e adorazione». In fondo è quello che il decreto del Vaticano II
Nostra aetate propone di attuare verso i musulmani, per un futuro di reciproca
cooperazione nella comune missione in
favore di tutta l’umanità. Così vanno apprezzati gli sforzi di molti istituti,
che hanno istituito brevi corsi sulle religioni con cui sono in contatto i
propri membri: è un modo per dissolvere pregiudizi, per aprire orizzonti di
nuovi stili nell’apostolato. Ma il vero passo in avanti avviene quando la VC
riesce a far propria l’affermazione della Redemptoris missio: «Ogni fedele e
tutte le comunità cristiane sono chiamate a praticare il dialogo» (57).
SFIDE PER LA VITA
CONSACRATA OGGI
Poste queste basi, i
superiori generali si sono confrontati con le concrete esperienze di dialogo
approfondite da sei atelier e riguardanti il monachesimo buddista, l’induismo e
lo stile di vita dell’ashram, il contesto multiculturale in occidente, i
musulmani, le religioni delle popolazioni indigene di vari continenti, gli
ebrei . Si sono evidenziate le grandi ricchezze e le potenzialità già presenti
(vedi, tra i tanti esempi, le molteplici attività del gruppo del Dialogo
interreligioso monastico, DIM, fondato dai monaci benedettini, trappisti e
cistercensi), i cui frutti possono essere sintetizzati efficacemente nelle
parole di un maestro giapponese: «Se scaveremo abbastanza a fondo nelle nostre
tradizioni troveremo l’acqua viva. La tradizione monastica cristiana scava
molto profondo e così fa la tradizione zen: a quel livello profondo ci potremo
incontrare, anche se i due pozzi saranno paralleli».
Missione centrata sul
dialogo interculturale
In questo spirito, possiamo
dire sinteticamente che dagli atelier è scaturito un approfondimento dei due
essenziali presupposti del dialogo interreligioso già illustrati: la relazione
tra le persone prima che tra i sistemi dottrinali e il dialogo che coinvolge
l’intera cultura di un popolo. Si è ribadito, dalle diverse angolature, che il
dialogo a livello interreligioso è sempre anche dialogo interculturale: un
principio fattosi strada oggi nel movimento missionario e che è stato
fondamentale per superare una evangelizzazione intesa come sinonimo di
civilizzazione europea.
Questa nuova visione della
missione – che impegna ancora molte congregazioni religiose a passare dalla
logica del confronto a quella del dialogo verso i seguaci di altre religioni
(viste fino a poco tempo addietro come un cocktail di idolatria o superstizione
più che “semi del Verbo”!) – si basa su tre elementi: l’affermazione della
presenza e dell’azione dello Spirito anche “al di fuori” della Chiesa, il
riconoscimento delle diversità culturali e l’affermazione del dialogo come
componente essenziale della missione.
Si tratta del rinnovamento
assunto e rilanciato dal Vaticano II, che ha inserito la missione della Chiesa
nel contesto della missione di Dio: la missione ecclesiale è partecipazione
alla missione divina che abbraccia il mondo con il suo amore. Rispondere a
questa missione significa entrare nell’opera dello Spirito presente in posti e
modalità insospettabili: si tratta di cogliere quella partecipazione delle
persone al mistero pasquale che si realizza esattamente nei modi che non
immaginiamo.
Il primo compito del
missionario nel tempo della globalizzazione è dunque quello di condividere la
vita e di discernere come lo Spirito è presente tra soggetti di altre religioni
e culture (ma anche nell’esistenza dell’uomo secolarizzato): la missione
diviene arte della contemplazione con un “cuore” costituito proprio dalla
capacità di relazione e di dialogo; e lo stile apostolico del futuro consisterà
anche e soprattutto nell’identificare quali siano le istanze generative di una
particolare cultura (cf. Paulo Freire), al fine di rispondere ai bisogni
profondi della gente non in modo decorativo ma creativo.
Livelli del dialogo
Situato dunque il dialogo
interreligioso in questo nuovo paradigma ecclesiologico e missiologico, la
sezione finale dell’assemblea si è dedicata alle sfide che la VC deve
affrontare oggi e quindi alla riscoperta del suo specifico apporto nel dialogo
interreligioso.
Un primo apporto è emerso
dalla relazione di p. Glen Lewandowski, superiore generale dei Canonici
regolari dell’ordine della Santa Croce (i crocigeri nascono nel medioevo, in
linea con il modello conventuale della vita consacrata più che con quello
apostolico o quello pienamente monastico), che è partito dalle concrete
esperienze della sua congregazione in Indonesia: «Il dialogo interreligioso,
per i religiosi, diventa una sfida a portare nel dialogo stesso lo specifico di
una vocazione che si realizza nel vivere solo per Dio. La conversazione con i
fedeli di altra religione, a livello di esperienza religiosa vissuta, ci
conduce nel cuore della vita consacrata stessa… Il dialogo interreligioso sfida
la nostra fedeltà all’identità religiosa e ai valori più profondi del nostro
carisma».
«Nella tradizione
“conventuale” della vita religiosa, ha aggiunto, il contributo più consistente
che portiamo è la competenza nella vita comunitaria… Alla luce del carisma di
costruire comunità, non conta tanto l’uniformità o l’apparente armonia quanto la
stima per i contributi di ognuno. Nel corso di una ricercata inculturazione
abbiamo imparato che il retroterra culturale e sociale è la risorsa più
positiva in una comunità multiculturale. In questo contesto il dialogo
interreligioso ci spinge anche oltre le abitudini confortevoli e i prevedibili
atteggiamenti verso nuove diversità e prospettive contrastanti. Il dialogo può
aprire il nostro personale fondamentalismo, aprendoci a un futuro non ancora in
essere invece di aggrapparci alle sicurezze del passato. Gli antichi ordini,
con più lunghe tradizioni, hanno bisogno di ricordare di tener vive le stesse
tradizioni in modo creativo… E possiamo così anche chiedere scusa per i peccati
di fanatismo e di forzato proselitismo, di propaganda violenta e serpeggiante,
per la paura istillate e per le profanazioni ispirate».
Su questa stessa linea, d.
Notker Wolf osb, sulla base dell’esperienza del dialogo interreligioso a
livello monastico avviato in molte parti del mondo, si è detto convinto che
ogni ordine quando si lascia plasmare da una spiritualità del dialogo può portare
un contributo in direzione de «la coesistenza di religioni e culture».
Dialogo e ruolo della donna
Sr. Christianne Mégarbané,
superiora generale delle Francescane missionarie di Maria, ha mostrato come il
ruolo della donna stia assumendo peso e ampiezza sempre maggiori anche in tema
di dialogo interreligioso. Lo ha fatto alla luce dell’ispirazione originaria
della propria fondatrice (curare i malati senza distinzione di religione,
cercando di far nascere una stima verso il cristianesimo) e nella
consapevolezza che – proprio nelle zone in cui il cristianesimo patisce in
situazione di minoranza – le religiose possono contare su una buona
accoglienza.
In particolare per la vita
consacrata femminile, tra le possibili forme di dialogo interreligioso, appare
più consona quella del dialogo della vita, attraverso il quale (se la consacrazione è vissuta in coerenza e letizia)
si suscitano negli interlocutori, anche musulmani, interrogativi profondi sul
perché di una vita vissuta in castità, preghiera e condivisione.
Dopo aver evidenziato che
ormai il dialogo interreligioso è fenomeno globale, dal momento che le
migrazioni spingono il mondo ad assumere la fisionomia di una vasta società
multiculturale, ha sottolineato il rischio insito nell’attuale commistione tra
nazionalismi, fondamentalismi e ricorso alla violenza. Proprio per questo le
consacrate sono chiamate a testimoniare che il dialogo è possibile nei luoghi
di conflitto (vedi l’esperienza della chiesa d’Algeria, di certe chiese locali
in India in cui si è fatta l’opzione di rimanere per condividere le sofferenze
della gente) e a far evolvere il clima di competizione proselitistica verso un
clima di collaborazione e rispetto reciproco (vedi alcune esperienze in Marocco
e Corea).
Sr. Mégarbané ha quindi
sottolineato che «l’incontro con l’altro diverso non è spontaneo. Bisogna
volerlo, prendendo l’iniziativa, a volte senza sapere dove ci potrà condurre. è
una missione che oggi non è sempre compresa... Vivere il dialogo della vita in
quanto donne di Vangelo, discepole di Cristo è andare con Lui verso l’altro,
colui che è diverso, per meravigliarsi della fede del centurione romano,
lasciarsi trasformare dall’umiltà della donna cananea, aprirsi all’incontro con
la samaritana per diventare come lui accoglienza, dialogo e dono».
Ma questo è possibile se il
dialogo diventa una priorità che integra la missione e se viene prima di far
funzionare le proprie opere o adempiere ai propri doveri a discapito della
conoscenza dell’altro e della fede che lo anima: «La nostra vita consacrata, i
nostri voti, benché non siano sempre dei segni, sono accolti con un grande
rispetto. Le reazioni ci meravigliano e ci invitano ad andare più lontano della
verità della nostra donazione. I musulmani sono molto sensibili a una vita
dedicata a Dio. “Perché non sei sposata, ma suora?”. Una domanda che esprime
l’incomprensione, la difficoltà di credere in questo genere di vita e perfino
il rifiuto di questo genere di vita. “Suora, il Corano dice che bisogna essere
sposate”. Il fatto di vivere “con” loro permette loro di scoprire il senso
profondo del perché tu hai lasciato la tua famiglia, i tuoi genitori, il tuo paese
e di andare al cuore della nostra vita, della nostra consacrazione, della
nostra offerta. “Capisco la mia suora, tu sei come una candela che si consuma
per gli altri avendo la luce”».
Questa testimonianza
diventa ancor più importante se completata dalla presenza di comunità fraterne
composte di religiose di varie nazionalità e razze: soprattutto in zone di
conflitto (Medio oriente, Sri Lanka) diventano un mezzo concreto per annunciare
l’avvento di un Regno in cui tutti i popoli vivranno riconciliati.
Formazione al dialogo
interreligioso
Un dialogo che, come si è
visto, è parte del DNA come consacrate/i non può non alimentare una riflessione
profonda su come possa diventare motore e contenuto della formazione, uscendo
da logiche di improvvisazione.
P. José Rodriguez Carballo
ofm – dopo aver indicato, nello spirito
che ha permeato l’esistenza e l’esperienza di san Francesco d’Assisi, i
pilastri del dialogo interreligioso: la testimonianza della vita, l’ascolto e
il rispetto, l’annuncio di Gesù come “via, verità e vita”, la preparazione
adeguata – ha illustrato le sfide per tale formazione in alcuni ambiti del
dialogo interreligioso stesso: la pace, la rivelazione, l’incontro con l’altro,
la maturazione dell’identità, la kenosi del Dio cristiano.
Ha fatto sua l’affermazione
di Hans Küng: «Non può esserci pace fra le nazioni senza pace tra le religioni.
Non può esserci pace tra le religioni senza dialogo fra le religioni. Non può
esserci dialogo fra le religioni senza ricerca del fondamento teologico». Da
qui nasce la necessità di formarsi come uomini e donne che vivono dentro una
storia, che sappiano interpretare l’uomo, il mondo e le relative riflessioni
filosofico-teologiche: «i temi della pace e del futuro del mondo devono ormai
essere considerati come veri e propri capitoli di una teologia dell’uomo e
della creazione». Perciò, ha aggiunto p. Carballo, «formarsi a una mentalità di
dialogo è la sola via che può condurre a un serio approfondimento del concetto
di etica globale, in cui cercare di coniugare le risorse morali di tutte le
religioni con le esigenze etiche secolari… in questo senso il dialogo
interreligioso potrebbe contribuire a umanizzare il fenomeno della
globalizzazione, a fronte della legge spietata del mercato e del profitto a
tutti i costi».
In secondo luogo – dal
momento che il dialogo interreligioso avviene tra persone già legate le une con
le altre nel regno di Dio inaugurato nella storia in Gesù Cristo e che le
religioni possono essere considerate come dei tentativi di ricerca del vero Dio
da parte degli uomini di buona volontà – negli itinerari formativi occorrerà
offrire strumenti perché la fede possa vivere in costante apertura verso la
storia e la cultura, perché l’evangelizzazione sia vissuta in spirito di
continuo rinnovamento, perché si coltivi l’attitudine all’ascolto, al rispetto
e all’accoglienza del bene che vive in ogni creatura.
E ancora, affinché
l’approfondimento del dialogo interreligioso non scada negli estremi del
relativismo o del fondamentalismo, l’adesione alla propria fede e l’apertura
all’altro devono essere messi in relazione fra di loro. La sfida che si pone al
cristianesimo, che sta o cade con la convinzione che Gesù Cristo sia il
salvatore di ogni persona, è infatti la possibilità che esso sia capace di
intendere coerentemente il Cristo dentro la nuova consapevolezza religiosa e
culturale. «La strada sembra quella di una cristologia che ponga nel Cristo la
capacità di una relazione universale, che non distrugge e non assorbe
l’alterità religiosa, ma la colloca positivamente. La grande sfida della
teologia cristiana ritorna a essere una nuova comprensione del Cristo… È
necessario che la formazione si realizzi come una effettiva iniziazione e
mistagogia alla confessione di Gesù Cristo Salvatore, così che questa diventi
il cuore dell’opzione vocazionale».
Come si vede, il tema del
dialogo non può non richiamare quello dell’identità, poiché la persona è in un
cammino continuo di crescita e di trasformazione nella relazione con l’altro da
sé. Allora «la pratica del dialogo interreligioso può essere un capitolo di
quello sviluppo integrale che è l’obiettivo della formazione nel suo
accompagnare la persona verso la scoperta, la riappropriazione e la crescita
della propria identità nel flusso della storia».
In ultimo, va detto che è
l’approfondimento della dimensione di abbassamento (kenosi) del Dio che si
rivela in Gesù Cristo a porre la condizione per il rapporto con il diverso da
sé: l’essere del cristiano non ha consistenza infatti che nel suo essere-per-gli-altri.
Riconoscere l’altro nella sua differenza e riconoscere il limite che esso ci
impone è la logica stessa di un’esistenza pasquale. «Nella formazione, ha
concluso allora p. Carballo, si dovrà avere cura di creare una cultura di
accoglienza e di ospitalità… È dunque necessario operare il superamento di
modelli formativi basati sul concetto di perfezione individuale e di
oggettività sacrale, a favore di modelli fondati sui concetti di incontro e
dialogo. La formazione avrà come compito quello di stimolare e invogliare a
uscire dal proprio ambito sociale, a lasciare le sicurezze della propria
tradizione culturale, per poter incontrare con fede e nella fede l’altro da sé
e al tempo stesso mostrare come proprio in questo lasciare se stessi, in questo
continuo cammino di kenosi verso lo straniero, la persona realizza il proprio
essere e la propria vocazione».
Mario Chiaro
1 L’assemblea è stata
orientata da tre relazioni iniziali: “Il dialogo interreligioso nella vita
cristiana oggi” (p. Chris McVey op), “La spiritualità su cui poggia tutto il movimento e la riflessione sul
dialogo religioso, oggi” (mons. Félix Machado), “Come creare la cultura del
dialogo: metodologia del dialogo interreligioso. Conseguenze per le comunità
religiose” (p. Thomas Michel sj).
2 A questo proposito
rimandiamo alle acute intuizioni dello stesso p. Geffrè, riportate nello
Speciale di Testimoni 18/2003 dedicato
proprio al dialogo interreligioso (pp. 24-29).
3 Gli atelier sono stati
condotti rispettivamente da p. Andrea Pantaloni osb, p. Alexander Thannippara
cmi, prof.ssa Paola Pizzo della Comunità di Sant’Egidio, p. Thomas Michel sj,
p. Michel McCabe sma, sr. Marta Bauchwitz nds.