COMPLETATO IL DIZIONARIO
ISTITUTI DI PERFEZIONE
COME ERA LA “VITA
QUOTIDIANA”
Tra le voci più interessanti dell’ultimo volume del DIP
c’è sicuramente quella sulla vita quotidiana di una comunità monastica o
religiosa: dal confronto si può così comprendere quanto i tempi siano cambiati.
A distanza di trent’anni
dal primo è uscito recentemente l’ultimo volume (X) del dizionario degli
istituti di perfezione delle Paoline, diretto da Giancarlo Rocca.
Giunge così a conclusione
un’opera di straordinaria importanza nella storia degli istituti di vita
consacrata. Anche quest’ultimo volume conferma la validità dell’impianto
complessivo dell’opera; diversamente dai volumi precedenti, si articola in
diverse parti; si apre con le ultime voci del dizionario (dalla V alla Z) e si
conclude con l’indice degli autori e con quello analitico di tutte le voci
dell’opera; tra la prima parte e quella degli indici c’è un’ampia appendice
comprendente, anzitutto, l’abbozzo di una storia della vita religiosa femminile
e poi un’articolata e preziosa serie di dati statistici (dal 1966 al 2000).
Tra le voci più ampie e
significative vanno sicuramente segnalate quelle sulla “visita” (canonica,
apostolica, ecc.), la “vita apostolica”, la “vita attiva, contemplativa, mista”
(con un ampio riferimento al primo monachesimo e a quello medievale
occidentale), la “vita comune” (dall’antichità classica ad oggi), la “vita
quotidiana” (dai padri del deserto a oggi); questa attenzione soprattutto alla
vita quotidiana, è il segno più evidente di un modo diverso, anche più vero,
proprio perché più insolito, di rileggere la storia della vita consacrata. La
vita quotidiana o la quotidianità, annota opportunamente il curatore Giancarlo
Rocca nella introduzione a questa voce, «manifestano dinamismi profondi,
rilevatori di mentalità ed espressione di identità»; anche i religiosi e le
religiose hanno «un corpo che si trova inserito in uno spazio e in un tempo»;
ora, proprio il corpo, lo spazio e il tempo in ogni momento della giornata
pongono esigenze, implicano dei condizionamenti, impongono delle sottomissioni
che nessuno può evitare.
Così, ad esempio, è
interessante conoscere i tempi e i modi
non solo della preghiera, ma anche dell’alimentazione, dell’abbigliamento,
della cura del corpo, del lavoro, del sonno; quando i diversi autori, a cui
sono affidate le varie sezioni di questa voce sulla vita quotidiana, provano a
descrivere «un venerdì di ottobre in un monastero del Maestro», «un venerdì di
novembre presso le monache di Arles», «una giornata nei monasteri
colomboniani», fanno qualcosa di più e di diverso di una semplice esercitazione
accademica. Così, quando A. de Vogüé, ci accompagna in una visita, un giorno di
autunno, in uno dei monasteri che osservavano la regola del Maestro, ubicandolo
concretamente nella regione di Subiaco, nell’epoca in cui abitava san
Benedetto, per aiutarci a capire come si trascorrevano le ultime ore della
notte, quali erano le opere e gli uffici del giorno, come si svolgevano i
preparativi del pasto che seguiva la preghiera comune, come si svolgeva il
pasto e che cosa mangiavano o non potevano mangiare concretamente i monaci, e
così via, l’autore non compie una semplice “visita virtuale” del monastero; ci
aiuta, invece, a comprendere dal vivo quali erano i valori di fondo, i
significati più veri della vita monastica in un determinato periodo storico e
in un determinato contesto ambientale.
IL PIONIERISMO
DEI CISTERCENSI
Per chi è abituato a
rileggere la storia di un istituto religioso partendo dalla vita del fondatore,
dalle costituzioni, da una sintesi della spiritualità e delle opere più
significative, si potrebbe trovare forse a disagio di fronte alla ricostruzione
di questa quotidianità della vita di una comunità religiosa. Una vasta e
importante corrente storiografica francese, quella delle “Annales”, ci ha, da
lungo tempo ormai, aiutato a comprendere l’importanza della cosiddetta “storia
delle mentalità”; è una storia di “lunga durata” ben diversa da quella
ricostruita inseguendo solo i singoli avvenimenti o i personaggi più importanti
di un determinato periodo storico; le mentalità più solide e indistruttibili
sono quelle che si vanno consolidando nella vita di tutti i giorni, soprattutto
quando, al centro di questa vita, c’è una fondamentale ispirazione religiosa.
Ha ragione Rocca
nell’affermare che «oggi è superata la visione che considerava la vita
quotidiana in termini aneddotici, se non derisori, quasi una semplice
curiosità, contentandosi di vederla come una descrizione di fatti, senza
riferimento a una visione globale d’insieme che permetta di comprenderli nel
loro significato». è soprattutto attraverso l’analisi della vita quotidiana che
noi riusciamo a comprendere quelli che gli antropologi culturali chiamano i
“modelli culturali” nella vita di un gruppo, di una comunità, di una
determinata società in un determinato periodo storico. Dovrebbe essere passato
il tempo in cui la vita quotidiana veniva letta soltanto in chiave aneddotica e
non invece alla luce di un significato di fondo all’interno del quale anche i
gesti più apparentemente normali e insignificanti finiscono con il riferirsi a
dei valori di fondo.
Prendiamo il caso dei
cistercensi, la cui quotidianità, scrive A. d’Haenens, ha una sua “specificità
originaria”; in rapporto alle comunità monastiche anteriori, i monaci
cistercensi provengono da ambienti conquistati dalla scrittura, hanno il senso
dell’investimento produttivo, della redditività, del rendimento; investono
sistematicamente in terre nuove, vergini, interdette; occupano spazi
abbandonati, lontani dagli abitati, temuti, proibiti, perché selvaggi; i
cistercensi sono architetti, ingegneri, amministratori, ideologi: «capaci di
astrazione, riescono a mettere a punto modelli che possono essere
generalizzati».
Con la loro capacità di
prendere le distanze dal passato, di fronte ad abitudini, a circostanze
quotidiane elaborate di generazione in generazione, soprattutto per quanto
concerne l’ambiente, l’ornamento, il decoro, scoprono l’estetica e arrivano «a
mettere a punto moduli, particolarmente architetturali, d’una tale efficacia da
essere sistematicamente adottati in tutte le costruzioni dell’ordine, e poi
ripresi da costruttori cittadini». Le esplorazioni pionieristiche delle prime
generazioni cistercensi, in un certo senso, «hanno forgiato la quotidianità
europea, soprattutto urbana». Sono sempre i cistercensi a mettere a punto
strutture idrauliche e procedure di trasformazione energetica «che
permetteranno all’occidente di risolvere i problemi posti dalla sua esplosione
demografica»; la loro architettura punterà su un nuovo tipo di spazializzazione
sociale: un quadrilatero centrale vuoto, fiancheggiato da una serie di spazi
funzionali (chiesa, sala capitolare, refettorio, cantina) attorniati da un
chiostro; questo modello coerente e funzionale verrà poi ripreso centinaia di
volte in tutta Europa, ispirando addirittura diverse piante di città nuove, in
particolar modo nel Baltico (come ad esempio, Lubecca e Stralsund); così non
c’è nulla di strano «nel ritrovare nelle sale consiliari (Ratsaal) una
struttura spaziale, una espressione architettonica che, irresistibilmente,
fanno pensare alle sale capitolari», come, ad esempio, a Colonia.
Con la installazione della
clessidra di Villers nel 1267, si perviene a dei nuovi significati di vita quotidiana: la preoccupazione di vivere un
tempo preciso, estraneo a qualsiasi soggettività; «appare così un tempo nuovo,
non naturale, non sacro, ma razionale, meccanico. Tempo omogeneo, astratto da
qualsiasi circostanza di stagione e di opportunità sociale». Esplorando
l’inusitato con la tecnologia i cistercensi si trasformano in pionieri della
produzione; nel settore rurale producono cereali, frutta, birra e vino; nel
settore dell’allevamento producono ovini, bovini, lane e formaggi; producono
non per sopravvivere, scrive d’Haenens, ma per produrre. La quotidianità dei
certosini, conclude d’Haenens, centrata sul controllo del consumo grazie
all’ascetismo, animata da una dinamica mentale capace di razionalizzare e di
astrarre, dunque di tecnicizzare, prefigura, in termini prototipi, ciò che
trasformerà l’Occidente rurale in una società di conquista, commerciale dapprima,
industriale poi».
Sempre nella prospettiva
della piena valorizzazione della vita quotidiana, vengono presi in
considerazione alcuni aspetti della vita monastica medievale, dall’importanza
fondamentale del rifornimento d’acqua sia per il nutrimento che per l’igiene,
all’uso della parola nella vita quotidiana (fino al XVII secolo, ad esempio,
l’orario quotidiano dei cistercensi non prevedeva la ricreazione), alle diete
monastiche medievali, ben sapendo i tanti significati che vengono attribuiti
dalla cultura monastica alla privazione elementare, alla carne proibita (fino
al compromesso benedettino che mentre proibisce la carne dei quadrupedi,
consente invece il consumo della carne di volatili), alla gastronomia monastica
con tutte le precisazioni sull’uso del pesce, del formaggio, delle uova, dei
legumi e delle verdure, dei cibi solidi, del pane, del vino (di cui Benedetto
non si era sentito di proibirne l’uso: «di questi tempi, diceva, non è
possibile persuadere i monaci del contrario»), alla festa e al lavoro,
all’alimentazione e alla salute, al problema delle razioni, al fatto di
mangiare insieme.
IL CORPO
NELLA VITA QUOTIDIANA
Nei conventi del XIX
sorprende, in modo del tutto particolare, il posto del corpo nella vita
quotidiana delle religiose in Francia. Il corpo, osserva G. Odoardi, è una di
quelle realtà «di cui si parla il meno possibile». Le costituzioni o altri
documenti delle diverse congregazioni «ne parlano solo per dire che bisogna
sottometterlo». Il corpo finisce con il diventare solo un servo da disprezzare,
un pericolo permanente. La sistematizzazione dei comportamenti operata da
alcuni autori spirituali, come Luigi Tronson, uno dei primi direttori della
compagnia di S. Sulpizio, «ha avuto un influsso
duraturo nei seminari su
generazioni di preti e nei conventi sia maschili che femminili», arrivando a
fissare certe immagini stereotipe di religiose ancora presente all’inizio del
XX secolo.
Esiste uno stesso spirito
nei riguardi del corpo nelle diverse congregazioni religiose, siano esse dedite
alla cura degli ammalati o all’educazione dei bambini o all’assistenza dei
poveri; è lo stesso spirito che regna anche «tra i cattolici pii, anzi, un po’
in tutta la società, influenzata dalle congregazioni e da un clero formato secondo queste austere
prospettive». La diffidenza nei riguardi del corpo, considerato come un nemico,
ha veramente impregnato il sec. XIX nella sua concezione della virtù, rendendo
piccanti, nello stesso tempo, le numerose ipocrisie e le trasgressioni. Anche
se se ne parla poco, il corpo comunque «è presente in maniera pesante in tutta
la vita religiosa tramite le disposizioni di cui è fatto oggetto»; e queste
disposizioni solitamente riguardano i pasti, la levata, il riposo, la pulizia e
tanti altri punti precisi che si ritrovano più o meno in tutte le costituzioni;
sono tutti punti che si ritrovano pressoché identici nei manuali di buona
educazione, destinati alle educande; «si trattava di un clima che coinvolgeva
tutto e che in gradi diversi, imponeva a tutti le sue norme. La religiosa
doveva apparire come il modello perfetto».
Basta scorrere gli Examens
particuliers del Tronson per trovare tutte le «regole di modestia dateci dai
santi»; tutte le parti del corpo, in qualche modo, sono chiamate in causa:
dalla testa (che dev’essere tenuta dritta), al volto (con gli occhi sempre un
po’ abbassati), allo sguardo (che non deve girovagare, ma posarsi al suolo, non
guardando mai nessuno in faccia), alla voce (che dev’essere regolata, e non è
mai ammesso il riso), al contegno e alla posizione del corpo (sempre dritto,
mai curvato, mai appoggiandosi ora su un piede ora su un altro, mai tenendo le
mani sui fianchi), al modo di camminare (senza andare mai troppo veloci né
troppo lentamente, salendo i gradini sempre e solo uno per volta).
Solo quando era in gioco il
corpo degli altri, come nel frequente caso dell’assistenza agli ammalati,
allora il corpo da servitore disprezzato, da domare e combattere, diventava
membro sofferente di Cristo, da onorare e confortare. Ma quando invece era in
gioco la propria malattia, per se stesse, nelle sofferenze che la malattia
infliggeva allora, senza paragone con ciò che conosciamo oggi grazie ai
calmanti e ai progressi della medicina, le religiose avevano ampie possibilità
di sviluppare il loro amore della croce, vissuto in unione con quella del
Salvatore in una prospettiva di penitenza
e di redenzione. «Non lamentarsi mai, nascondere tutti i propri mali:
questo era l’ideale, e si sa a quali eccessi potesse condurre».
Angelo Arrighini