MARTIRI 2003

IL LORO SANGUE NON SIA VERSATO INVANO

 

I martiri d’oggi non sono più uccisi a causa della fede, ma perché solidali con le sofferenze dei loro popoli. Sono martiri della carità. Il versamento del loro sangue è un grido rivolto ai potenti affinché mettano fine a situazioni intollerabili le cui vittime sono sempre i più poveri.

 

Con un ritmo che ormai da numerosi anni tende a perpetuarsi, anche il 2003 ha consegnato alla Chiesa il nome di una trentina di martiri: un arcivescovo, 20 sacerdoti tra cui numerosi religiosi, una suora, 3 seminaristi, 2 volontarie laiche e 2 laici. L’ultimo a dare la vita è stata mons. Michael Courtney, nunzio apostolico in Burundi, irlandese, 58 anni, ucciso il 29 dicembre a Minago, a una cinquantina di chilometri dalla capitale Bujumbura.

 

Le aree del martirio sono in gran parte quelle delle cosiddette guerre dimenticate. Al primo posto c’è l’Africa con 18 vittime (6 Uganda, 6 Repubblica democratica del Congo, 1 Camerun, 1 Burundi, 1 Sudafrica, 1 Guinea Equatoriale, 1 Somalia e 1 Kenya). Segue l’America con 10 (6 Colombia, 2 El Salvador, 1 Brasile, 1 Guatemala). Chiude la lista l’Asia con 2 (1 India e 1 Pakistan).

Sono in gran parte le stesse zone geografiche degli anni precedenti, dove continuano a perpetuarsi turbolenze e situazioni di violenza che non si riescono a risanare, anche perché ai margini della grande politica internazionale. Spesso nel mirino sono proprio i sacerdoti, i religiosi e laici, persone che più di ogni altro si propongono come strumenti di pace e di riconciliazione e per questo invise ai signori della guerra. Sono eliminati, non tanto per motivi di fede, come avveniva in altre epoche della storia, ma perché si sono fatti solidali con la gente, immedesimandosi con i loro problemi, lottando contro le malattie e la povertà, dovute spesso a fattori umani, contro ogni forma di ingiustizia e prevaricazione, oppure semplicemente per essersi fatti strumenti di mediazione e di pace; solidali fino a condividere nella morte la tragica sorte di centinaia e migliaia di persone il cui nome non sarà mai conosciuto.

 

IN UNO SCENARIO

DI VIOLENZA

 

Oggi in missione si muore così: lungo una strada, vittime di un agguato o un’imboscata, oppure  in un’aggressione all’interno di locali diocesani o nella propria casa canonica ad opera di banditi e rapinatori o anche per ragioni ben mirate, intese a eliminare personaggi scomodi. Il fenomeno del martirio conferma quanto ha scritto il papa nella Novo millennio ineunte, all’inizio del terzo millennio: «Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po’ lontani, quasi si trattasse di una categoria del passato, legata soprattutto ai primi secoli dell’era cristiana. La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni, che in un modo o nell’altro, hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino a dare la prova suprema del sangue. In loro la parola di Dio, seminata in buon terreno, ha portato il centuplo (cf. Mt 13,8.23). Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme» (41).

Quanto ciò sia vero lo possiamo costatare leggendo le loro testimonianze. Fra le tante possiamo citare quelle di due figure più vicine a noi: di p. Taddeo Gabrieli, cappuccino, originario di Gazzaniga (Bergamo), assassinato in Brasile, nel Maranhao, il 19 luglio scorso (cf. Testimoni 15,2003) e quella della consacrata laica Annalena Tonelli, di Forlì, missionaria in Somalia dove è stata uccisa il 10 ottobre (Testimoni 18,2003).

Padre Taddeo si domandava in una lettera degli inizi degli anni 1980: «Cosa faccio io missionario da 25 anni in questa disumana realtà? Semino speranza nella terra della disperazione. Li aiuto a credere che Dio, Padre comune di tutti, non vuole nessuno escluso dalla partecipazione anche ai beni materiali… Le esclusioni e le eccezioni sono barriere erette non da Dio ma dall’uomo, dal suo egoismo e dalla sua voracità. Credo di far capire che per arrivare a una società giusta e a un’equa spartizione del benessere bisogna cambiare il modo di pensare e di agire dell’uomo… Ci vorranno ancora sofferenze, lacrime, tragedie… Ecco il  mio modo di essere in questa realtà e quello di moltissimi altri missionari».

Ma qualcuno non gradiva questa sua attività. In effetti, «la sua missione – ha scritto di lui mons. Lino Garavaglia, cappuccino, vescovo emerito di Cesena-Sarsina – fu sempre un campo di frontiera; la sua azione pastorale era dentro la storia della sua gente; la croce fu il modello di riferimento centrale della sua azione».

E Annalena Tonelli: «Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio. Partii decisa a gridare il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a farlo fino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo, insieme a una passione da sempre per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato, al di là della razza, della cultura e della fede». È stata uccisa nel pieno della sua attività caritativa. Era stata più volte minacciata e alla fine una mano assassina l’ha colpita.

Una testimonianza altrettanto evangelica ci ha lasciato anche mons. Courtney. «Il nunzio, ha detto di lui il cardinale Francis Arinze, presiedendo il silenne rito funebre, a nome del papa, celebrato nella chiesa di Nenagh, diocesi di Killaloe (Irlanda) il 3 gennaio scorso, predicava l’amore reciproco, la riconciliazione cristiana, l’armonia e l’unità tra le persone. Aveva fatto propria l’esortazione di san Paolo ai corinzi: “Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”» (2 Cor 5,20).

 

L’AFRICA

AL PRIMO POSTO

 

Se guardiamo ora alle aree geografiche dove si sono verificate queste uccisioni, costatiamo che esse corrispondono a zone di sofferenza, dove la violenza è spesso il risultato di situazioni di povertà, corruzione e miseria, di lotte tra gruppi etnici per la conquista del potere o di gruppi criminali dietro ai quali si nascondono spesso interessi colossali, i cui principiali responsabili sono altrove.

Per quanto riguarda anzitutto l’Africa, impressiona, per esempio, leggere i dati diffusi lo scorso 8 luglio dal Rapporto sullo sviluppo umano, elaborati dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP/ PNUD).1 Su 174 paesi presi in considerazione, nell’ultimo gruppo a più basso sviluppo umano figurano 34 paesi che si trovano tutti in questo continente, ad eccezione di quattro, Haiti, Yemen, Pakistan e Nepal.

Quasi tutti questi paesi africani si trovano in una situazione di accentuata instabilità politica, etnica e culturale ed è proprio qui dove più numerosi sono stati gli assassini di sacerdoti, missionari e laici.

In testa troviamo l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo. In Uganda, come si ricorderà, il 1 ottobre 2000 era stato ucciso p. Raffaele di Bari, comboniano. Un assassinio che conferma una logica che continua a ripetersi: era infatti un uomo conosciuto per la sua estrosa simpatia, per la sua generosità e bontà d’animo, una persona che nutriva per la sua gente un amore senza limiti. Per lui l’evangelizzazione camminava insieme allo sviluppo, alla giustizia e alla pace.

Da allora la situazione non è migliorata. Qualche mese fa, tracciando un quadro della situazione del paese, p. Guido Albanese, direttore dell’agenzia missionaria MISNA, scriveva: «La guerra civile che insanguina il nord sta trasformandosi in un lento genocidio delle popolazioni nilotiche che vivono nei distretti di Gulu, Kitgum, Pader, Apac e Lira. Su una popolazione di un milione e 400 mila abitanti, di etnia acholi  e  lango, circa 850 mila sono sfollati e vivono all’addiaccio in condizioni umanitarie disperate per mancanza di cibo e medicinali. A seminare morte e distruzione sono i ribelli del sedicente Esercito di resistenza del Signore (LRA)… La guerriglia (citando padre Elia Pampaloni, parroco della cattedrale di Gulu) sta rendendo la vita impossibile a tutte le comunità cristiane del nord Uganda e la gente è ridotta all’esasperazione». Il padre parlava di un «inferno di dolore» (Testimoni 13, 2003, p. 17).

Un inferno simile è rilevabile anche oltre le frontiere nella vicina Repubblica democratica del Congo, nelle zone del nord est del paese. Basta rileggere ciò che ha scritto in Testimoni (14, 2003, pp. 25-29) nell’articolo dal titolo significativo A Mambasa, ossia all’inferno p. Silvano Ruaro, dehoniano, per farsi una pallida idea della terribile situazione in cui vive la gente di quelle zone, in preda a continue scorrerie di soldati senza leggi e senza alcun controllo. Per far comprendere la situazione, il padre tra l’altro cita quanto ebbe a dirgli un ragazzo-soldato in piena azione di guerriglia e di razzia: «Padre, non reagite e non opponetevi a nessuna delle nostre richieste, perché per quattro giorni abbiamo il permesso di fare quanto vogliamo: rubare, violentare, uccidere e nessuno ci chiederà conto…». Soprusi che si sono ripetuti per mesi senza che nessuno potesse difendersi.

Un paese in continua fibrillazione è anche il Burundi. La gravità della situazione in questo paese ci ha indotto a parlarne per ben tre volte, durante il 2003. È sufficiente richiamarne i titoli che da soli dicono tutto: Guerra infinita  in Burundi. Una pace che non viene (Testimoni 6, p. 16); In Burundi sempre in guerra. Pasqua sotto le bombe (n. 9, p. 2); Il Burundi dopo Pretoria, ma sarà vero? (n. 21, p. 25). L’interrogativo si riferiva a un ennesimo tentativo di pace: una pace che non è venuta e l’assassinio di mons. Michael Courtney lo sta tragicamente a testimoniare.

In Africa, tuttavia, sembra che qua e là qualcosa stia cambiando. La rivista missionaria Nigrizia in un numero intero dedicato a questo continente (gennaio 2004) così scrive: «Da molto tempo l’Africa inizia un anno nuovo in maniera diversa. A saperle cogliere, le buone notizie ci sono. La pace anche se fragile, potrebbe “scoppiare” in Sudan e nella regione dei Grandi Laghi (e sono decine di milioni di persone che ne godranno). Nella Repubblica democratica del Congo, epicentro dello scontro dei Grandi Laghi che ha coinvolto numerose nazioni, si è avviata una transizione democratica: lenta, irta di ostacoli e tuttavia senza alternative – anche i responsabili politici sembrano esserne convinti. A sospingere il continente lontano dalla conflittualità e dal malgoverno contribuisce in  maniera determinante quella società civile che è, un po’ dovunque, il soggetto nuovo ed emergente e che rappresenta la nuova frontiera della cittadinanza africana: gente che non si rassegna, che lotta per i propri diritti, e che si confronta con la modernità. Non a caso si vedono meno Taylor (ex dittatore della Liberia) in circolazione, meno guerriglie senza arte né parte…».

 

VITTIME

IN AMERICA LATINA

 

Se dall’Africa passiamo all’America latina, il paese dove maggiore è stato il numero dei sacerdoti e religiosi assassinati è ancora una volta la Colombia. In questo paese la Chiesa sta pagando un prezzo altissimo. Dal 1998 al marzo 2002, secondo fonti dell’esercito, sono stati assassinati 26 tra sacerdoti, religiosi e religiose e 39 pastori protestanti. Fra le vittime più illustri, mons. Duarte, ucciso nel gennaio 2002, mentre minacce di morte erano giunte ad almeno una decina di altri vescovi e sacerdoti. Nel 2003 sono cinque i sacerdoti e religiosi uccisi. Dietro a questi continui assassini c’è un intreccio di criminalità in mano a organizzazioni che gestiscono il traffico della droga e altri affari illeciti. La Chiesa, tuttavia, anche qui come altrove, non è la sola a soffrire: soffre assieme a tutta la popolazione; basti pensare che in questi ultimi decenni la violenza ha mietuto almeno 35.000 vittime, mentre oltre 2 milioni di colombiani sono fuggiti dal paese per sottrarsi a un clima di violenza divenuto per molti versi insostenibile. Intanto il paese continua a essere paralizzato nel suo sviluppo: la disoccupazione viaggia sul 20%, mentre la forza di lavoro non supera il 13,9%. La dice lunga anche il fatto che la Colombia detiene il triste primato dell’impunità dei crimini contro l’umanità, che è del 100%.

Un’altra zona turbolenta è anche il Centro America dove quest’anno si sono avute 3 vittime: 2 nel Salvador (un sacerdote e un laico) e un sacerdote in Guatemala. Ambedue questi paesi in passato sono stati spesso teatro di sangue. Del Salvador si ricorderà per esempio l’assassinio dei sei gesuiti dell’università di San Salvador nella notte tra il 15 e 16 novembre del 1989; assassinio preparato da uno slogan messo in circolazione da tempo: «Se ami la patria uccidi un prete!». Prima ancora, il 24 marzo 1980, era stato assassinato l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, figura di grande prestigio e mai dimenticata.

Nel Guatemala invece era stato assassinato nel 1998 mons. Gerardi, vittima anch’egli del clima di violenza da cui il paese non è mai riuscito a guarire. La violenza infatti si perpetua e non c’è da stupirsi se la Chiesa continua a pagare un tributo così elevato di sangue.

Così, al termine del 2003, la Chiesa si trova nuovamente a contare i suoi martiri. Il loro sangue si è mescolato con quello che scorre a fiumi in tante zone del mondo, segno di un amore senza limiti. Ma questo sangue versato è anche un forte grido che sale dal basso verso i potenti di questo mondo, verso le stesse Nazioni Unite, di cui il papa ha recentemente auspicato una riforma, affinché sia fatto tutto il possibile per mettere fine a queste situazioni che purtroppo ancora una volta colpiscono i più deboli e i più poveri. Se così sarà, il versamento del loro sangue non sarà stato inutile.

 

A. Dall’Osto

 

1 Testimoni, n. 15, 2003, pp 1-3.