NON CEDERE AL PESSIMISMO

SIAMO FATTI PER LA GIOIA

 

In un clima di diffuso pessimismo occorre ripetere che noi tutti siamo fatti per la gioia. Ma la gioia non si può “fabbricare” perché non dipende dalla nostra volontà. È piuttosto un dono che ci viene dall’amore. La gioia infatti viene da ciò che amiamo.

 

In uno dei tanti sondaggi compiuti dai giornali in vista del nuovo anno, c’era una domanda d’obbligo: come vede la gente il 2004 e con quali prospettive? In un numero molto elevato di risposte si poteva cogliere un diffuso pessimismo, dovuto alla crisi economica, da cui la nostra società stenta a uscire, alle minacce del terrorismo, al diffondersi di nuove malattie e ad altre cause facilmente rilevabili da una lettura anche superficiale dei mezzi di comunicazione.

Ma è inevitabile cedere al pessimismo? Pascal, alla stregua del filosofo greco Seneca, scrive che «tutti desiderano una vita felice; ma quando si tratta di vedere chiaramente ciò che la rende possibile, si brancola nella nebbia». Il problema sta proprio qui: scoprire dove sta la vera gioia per cercarla là dove essa si trova.

Per noi religiosi/consacrati, essa dovrebbe essere come la sorgente profonda da cui attingere sempre nuove energie per una sequela fedele e generosa di Cristo, da cui deriva anche l’efficacia stessa della nostra testimonianza. Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelica testificatio (29 giugno 1971) scriveva: «La gioia di appartenergli (al Signore) per sempre è un incomparabile frutto dello Spirito Santo, che voi avete già assaporato. Animati da questa gioia, che Cristo vi conserverà anche in mezzo alle prove, sappiate guardare con fiducia all’avvenire. Nella misura in cui si irradierà dalle vostre comunità, questa gioia sarà per tutti la prova che lo stato di vita, da voi scelto, vi aiuta, attraverso la triplice rinuncia della vostra professione religiosa a realizzare la massima espansione della vostra vita nel Cristo. Guardando a voi e alla vostra vita, i giovani potranno capir bene l’appello, che Gesù non cesserà mai di far risuonare in mezzo a loro. Il concilio, infatti, ve lo ricorda: “L’esempio della vostra vita costituisce la migliore raccomandazione dell’istituto e il più efficace invito ad abbracciare la vita religiosa”».

E ancora nella Evangelii nuntiandi (80): «Possa il mondo del nostro tempo... ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati... ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo».

 

MA NON SIAMO

PADRONI DELLA GIOIA

 

Sul tema della gioia è impostata la lettera scritta da fratel Roger, di Taizé, per l’incontro europeo dei giovani, che ha avuto luogo dal 29 dicembre 2003 al 2 gennaio 2004, ad Amburgo – un testo che sarà ripreso e meditato nel corso di quest’anno negli incontri dei giovani che si terranno sia a Taizé, settimana dopo settimana, sia in altre parti del mondo. È intitolata Alle sorgenti della gioia. Allo stesso argomento è dedicato anche il numero del gennaio 2004 della rivista trimestrale di formazione spirituale Christus, fondata dai padri gesuiti francesi, dal titolo Il prezzo della gioia, al di là del piacere.

Non ci pare pertanto fuori luogo, all’inizio di questo nuovo anno, dove il pessimismo pare d’obbligo, fermarci a riflettere su questo tema, a partire anche da quanto scrive nell’articolo di apertura della rivista Christus, Agata Zielinski, filosofa, e di accompagnare le sue riflessioni in fuoritesto con la lettera di Taizé.

La Zielinski adotta un approccio più psicologico, anche nel modo di esprimersi, ma va subito al nocciolo della questione: afferma che noi non siamo padroni della gioia, poiché essa ci viene data come dono; al di là di ogni attesa, ha come base l’amore, deriva dall’amore, da ciò che si ama, senza tuttavia dispensare dalla lotta. Si chiede: «Che cosa ci impedisce di essere gioiosi?». È il fatto, risponde, che noi abbiamo della gioia un’idea molto alta e la immaginiamo sempre come qualcosa di perfetto, quindi non soggetto ai cambiamenti, né alle variazioni climatiche dei nostri umori e degli avvenimenti, qualcosa che sfugge all’alternarsi degli alti e bassi, di inalterabile e costante. Derivano da qui la delusione e insieme anche l’aspirazione che ne abbiamo. In effetti «noi non siamo senza cambiamenti e tanto meno la nostra sensazione di essere felici è costante».

Il mercato ci offre le sue vuote ricette: per esempio, vuole insegnarci come essere felici in 10, 20 o 40 lezioni; propone dei metodi, tipo Assimil, come si fa per l’apprendimento delle lingue, dimenticando che «voler “fabbricare” la propria gioia come si monta un mobile svedese, secondo l’uso che se ne intende fare, vuol dire fare della gioia un oggetto, un qualcosa che è a portata di mano, di cui poter disporre a nostro piacimento». In realtà «il problema è che noi non possiamo “disporre” della gioia e nemmeno possederla una volta per tutte; inoltre, mentre gli oggetti sono sempre relativi all’uso che se ne fa, sono dei mezzi in ordine ad un’altra cosa, la gioia invece la vogliamo in maniera assoluta, “la scegliamo sempre per se stessa e non in vista di un’altra cosa; è qualcosa di perfetto che basta a se stessa, è il fine delle nostre azioni” (Aristotele)».

L’esperienza dell’impossibilità di raggiungere la gioia perfetta induce a volte a volgersi alle “piccole gioie” di cui è fatta la vita quotidiana, ma su cui inevitabilmente si stende sempre un leggero velo di tristezza. Per esempio, si può ricordare con nostalgia una bella giornata passata, ma allora il nostro sogno di felicità si trasforma inconsciamente in un desiderio di fermare il tempo. Ma, sottolinea la Zielinski, «fermare il tempo vuol dire smettere di crescere, impedire all’avvenire di avvenire, sottrarsi al presente. Si arriva così al paradosso che il desiderio di essere felici non rafforza il nostro desiderio di vivere. Si corre allora il rischio di ergere l’immagine del quotidiano a norma di ciò che dovrebbe essere la felicità e di non essere più capaci di lasciarsi sorprendere da ciò che è gioioso e non attendiamo, ossia l’ora della gioia che viene come un ladro.

 

VIENE A NOI

COME UN DONO

 

Tutti noi abbiamo l’esperienza della gioia: quando giunge, tutte le cose sembrano trasfigurate; essa ci prende completamente, anche il corpo ne è pervaso: si ha la sensazione di respirare più liberamente, si avverte una leggerezza che diventa danza, e il volto si irradia di sorriso. In altre parole, tutto il nostro essere e lo stesso nostro modo di stare al mondo ne sono positivamente influenzati.

Ma, come è stato detto sopra, la gioia viene a noi come un dono, non dipende dalla nostra volontà, a suscitarla è un’altra causa. Essa libera, mentre la paura lega. È come giungere sulla cima di un monte: ancora un passo ed ecco che improvvisamente si respira a pieni polmoni e si dimentica la fatica della salita; ciò che impediva di andare avanti non è più di ostacolo.

La gioia, osserva ancora la Zelienski, impegna ad amare, e porta a trovare la vita amabile, e ciò aumenta il desiderio di far sì che la vita sia amabile. Trasforma il nostro sguardo sulle cose, mostrandocele come realtà da amare e il suo movimento ci spinge ad amare ancora di più, – sia essa suscitata da qualche cosa che noi amiamo già, o ci renda amabile ciò che ci era sgradito o indifferente. Accogliere ciò che è motivo di gioia e acconsentire ad esso m’impegna a rimanere là dove posso amare di più e rendere il mondo più vivibile. La temporalità della gioia si dispiega in ciò che essa rende possibile. In questo senso essa non è tanto fuggevole quanto fondante – “creativa” direbbe Bergson: «Dovunque c’è gioia, c’è creazione: più ricca è la creazione, più profonda è la gioia». Ciò che ho ricevuto nel momento della gioia, lo scelgo come stile di vita. Consentire a ciò che è dato, vuol dire scegliere un modo di impegnarsi nel mondo – ciascuno secondo quanto avrà ricevuto o riconosciuto come cosa migliore. Essere al mondo secondo la gioia ricevuta, significa scegliere una maniera di vivere che ha per effetto di conoscere e di amare la causa della gioia, e di farla amare da altri. Infatti la gioia ama anche essere condivisa.

 

NON DISPENSA

DALLA LOTTA

 

La gioia tuttavia non dispensa dalla lotta. A volte non avviene niente che sia in grado di farci gioire: dappertutto tristezza e disgrazie; la capacità di rallegrarsi è essa stessa intaccata: tutto quello che avviene di bene mi pare estraneo. Ciò che mi sembrava la cosa migliore e mi serviva di guida perde il suo significato; la gola che esultava di gioia si chiude. Si tratta a volte delle tristezze e delle rivolte legittime di fronte al mondo così come sta andando

La vera gioia è realista e non toglie nulla a ciò che vi è di tragico nell’esistenza. Si potrebbe parlare persino di una “gioia tragica”, alla maniera di una “fede tragica” che prende atto del male e della sua assurdità, e s’impegna a lottare contro di esso senza perdere la fiducia nel Creatore. La gioia non impedisce la lucidità, non dispensa dalla lotta contro ciò che cerca di ridurla, di farla scomparire o di dubitare di ciò che in essa è dato.

Quando l’esplosione di gioia si spegne, si domanda la Zelienski, come accogliere e scegliere la vita? Quando la gioia richiederebbe l’assenso al dono e alla promessa di vita di cui essa è rivelatrice, la prova della disgrazia ha un effetto negativo: suscita la tentazione di negare in noi gli effetti della gioia. La gioia invece sta dalla parte del “sì”, dell’abbandono al sovrappiù della vita. Resistere a ciò che impedisce la gioia è dire anzitutto “no”, non consentire all’azione corrosiva della disgrazia, al rattrappirsi della vita. Vuol dire anche e soprattutto ritornare alla riconoscenza, alla gratitudine e alla meraviglia di ciò che ci è stato dato: la vita e la promessa di cui essa è portatrice. È qui che essa risiede, dove è sempre presente, nonostante le variazioni del nostro umore, delle situazioni dell’esistenza. Che la vita perciò non si esaurisca mai nella infelicità!

Nel racconto della sua deportazione a Buchenwald, segnato dalla paradossale esperienza di “vivere la propria morte”, Jorge Semprun descrive lo sconvolgimento inatteso provato all’indomani della liberazione dal campo di sterminio, il 12 aprile 1945: «C’è il sole. La frescura della mattina di aprile è tonica… Un malessere mi pervade all’improvviso. Non si tratta di inquietudine e meno ancora di angoscia. Al contrario, è la gioia a essere sconvolgente: un eccesso di gioia (…). Gli uccelli senza dubbio. La gioia improvvisa, troppo forte, di sentirli di nuovo mi ha fatto trattenere il respiro. (…) Sento attorno a me il cinguettio esuberante degli uccelli: in una parola, la vita che è ricominciata. Tuttavia un sentimento inspiegabile mi pervade: sono contento di “rientrare”… Ho voglia di ritornare a Buchenwald, tra i miei, tra i miei compagni, tra coloro che vengono da una assenza mortale».

È un’esperienza stupefacente, commenta la Zelienski, dove si vede che la gioia è sempre come in eccesso sui dati oggettivi di una situazione: la causa è quanto mai piccola (gli uccelli) e tuttavia è essa a far sentire e vedere la vita come possibile di nuovo. O più esattamente, è la possibilità di progettare di nuovo in un mondo al di là delle ventiquattro ore, di considerare l’avvenire come un avvenire di vita che sorge in questa occasione. Più ancora – ed è proprio qui che questa gioia si può dire “tragica”, segno di una traversata che non è un oblio – la gioia ritrovata permette di ritornare sul luogo stesso della sventura, ma in altro modo, dopo aver combattuto la buona battaglia e reso sicuro con la sorpresa della gioia che anche là la vita è possibile. La gioia tragica allora è propriamente la gioia di vivere, di essere vivo, di avere attraversato la morte e di vedere la vita davanti come progetto. Tanto più che essa non è una gioia solitaria, ma che si condivide proprio là dove si è condivisa la sventura.

«La gioia, conclude la Zelienski, non consiste semplicemente in un desiderio di vivere: testimonia che c’è un di più. In effetti, implica una promessa di vita. Il movimento iniziale permette di acconsentire a questa promessa, di fidarci di essa non soltanto per l’ieri l’oggi, ma anche per il domani… L’assenso diventa fiducia; lo stupore iniziale, quello di essere là, a fianco della vita fino alla grande prova, può essere formulato così: “E tuttavia la gioia è più forte”».

 

A.D.