A PROPOSITO DI PROCREAZIONE
ASSISTITA
IN GIOCO SONO I PIÙ DEBOLI
La comunità cristiana non deve cessare di proporre il
dialogo costruttivo per trovare insieme soluzioni rispettose delle diverse
sensibilità. Non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede,
ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa
dell’essere umano.
Le discussioni che hanno
accompagnato i passi della legge sulla procreazione medicalmente assistita sono
state accese, a tutti i livelli. Era da aspettarselo: non solo per l’importanza
e la delicatezza della problematica, ma anche perché essa costringe a
interrogarsi sulle prospettive fondamentali che devono reggere il volto della
nostra società. La pluralità delle visioni non permette di seguire altra strada
che quella del dialogo e del confronto, per trovare insieme soluzioni rispettose
della sensibilità di ognuno.
Ha meravigliato invece la
durezza con cui alcuni si sono chiusi, in maniera quasi aprioristica, nei
riguardi delle posizioni sostenute dalla comunità cristiana: si è cercato
dapprima di escluderle dal dibattito, tacciandole di essere “confessionali”;
poi si è minacciato il ricorso al referendum abrogativo. Ancora una volta si
sta perdendo l’occasione per un approfondimento senza pregiudiziali e
preoccupato solo di arrivare a determinazioni capaci di costruire efficacemente
il bene comune. Nonostante tutto, occorre che la comunità cristiana non cessi
di proporre il dialogo e il confronto costruttivo. È un impegno al quale anche
i consacrati possono e devono contribuire.
IN NOME
DELL’UOMO
Il rispetto e la promozione
della vita, soprattutto di quella debole, si pongono oggi al centro
dell’impegno etico. Sono infatti particolarmente forti le sfide che ne mettono
in gioco non solo l’attuale qualità, ma il suo stesso futuro. Quella maggiore
si colloca a livello culturale: siamo confrontati, ricorda Giovanni Paolo II,
da «una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una
cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera “cultura
di morte”» e sfocia in una «guerra dei potenti contro i deboli: la vita che
richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata
come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere»
(Evangelium vitae, 12).
Non deve perciò
meravigliare se i credenti si sentano particolarmente impegnati per
l’affermazione di un «forte senso critico, capace di discernere i veri valori e
le autentiche esigenze». Sono infatti consapevoli che le risposte corrette
possono scaturire solo da «una generale mobilitazione delle coscienze e un
comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della
vita» e costruire insieme «una nuova cultura della vita» (ivi, 95).
Collocati all’interno di
questa strategia globale acquistano tutto il loro significato i passi
intrapresi per il rispetto e la difesa di ogni vita umana fin dai suoi primi
momenti e della dignità personale di ogni gesto procreativo. Non si tratta di
dire no a possibilità nuove che le scienze mettono a nostra disposizione. Si
tratta invece di valutarne l’effettiva capacità a essere assunte nel rispetto
dell’irrinunciabile dignità di persona, propria di ogni essere umano, sapendo
bene che solo allora esse possono contribuire alla costruzione di un futuro
valido.
È pertanto in nome della
persona e della sua dignità che la comunità cristiana si impegna perché venga
rispettata la qualità umana di tutti i processi procreativi. Non è possibile
ridurre le sue proposte ad affermazioni “confessionali”, valide solo nell’ambito
del privato. Esse hanno tutto il diritto di entrare nei processi di
determinazione del bene comune, attraverso le vie della costruzione democratica
del consenso. Coloro che, in nome della laicità dello stato, negano tale
diritto, trasformano la laicità in ideologia che discrimina e finiscono perciò
per negarla nelle istanze più fondamentali.
È importante però che da
parte dei credenti si percorra in maniera coerente la strada del dialogo e del
bene comune. Significative in proposito le affermazioni di Giovanni Paolo II
proprio nei riguardi delle nuove sfide poste dal «rispetto della vita di
ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto» e dalle «
nuove potenzialità della scienza» in ambito biotecnologico: «per l’efficacia
della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi,
è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della
posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre
ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i
valori radicati nella natura stessa dell’essere umano» (51).
Annuncio e dialogo non sono
in alternativa tra di loro, ma devono essere mantenuti in feconda reciprocità,
soprattutto quando si tratta di scelte riguardanti il bene comune. La
testimonianza si concretizzerà in servizio, che crea solidarietà e cooperazione.
Credo che al riguardo i consacrati potranno porsi come stimolo per tutta la
comunità cristiana, in forza della ricchezza della loro esperienza maturata
lungo i secoli.
CONSAPEVOLEZZA
DEI FATTORI IN GIOCO
La corretta determinazione
del bene comune non può essere fatta leggendo le cose da una sola angolazione.
Esige necessariamente confronto tra le diverse angolazioni che di fatto si
danno nel corpo sociale. Solo così non opererà tagli o discriminazioni e quindi
potrà rispondere effettivamente alle esigenze di tutti coloro che vi sono
coinvolti. Tutto questo vale anche per la normativa giuridica che deve
promuoverlo e difenderlo, aprendolo al futuro.
L’angolazione dalla quale
affrontare le problematiche della procreazione assistita è certamente quella di
chi vede nella sterilità e nella infertilità una malattia che lede dimensioni
fondamentali della persona. Deve essere affrontata terapeuticamente e
debellata. Vanno perciò considerati in maniera positiva tutti i passi che vanno
in questa direzione.
Però, per quanto
fondamentale e decisiva, questa angolazione non può essere radicalizzata al
punto da far perdere di vista altre parimenti importanti, a cominciare dal
rispetto della vita di ogni embrione e dalla salvaguardia dei diritti del
concepito. Appartiene al bene comune, attraverso opportune norme giuridiche,
evitare che si cada in una tale radicalizzazione, sapendo bene la gravità delle
conseguenze che da essa deriverebbero.
Nel dibattito dei mesi
scorsi (soprattutto quello televisivo, ridotto a volte a spettacolo da
intrattenimento), si è troppo spesso dimenticato tutto ciò, cadendo in una
lettura semplicistica, che non ha certo stimolato l’opinione pubblica a una
adeguata maturazione di tutti i valori in gioco. È indispensabile una crescita
culturale che porti al superamento del ragionare per slogan e del passivo
rassegnarsi al “così fanno tutti”. Una tale crescita non può certamente essere
affidata solo a una norma giuridica. Questa però è necessaria come indicazione
di una direzione di cammino, in cui dovrebbero muoversi le diverse agenzie
educative.
Si comprende allora che,
anche nel campo della procreazione assistita, non è possibile accettare la
logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine o il risultato è certamente
importante, ma da solo non può essere il criterio delle scelte sulle strade e i
mezzi con cui raggiungerlo. Occorre che essi siano carichi di qualità umana e
permettano percorsi umani.
Il no a una tecnica che,
pur essendo efficace quanto al risultato, non è carica di qualità umana, non va
considerato come una chiusura alla scienza e al suo progresso, ma uno stimolo a
ulteriore ricerca. La storia è al riguardo maestra eloquente.
In altre parole il vero
bene comune è fatto di solidarietà e di libertà. Tra queste due istanze si
possono anche a volte verificare delle tensioni, ma non vanno viste come
contrapposte. La libertà dice sempre solidarietà e viceversa: diversamente né
l’una né l’altra sarebbero veramente umane. Si tratta di una reciprocità da
affermare all’interno delle coscienze: non può essere imposta dal di fuori.
Occorre però che la normativa giuridica di una società sia un chiaro messaggio
in questa prospettiva.
LA PRIORITÀ
AI PIÙ DEBOLI
La correttezza di una
normativa giuridica non sta prima di tutto nella capacità di garantire i
diritti dei più forti, ma di permettere a quelli dei più deboli di essere
rispettati e promossi. Solo allora essa sarà effettivamente al servizio del
bene comune, promuovendo il bene di tutti.
Sta qui uno dei rischi
maggiori che la nostra società sta vivendo a livello etico-giuridico:
dimenticare che il punto di partenza e l’angolazione da cui pensare il bene
comune sono i piccoli, i deboli, gli indifesi. Purtroppo nei riguardi della
vita debole si sono già fatti passi preoccupanti, come ricorda Giovanni Paolo
II: «Larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la
vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne
pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da parte dello
stato, al fine di praticarli in assoluta libertà e anzi con l’intervento
gratuito delle strutture sanitarie». Il risultano di tutto questo «è
drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di
tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e
inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti
condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il
male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana»
(Evangelium vitae, 4).
La normativa sulla
procreazione medicalmente assistita deve certamente essere tale da
salvaguardare e promuovere la dignità e i diritti della donna e della coppia.
Essa però deve farlo preoccupandosi in maniera particolare della dignità e dei
diritti di coloro che nell’evento procreativo sono i soggetti più deboli: di
coloro cioè che saranno procreati. Diversamente la legislazione finirebbe con
il legittimare la capacità di imporsi del più forte a scapito del debole.
Per i credenti questa
maniera di ragionare è illuminata dalla logica di Dio, rivelataci dal Cristo:
la logica pasquale della croce-risurrezione. Tutto questo però non deve far
dimenticare che si tratta di un’esigenza umana, il cui riconoscimento e
rispetto sono stati una delle portanti di tutto lo sviluppo della umanità. Del
resto diventare madre o padre non significa “fare” un figlio a ogni costo e a
proprio piacere, ma amore che mette la vita del figlio, la sua qualità, i suoi
diritti al primo posto. La psicologia ha ampiamente documentato quando sia
deleterio un rapporto genitori-figlio ispirato al possesso. Ma non dice forse
più possesso che amore l’assolutizzazione del figlio a ogni costo? La normativa
giuridica deve pedagogicamente farsi carico di questa preoccupazione: non per
limitare indebitamente la libertà, ma stimolarla perché si percepisca e si
attui in vera solidarietà.
I DIRITTI
DELLA NUOVA VITA
Questo ragionare etico
(articolato cioè intorno alla solidarietà e alla qualità umana) permette di
capire il perché anche di alcune determinazioni a prima vista dure. Penso al no
netto alla procreazione eterologa (art. 4/3); alla limitazione della procreazione
assistita a «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in
età potenzialmente fertile, entrambi viventi» (art. 5); alla proibizione di
«creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario e un
unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» (art. 14/2).
La chiarezza della
paternità/maternità è un diritto di ogni persona. E essa deve essere tale già a
livello biologico. Nelle forme eterologhe tutto questo viene negato, dal
momento che ovulo e/o spermatozoi non sono di coloro che si porranno poi come
genitori. Dicendo questo non si vuole negare l’importanza della dimensione
psicologica; si vuole solo dire che questa non va scissa arbitrariamente da
quella genetico/biologica, a meno che non si voglia affermare una nuova forma
di dualismo antropologico, con tutte le conseguenze negative che accompagnano
sempre i dualismi.
Parimenti non si può negare
che chiunque nasce ha diritto a una famiglia che lo accolga. Dargli
arbitrariamente solo una madre o imporgli una realtà familiare che non veda la
presenza maschile e femminile è negargli qualcosa a cui ha diritto e che
inciderà su tutto il suo futuro sviluppo.
Soprattutto non si può
negare alla vita il diritto a vivere. È l’aspetto forse più decisivo, che
ritorna costantemente nelle problematiche riguardanti la vita iniziale. È vero
che le teorie su quanto si debba parlare di vita propriamente umana sono diverse:
dal momento in cui l’embrione è impiantato nell’utero materno, oppure da quando
diventa impossibile la scissione gemellare, oppure dalla prima delineazione
della corteccia cerebrale… Si tratta però di interpretazioni, la cui validità
non è mai del tutto fondata. Quello che è certo è che dal momento della
fecondazione, siamo dinanzi a una individualità genetica umana diversa da
quella dei genitori, carica di tutte le potenzialità per il successivo
sviluppo, anche se bisognosa di essere accolta e di procedere per gradi. Il
credente non esita a riconoscere all’embrione fin dall’inizio la dignità di
persona. Coloro ai quali questa affermazione può apparire troppo forte, dovrebbero
almeno chiedersi come è possibile negare a questa vita il diritto a vivere.
Guardando la storia non
sfugge a nessuno quanto siano state gravi le conseguenze delle ideologie e
delle prassi giuridiche che non hanno riconosciuto il diritto a vivere come
inseparabile dalla stessa vita. L’assurdo costo in sofferenze, discriminazioni e
soppressioni di essere umani innocenti è ancora sotto i nostri occhi. Se la
comunità cristiana si ostina a non accettare che il diritto a vivere venga
collegato ad altro che non sia la stessa vita, lo fa non solo per la sacralità
della vita, che nella sua fede ha scoperto, ma anche in forza di questa amara
lezione della storia, che ha condiviso con tutta l’umanità.
La difesa incondizionata
della vita diventa allora una delle forme più convincenti della testimonianza
della carità da rendere in questo nostro mondo, malgrado che per essa occorra
tante volte sperimentare la beatitudine della persecuzione e dell’incomprensione
(cf. Mt 5,10-12; Lc 6,22-23.26). Ma è anche quella che maggiormente apre alla
speranza, capace di sfidare ogni forma di morte e di costruire futuro.
È a questo riguardo che i
consacrati dovranno porsi in maniera significativa come stimolo profetico.
Soprattutto perché la franchezza della proposta resti fedele allo spirito di
solidarietà e di servizio essenziale per la fedeltà al Cristo: perché appaia
chiaro, come ricorda la Gaudium et spes, che «nessuna ambizione terrena spinge
la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere
testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad
essere servito» (3).
Sabatino Majorano