IL PUNTO SULL’ECUMENISMO
UNA SCELTA IRREVERSIBILE
L’ecumenismo non sta attraversando una grande stagione.
Il momento attuale si può paragonare a un pendolo dal movimento ondulatorio che
indica un percorso a zig-zag, siglato da ombre e luci. Ma la via delle ricerca
ecumenica è ormai irreversibile.
L’occasione della
tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, all’esordio di
questo nuovo anno civile,1 può rappresentare il tempo propizio a porsi una
domanda decisiva per il futuro delle chiese: in quale direzione sta virando
oggi l’ecumenismo, questo evento inatteso e ancora incompiuto che – qualunque
lettura gli s’intenda dare – ha caratterizzato nel profondo il Novecento del
cristianesimo? Spesso, per cercare di indicarla, si è ricorso a metafore,
simboli (così come per indicare il cammino ecumenico tout-court, raffigurato
frequentemente come una navicella in mare aperto): e i commentatori attualmente
alludono volentieri a una paralisi, una stasi, e persino a un vero e proprio
inverno, la cui brutale gelata avrebbe ricoperto di bianco i fragili germogli
delle speranze che avevano caratterizzato gli anni successivi al concilio
Vaticano II.
In questo frangente, però,
a conti fatti forse l’immagine più felice sarebbe quella di un pendolo, il cui
movimento ondulatorio dice bene dell’andamento instabile di un percorso a
zigzag, siglato da ombre e insieme da luci, e difficile da decifrare appieno.
Denso di contraddizioni, di aperture a letture diverse e diversificate, a
seconda dell’ottica in cui ci si pone: ecumenismo dei gesti, della dottrina
teologica, dei mistici, della collaborazione caritativa o missionaria…
Nessuno può nascondersi, in
ogni caso, la complessità del processo di ricomposizione delle chiese
cristiane, alla luce di fratture storiche larghissimamente sedimentate, e
contrassegnate da controversie, polemiche, se non da guerre apertamente (e
paradossalmente) combattute in nome di una maggiore o minore fedeltà alla
medesima parola di Dio e allo stesso Signore. Un clima non certo addolcito, nei
tempi più recenti, dal risorgere di piccole patrie ed etnocentrismi, localismi
e chiusure identitarie che fanno discutere persino la vulgata mediatica, più o
meno correttamente, di scontri di civiltà, di conflitti interreligiosi, di
fondamentalismi di ogni genere. Anche se, ponendosi dal punto di vista della
lunga durata, converrà piuttosto sottolineare come il secolo breve che si è
appena concluso abbia fatto registrare indubbi quanto impensabili passi avanti,
pur senza raggiungere il traguardo definitivo di un’unità reale e duratura.
TRA ECUMENISMO SECOLARE
E QUELLO DELL’ASSENSO
Quanti sono soliti
preferire la visione del bicchiere mezzo vuoto, trovano buon gioco a
evidenziare una serie di situazioni apertamente critiche, o almeno fortemente
stagnanti. Proviamo a stilarne un rapido elenco, senz’altro incompleto, a
partire dalla storica e mai risolta divaricazione fra il modello
dell’ecumenismo secolare (quello che privilegia la possibilità di vivere la
koinonia fra cristiani malgrado le divergenti concezioni nel campo della fede,
operando piuttosto per la pace e la giustizia sociale) e l’ecumenismo del
consenso (quello per cui invece occorrerebbe lavorare in primis sull’impegno
teologico, in funzione di un’unità visibile delle comunità ecclesiali). Per
giungere ai problematici rapporti bilaterali: emblematico il braccio di ferro
tra l’ortodossia di Alessio II e la strategia di penetrazione nella Russia
postcomunista da parte della chiesa di Roma, pesantemente accusata di
proselitismo in una terra di solide radici cristiane; o quello fra gli
anglicani e gli stessi cattolici, alla luce – fra l’altro – della decisione di
concedere, da parte dei primi, l’ordinazione sacerdotale alle donne o
l’episcopato ad un gay dichiarato, con acute tensioni anche interne. Ma anche,
per guardare in casa nostra, alla disagevole ricezione tanto dell’intero
Vaticano II (messo non di rado in discussione persino in quelli che apparivano
capisaldi incrollabili del senso comune conciliare, la scelta strategica del
dialogo, ecumenico non meno che interreligioso), quanto di documenti – si pensi
alla Dominus Iesus, del 2000, o all’enciclica Ecclesia de Eucharistia (17
aprile 2003) – che volenti o nolenti sono apparsi alla maggioranza
dell’opinione pubblica e a parecchie chiese cristiane come vistose pietre
d’inciampo su di un sentiero già costellato di buche pericolose. Per di più,
infine, è lo stesso obiettivo finale, quell’unità cui siamo stati chiamati
dallo stesso Gesù di Nazaret in uno dei suoi discorsi più carichi di pathos e
di progettualità (cf. Gv 17,21) ad apparire più un’utopia che un intento
realistico, alla luce della lentezza con cui l’ecumenismo teologico sta
operando sui nodi più delicati, dall’ecclesiologia all’intercomunione, fino al
reciproco riconoscersi come chiese sorelle e all’annosa questione del primato
di Pietro.
UN CAMMINO
CHE CONTINUA
Indietro tutta, dunque?
Ripetiamolo, con serena certezza: sarebbe, questa, un’interpretazione
ingenerosa, incapace di fare i conti con la cronica incrostazione di troppi
nodi gordiani, ma ancor più con sguardi cui occorreranno tempo e pazienza per
togliersi i veli negativi con cui sono abituati a leggere l’altro (sia pure
parimenti credente in Cristo). Se i passi iniziali del movimento ecumenico,
fatti in ambito evangelico, risalgono appena agli anni 1910 del secolo scorso
(con la Conferenza missionaria mondiale svoltasi a Edimburgo), mentre il primo
appuntamento ufficiale di Faith and Order è del 1927, per il mondo cattolico
bisognerà attendere proprio il Vaticano II, Pentecoste del nostro tempo, e la
pedagogia dei gesti di papa Roncalli per ottenere un indirizzo definitivo in
tal senso: con l’Unitatis redintegratio che, al n.7, delinea appunto i tratti
essenziali di un atteggiamento autenticamente ecumenico, «conversione interiore,
rinnovamento dello Spirito, rinuncia a se stessi, sincera abnegazione, umiltà
di servizio, generosità fraterna». Con una serie di avvenimenti a cascata,
dalla nascita del Segretariato per l’unità dei cristiani (1962) all’enciclica
del dialogo per eccellenza, l’Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) fino alla
storica cancellazione delle reciproche scomuniche tra Roma e Costantinopoli, la
Tòmos Agàpis (1965), e così via. Un itinerario che, molti anni più tardi,
Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995) in certo senso scolpirà in
parole che non ammettono discussione, «La chiesa cattolica si è impegnata in
modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica» (3), e ribadirà
nuovamente in un messaggio del 3 novembre 2003 al Pontificio consiglio per
l’unità dei cristiani: «Noi, alla scuola dell’ecumenismo, stiamo imparando a
vivere con umile fiducia questo periodo intermedio, nella consapevolezza che
esso resta comunque un periodo di non ritorno».
Se allarghiamo la messa a
fuoco sulla strada fatta nell’ultimo ventennio, del resto, andrà ricordato
almeno quello che è stato definito il miracolo di Lima, la dichiarazione su
Battesimo, eucaristia e ministero, stilata da Fede e Costituzione e approvata
sia dal Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) sia dalla chiesa di Roma. E poi,
ovviamente, il progetto previsto dall’assemblea generale del CEC di Vancouver,
del 1983, che votò la proposta di «coinvolgere le chiese membro (ortodossi e
protestanti sostanzialmente, ndr) in un processo conciliare reciprocamente
vincolante a favore della giustizia, della pace e della conservazione di tutto
il creato». Di qui, la prima assemblea europea, a Basilea nel 1989, qualche
mese prima della fatidica caduta del muro di Berlino, dedicata a Pace nella
giustizia; e poi, sugli stessi argomenti, l’appuntamento di Seoul l’anno dopo,
a cura del CEC, e la seconda assemblea europea (Graz 1997), sul tema così
strategico della riconciliazione. Al 1999, infine, risale l’Accordo di Augusta,
con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione stesa fra
cattolici e luterani: a pochi mesi dal simbolico traguardo del duemila, segnale
trasparente che l’elaborazione teologica andrebbe proseguita e potenziata,
nonostante le difficoltà e i relativi esiti conseguiti.
Il tentativo complessivo
più ambizioso, però, resta forse a tutt’oggi quello sperimentato a una voce
dalla KEK, la Conferenza delle chiese europee, e dal CCEE, il Consiglio delle
conferenze episcopali d’Europa, che il 22 aprile del 2001 – la prima domenica
dopo la Pasqua comune dell’anno d’esordio del nuovo millennio – sottoscrivevano
la Charta œcumenica. Linee guida per la crescita della collaborazione tra le
chiese in Europa: dodici punti per altrettanti compiti ecumenici, relativi alle
relazioni interne ai cristiani e alle loro chiese (1-6), ai rapporti con la
politica e la società (7-9) e a quelli interreligiosi (10-12). Un documento non
ancora abbastanza conosciuto, attaccato più o meno sommessamente tanto dai
tradizionalisti quanto dagli iperinnovatori, ma che potrebbe costituire un
realistico punto di partenza per quel salto di qualità del movimento ecumenico
di cui la presente stagione ha un bisogno assolutamente vitale.
NON UN’OPZIONE
FRA LE TANTE
Come rispondere, infatti,
ai processi diffusi di secolarizzazione e di nichilismo, al relativismo
imperante, agli attacchi simultanei dei fondamentalismi e del supermarket
interreligioso, se non con un’assunzione di responsabilità da parte delle
chiese cristiane, che faccia dell’ecumenismo non un’opzione fra le tante, ma la
modalità principe, la forma normale dell’essere cristiani oggi? Si tratterebbe
di una prova di lucido realismo, poiché al dialogo – ecumenico, interreligioso,
interculturale – davvero non esiste alternativa, e più di un indizio mostra un
diffuso bisogno di dialogo non è ancora interpretato. Lo ha posto in luce anche
la recente plenaria del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani,
tenutasi a Roma agli inizi dello scorso novembre, durante la quale il cardinale
Walter Kasper, che lo presiede, ha inteso rilanciare con forza l’ecumenismo
spirituale, vale a dire la via del dialogo attraverso la preghiera e la
conversione del cuore. Col piede fermo sulla dimensione della speranza, ma
senza nascondersi le tante situazioni contraddittorie, dai rischi di un
ecumenismo selvaggio e superficiale al tema delle sette, dal rapporto
complicato col pluralismo (religioso e teologico) fino alla fase di stallo che
stanno conoscendo – come abbiamo sopra ricordato – molti percorsi teologici
avviati ed ora purtroppo interrotti.
È questa, mi pare, la
novità più rilevante di iniziative di chiese locali, centri studi e comunità,
poco pubblicizzate ma diffuse, che forse coglie impreparati gli specialisti del
dialogo e ci dice che, in un futuro ormai prossimo ma probabilmente già oggi,
le parole d’ordine dell’incontro tra le fedi saranno forse,
bonhoefferianamente, parole meno squisitamente teologiche e più spirituali (un
esempio, tratto dai mesi scorsi, può riguardare la voce corale dei cristiani
contro la guerra in Iraq). Il che, peraltro, presuppone comunque che da parte
delle chiese – tutte – s’investa finalmente più e meglio nella direzione di un
ecumenismo popolare, facendo formazione, purificando i linguaggi, portando lo
studio delle confessioni cristiane altre nel cuore dei curricula teologici e
nell’IRC, e così via (lo stesso vale, naturalmente, per il dialogo
interreligioso, esigenza che appare ora sempre più pressante).
In altri termini, bisognerà
smetterla di pensare la chiesa cattolica (e la pastorale) divisa in settori: o
tutta la comunità acquista uno stile di vita ecumenico, aperto, accogliente, o
gli sforzi di questo cammino sono destinati a essere vani, inconcludenti. Di
nuovo l’Ut unum sint: «Il movimento a favore dell’unità dei cristiani non è
soltanto una qualche appendice, che si aggiunge all’attività tradizionale della
chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua
azione» (20).
Vorrei chiudere con un
ricordo personale, legato ai giorni precedenti l’assemblea strasburghese che
avrebbe sancito la stipula della Charta œcumenica, quando si svolse una
conferenza stampa che ebbe come protagonista inatteso un giovane cattolico
scozzese, fra quelli convocati per l’occasione a confrontarsi coi leader delle
chiese del vecchio continente. Egli, alludendo all’incontro di ice-breaking
preparatorio all’assemblea vera e propria, confidò ai presenti: «Durante il
meeting ci siamo sentiti tutti ortodossi, tutti cattolici, tutti protestanti ed
evangelici. Ma ciò non significa che siamo una zuppa ecumenica, dove tutti gli
elementi sono mischiati in una salsa indistinta e omogenea: al contrario, la
nostra comunione potrebbe essere descritta piuttosto come un’insalata
ecumenica, dove tutti i diversi colori e i sapori – uniti dal condimento dello
Spirito Santo – possono essere meglio percepiti e gustati». Come abbiamo
esordito, concludiamo allora con un’immagine: il pendolo del cammino ecumenico
volgerà al bello se, più che una zuppa, le nostre comunità locali, i nostri
teologi e i responsabili di chiesa punteranno a produrre un’insalata,
rispettosa delle differenze e capace persino – nella migliore delle ipotesi –
di valorizzarle, facendole concorrere positivamente al bene comune, alla pace,
alla giustizia su scala planetaria. A conti fatti, quel giovane scozzese,
evangelicamente, forse non era proprio distante dal vero.
Brunetto Salvarani
1 Il tema scelto per
quest’anno è: “Io vi lascio la mia pace” (Gv 14,27).