VITA CONSACARATA E IL
SUCCEDERSI DELLE ETÀ
È SEMPRE TEMPO DI CRESCITA
Ogni momento della vita è un’opportunità di crescita,
sempre possibile nella misura in cui manteniamo viva l’attenzione
all’esperienza spirituale che si va sviluppando in noi. Per scoprire così, con
crescente profondità,_l’opera di Dio nella nostra vita.
La vita di consacrazione è
simile a un viaggio in cui la persona chiamata è impegnata in una sforzo di
crescita, ovvero in una tensione verso l’ideale rappresentato dalla persona di
Gesù di Nazareth Uomo-Dio, tensione che non ha luogo in un momento particolare,
ma che si esprime lungo un asse temporale, che si svolge attraverso tappe,
momenti caratterizzati da uno specifico rapporto della persona con il suo
mondo, da un modo di essere nel mondo particolare a quel determinato periodo
della sua esistenza.
Non esiste età priva di
capacità, né periodo della vita privo di semi da far germogliare, né momenti di
vita in cui non sia possibile una crescita. La vita è tutto questo in qualsiasi
momento essa venga vissuta. A ben guardare proprio il pensare il tempo in
questo modo (come kairos) è ciò che fa della vita, forse in modo particolare
quella del consacrato, una continua opportunità da sviluppare. Certo le
opportunità di un adolescente non sono le stesse di un sessantenne o di un
settantenne, ciò che rimane è il loro essere situazioni di crisi che esigono una
risposta e quindi occasioni di crescita. La prospettiva deve rimanere quella di
una «tensione verso una crescita ininterrotta come risposta alla chiamata del
Signore» (J. Vecchi, Malattia e anzianità nell’esperienza salesiana, 15 agosto
2001).
Senza dubbio lo svolgersi
nel tempo della nostra vita non può essere considerato come un continuo
accumulo di elementi positivi né una specie di marcia trionfale tra due ali
osannanti di folla plaudente. Ogni momento della vita invece va considerato
un’occasione di risposta, un’opportunità di approfondimento, il realizzarsi
concreto delle condizioni perché si verifichi una crescita di quella identità
radicale che sempre chiede il proprio compimento. Crescita che è sempre
possibile nella misura in cui manteniamo viva «l’attenzione all’esperienza
spirituale che si va sviluppando in noi, per cui scopriamo con sempre maggiore
profondità l’opera di Dio nella nostra vita» (J. Vecchi, op. cit.). Sempre
infatti urge dentro di noi una domanda di integrazione della propria identità
in base all’esperienza di Dio qualunque sia l’età, perché sempre si danno delle
risorse originali che possono essere valorizzate. Siamo portatori di una
inquietudine, di una salutare inquietudine, che preme dentro di noi affinché la
nostra identità radicale percorra la via della propria realizzazione che per
noi cristiani, e consacrati in particolare, equivale all’integrazione della
persona in base all’esperienza di un Dio che ci è Padre provvidente.
RIMPIANTI
O RIMORSI?
Quando il tempo si fa
breve, il tema dell’identità diventa tema di rilevante urgenza. La persona
guarda al passato e rimpiange situazioni che vede ora come occasioni o
opportunità perdute. Oppure si lascia prendere da rimorsi che come spine
tormentano la memoria. Il dialogo con queste due emozioni rappresenta nell’età
avanzata una delle grandi occasioni di crescita umana e spirituale. Rimpianti e
rimorsi infatti spesso hanno a che fare con situazioni affettive. Ci si ricorda
quella situazione, quell’incontro e si sente dentro di sé un sotterraneo
rimpianto. La memoria viene abitata da rimpianti per incontri mancati, per
timidezze che non si avrebbero voluto vivere, per carezze negate, per sguardi
evitati, per intimità inibite. L’innegabile povertà del/la vergine diviene un
luogo abitato da nebulosi rimpianti, a volte da acuti sentimenti di perdita. Il
pensiero immagina vite possibili a cui si è detto un no che ora sembra quasi
vacillare. Ci sembra di aver sbagliato strada, ma che ormai tutti i bivi siano
stati superati e ora ci troviamo in un vasto deserto senza meta e senza
ritorno. Se la persona si lascia vincere dal rimpianto diviene una dolente
presenza avvolta, anzi avvinghiata ad un permanentemente lutto che rende cupa
l’intera esistenza sommergendola in una tristezza senza fine.
In altri momenti è il
rimorso a piantare il suo nero vessillo sulla nostra memoria. Dal passato
emergono sensi di colpa, episodi in cui la nostra fragilità ha avuto la meglio,
occasioni con cui non ci siamo ancora riconciliati. La coscienza si erge come giudice
implacabile richiamandoci a quanto di colpevole alberga in noi. La persona si
accorge di quanto non si è ancora perdonata, la coscienza fa luce su quegli
angoli bui nei quali avevamo tentato di nascondere oscure memorie. La colpa ci
rende i terribili aguzzini di noi stessi e degli altri, gli implacabili
torturatori capaci di deturpare i nostri volti sino a farne delle orride
maschere. Finiamo per guardarci attorno e dentro di noi stessi e cogliere solo
un unico enorme ammasso di male, mentre la nostra anima diviene dimora di un
unico sentimento: il rifiuto. L’autentico schifo che proviamo verso noi stessi
a volte sembra coinvolgere tutto quanto ci circonda e diveniamo persone che
disperatamente sanno soltanto cogliere il male nel mondo e negli altri. Il
nostro cuore diventa duro e insensibile, incapace di commozione e il male
diventa la scontata essenza di ogni cosa e persona. Il rimorso per il male
commesso, quando diviene il padrone della nostra anima, spegne con meticolosa
perizia ogni barlume di misericordia rendendo arida ed insonne la nostra
esistenza, inaccessibile alla fresca rugiada del perdono.
I NOSTRI
BISOGNI AFFETTIVI
Rimpianti e rimorsi sono
entrambe emozioni che infiacchiscono la nostra vita spirituale rendendola
territorio di conquista di demoni che come torbidi spiriti offuscano i nostri
pensieri e mettono uno contro l’altro il nostro pensare e il nostro agire derubandoci
della nostra libertà (cf. A. Grun, Lacerazioni, ed. Messaggero Padova 2003).
Essi possono anche renderci timorosi di fronte ai nostri attuali bisogni
affettivi, di fronte alle nostre attuali emozioni e affetti. Il passare del
tempo, l’avanzare dell’età dovrebbe renderci più liberi e disponibili a
rapporti in cui sia dato spazio alle emozioni e gli affetti. Ci troviamo invece,
in certi casi, ancora più timidi e paurosi. Travestiamo il nostro bisogno di
attenzione e di affetto con studiate tirannie su chi ci sta attorno e astute
azioni di colpevolizzazione per le persone che si prendono cura di noi.
Esigiamo cose assolutamente inutili solo perché non abbiamo il coraggio e la
libertà di chiedere e donare tenerezza e affetto. Travestiamo il nostro
desiderio di un’attenzione calda e accogliente, con una serie di petulanti
recriminazioni sul colore delle tende o di lagnose lamentele sulla mancanza di
rispetto degli orari o di astiose proteste sul menù del giorno. Ci diciamo,
mentendoci, che ciò che oggi manca è l’ordine, la disciplina, il rispetto,
quando invece ciò che ci manca è un po’ di attenzione, un po’ di tempo concessoci
per raccontarci e provare a dire ciò che stiamo provando, uno sguardo che ci
confermi che è ancora bello esserci qui e ora e avere qualcuno al tuo fianco
che crede in te, si fida di te.
Ci sono a volte persone,
consacrati/e, così turbate dal rimorso che scelgono l’isolamento, il ritiro,
forme di autoesclusione. Ergono una barriera di muta solitudine oltre la quale
vivono incatenati alle dure catene della colpa e del rimorso rendendo difficile,
se non impossibile il contatto, ma, nello stesso tempo continuano a lanciare
mute grida di dolore.
È al contrario necessario,
direi vitale, mantenere la nostra capacità di innamorarci intendendo per
innamoramento quel movimento dell’anima che ci porta fuori di noi stessi, che
ci spinge a decentrarci. Solo mantenendoci in questo stato di innamoramento sapremo
sfuggire al pericolo della pura e semplice sopravvivenza biologica in cui ci si
nutre senza sfamarsi, si beve senza dissetarsi, si dorme senza riposarsi. È il
fatto di essere innamorati che riempie di senso e di sensibilità la nostra
esistenza. Solo l’innamorato sa essere umile, lui solo sa rinunciare alle
proprie esigenze lasciando tutto lo spazio all’altro. “Perché solo se esci dal
tuo Io sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui”. Essere innamorati,
per una persona consacrata, significa saper esercitare i propri sensi alla luce
dello spirito, sapendo cogliere di Dio la bellezza, il gusto, il profumo, la
morbidezza e l’armonia. Non si tratta di lasciarsi andare a manifestazioni
epidermiche, a sensazioni superficiali, che hanno l’unico scopo di procurare
benessere e tranquillità. Dobbiamo comprendere per tempo che non si smette di
innamorarsi quando si invecchia, ma si invecchia quando si smette di
innamorarsi, quando cioè si mette la museruola ai nostri sensi e alle nostre
emozioni, che ricacciate nel buio dell’oblio rendono fredda, arida e
insignificante la nostra esistenza e i nostri rapporti.
Se la castità, che è il
tema attorno al quale si sviluppa e prende corpo la nostra vita affettiva, va
intesa come un processo che esige del tempo, questo scorrere del tempo nella
nostra vita affettiva di consacrati/e non può e non deve corrispondere con lo
spegnersi delle nostre emozioni, né tanto meno di quello che possiamo chiamare
eros. La vitalità affettiva va invece vissuta come un continuo crescendo e ciò
lo si realizza solo vivendo in maniera serena ed efficace il nostro eros
ponendolo a servizio dello scopo della nostra vita: la carità.
LA NOSTRA
STORIA D’AMORE
Ma torniamo alla memoria.
Certo la nostra memoria non è fatta solo di rimorsi e di rimpianti. Sarebbe
come ridurre l’identità personale ad un groviglio di occasioni perdute e di
errori vergognosi. Certamente la memoria ci aiuta anche a comprendere come «la
vita sia costitutivamente fatta di perdite, di assunzione di limiti e di
povertà, di debolezze e negatività» (E. Bianchi, Le parole della spiritualità,
Rizzoli 1999, p. 200), ma essa è anche il filo forte, l’imbastitura che regge
la nostra identità, e si articola anche, e forse prevalentemente, di ricordi,
di incontri, di episodi, i quali, anche se non tutti possono essere definiti
come positivi, costruiscono quell’esperienza unica e irripetibile che è la
nostra vita e nella quale ci riconosciamo.
La memoria è come un
ostinato bussare alla nostra storia personale nel tentativo di dare unità al
grande ammasso di ricordi che spesso ci troviamo a passare in rassegna in modo
confuso. Tale unità può essere raggiunta attraverso l’esercizio del racconto.
Per condividere la propria esperienza attraverso il racconto della propria vita
è necessario apprendere a saper guardare a se stessi senza difendersi, senza
attaccare, senza avallare, ma semplicemente narrandosi. Poter raccontare, o
meglio, poter raccontarsi offre alla persona l’occasione di fare unità delle sue
esperienze per riuscire a dare un senso unitario alla propria esistenza e apre
canali di conoscenza reciproca che altrimenti rimarrebbero interrotti.
Verbalizzare un ricordo, poterlo collegare con un insieme di altri ricordi ci
aiuta a rintracciare i segni di un’unità che a volte ci sembra di non riuscire
a ritrovare. L’esercizio di ricordare il più delle volte non rappresenta un
vaniloquio inconcludente, ma lo sforzo di costituire in unità un’esistenza che
rischierebbe altrimenti di essere frammentata in una serie di immagini
incoerenti e caotiche.
Questo sguardo inoltre ci
aiuta a scorgere quegli interventi della cura amorevole del Dio provvidente di
cui sul momento non ci eravamo resi conto. L’esercizio della memoria è per noi
consacrati/e momento di riconoscimento di una percorso fatto assieme e grazie
all’attenzione amorosa del Padre. Grazie alla memoria raccogliamo ciò che era
andato apparentemente perduto e disperso, ritorniamo a quel centro esistenziale
da cui spesso le preoccupazioni e gli affanni della vita ci avevano esiliato.
La nostra memoria, come quella di qualsiasi altro essere umano, diviene sempre
memoria di una storia d’amore con i suoi momenti di oscurità e di luce. Non
esiste biografia di consacrato che non sia nello stesso tempo storia del suo
rapporto d’amore con Dio, dei momenti di dolce trasporto sino ai momenti di
dubbio o addirittura di tradimento. Ritrovarci a raccontare la nostra storia
significa quindi, per noi consacrati/e, mettere in chiaro il modo con cui ho
portato avanti la mia relazione con la fonte della vita e della storia evitando
la tentazione di vivere un’ottusità spirituale che ci rende insensibili a tali
segni. Il ricordare che mettiamo in atto si esprime dunque mediante un rendere
vigili e attivi tutti i nostri sensi al fine di recuperare tutte, anche le più
infinitesime, tracce lasciate dal Padre nella nostra esistenza. Per un
consacrato/a una memoria che non recuperasse tali segnali di presenza divina
sarebbe simile al freddo recupero di files perduti da parte di un computer, o
alla asettica catalogazione di una serie di eventi che non suscitano alcuna
reazione in noi.
Una tale memoria ci
permette poi di operare una relativizzazione sia dei miei errori, sia delle mie
glorie di modo che né gli uni, né le altre facciano da padroni del mio momento
presente. Relativizzare qui significa che, proprio grazie alla memoria, scorgo
il molto di mistero di cui è intessuta la mia vita passata, presente e futura.
Di quanto vi è che mi supera, mi sopravanza. Di quanto poco io riesca a
illuminare quel miracoloso disegno d’amore il cui significato mi sfugge e a
volte mi spaventa. È questa memoria che mi aiuta a mettere a fuoco l’esigenza
di redenzione che urge nel mio cuore e mi sottrae alla diabolica illusione di
credere di riuscire a salvarmi da solo.
DI FRONTE
ALLA TERZA ETÀ
In un recente e ottimo
volume di Bruno Giordani sulla formazione delle consacrate troviamo un
paragrafo dedicato alla terza età che si apre in maniera un po’ sconfortante:
«Il periodo di vita che inizia col 60° anno di età è segnato dall’acutizzarsi
di una progressiva involuzione, nella quale i fenomeni regressivi e distruttivi
prevalgono su quelli costruttivi.» (B. Giordani, La formazione delle
consacrate, ed. Ancora 2003, p. 113).
Non possiamo ovviamente
nasconderci che l’età avanzata o l’anzianità come la chiama il compianto
Rettore Maggiore dei Salesiani in una sua lettera: «…deve fare i conti con il
decadimento fisico, il rischio dell’involuzione psicologica, il diradarsi dei
rapporti, la separazione dalle responsabilità» (J. Vecchi op cit.). Essa porta
con sé una serie di fragilità, di difficoltà e di minori capacità di resistenza
che portano la persona ad avere sempre più bisogno degli altri. Questo
passaggio dall’autonomia alla dipendenza è una delle situazioni più difficili
da gestire in particolare perché la persona è qui chiamata ad un’autentica
rivoluzione del proprio modo di vedersi e di percepirsi. È l’immagine di sé che
viene messa in discussione insieme all’impianto di motivazioni che fino a quel
momento sostenevano la nostra esistenza e il nostro agire. Potremmo dire che si
compie un’azione di scarnificazione delle motivazioni, man mano che passa il
tempo vengono meno tutte quelle motivazioni di superficie e la persona è
costretta a porsi delle domande radicali relativamente ai motivi delle proprie
scelte e dei propri atteggiamenti e azioni. Ad esempio la gestione del tempo,
sottratto alle esigenze costrittive del lavoro, diventa spesso un problema
quando non si è imparato a vivere anche una cultura dell’otium (P. Henrici, op.
cit. p. 43) in cui il tempo dedicato al riposo non è un tempo perso o che serve
solo nella misura in cui ci è utile a renderci più pronti al lavoro, ma è tempo
dove sviluppare idee più innovative e nel quale la nostra creatività può avere
via libera, tempo in cui c’è spazio per un’attività senza costrizioni che
genera pensiero. Con altre parole, ma con il medesimo significato, Karl Barth
diceva: «L’età anziana si offre all’uomo come la possibilità straordinaria di
vivere non per dovere, ma per grazia».
Dobbiamo dirci, guardando
alle nostre realtà, che a questo tipo di difficoltà e alla gestione di tali
fatiche generalmente non siamo preparati (le congregazioni dovrebbero
impegnarsi di più su questa linea organizzando momenti formativi tesi ad
offrire gli strumenti anche culturali e informativi per un adeguato approccio
all’avanzare dell’età e alle difficoltà che essa comporta sia dal punto di
vista fisiologico che psicologico e spirituale al fine di non lasciare le
persone consacrate sole di fronte a quella che potremmo definire una nuova
chiamata). Le stesse nostre comunità incontrano non poca fatica a gestire tale
tipo di sofferenze che sono di difficile lettura e interpretazione. I fattori
che minano la qualità della vita infatti sono vari e di natura prevalentemente
psicologica e spirituale. Il Giordani ne elenca alcuni
parlando delle donne
consacrate, ma penso che si possano ritenere validi anche per gli uomini:
«…il senso di insufficienza nel lavoro,
la necessità di dipendere dalle altre, lo stato di solitudine in cui la suora
può trovarsi, il disagio nell’accettare le innovazioni nella vita comune, la
fatica nell’adeguarsi ai cambiamenti, la sensazione di venire emarginata dalla
vita di comunità e di non essere più informata sui problemi della vita
comunitaria» (B. Giordani, op. cit., p. 114).
LA CRISI
DELL’AUTOSTIMA
Presi singolarmente tali
fattori non sembrano situazioni insuperabili, ma tutti contribuiscono a mettere
la persona consacrata in uno stato di fatica, di dubbio, di incertezza
soprattutto riguardo a se stessa e al proprio “valore”. Questa fase della vita
è infatti uno dei momenti più difficili relativamente a una giusta valutazione
del proprio valore, la persona consacrata sente messa in crisi la propria
autostima e spinta a sottovalutarsi. Diventa difficile voler bene a se stessi e
si prova una grande riluttanza a prendersi cura di quegli aspetti di sé che ora
ci appaiono scadenti e inaccettabili. Se prima molte erano le occasioni di
rinforzo esterne del proprio concetto di sé, ora tutto questo molto spesso
viene meno e la persona, come dicevamo, deve ritrovare le motivazioni di fondo
per recuperare il senso del proprio valore e della propria autostima. In questo
senso si vive un forte richiamo ad una vita interiore1 che diviene realmente
quell’ambito dove ritroviamo la nostra realtà più autentica, più profonda e
quindi più vera; quell’orizzonte, potente e sconosciuto, la cui influenza si fa
notevolmente sentire, ma che raramente siamo stati aiutati a riconoscere,
incanalare e gestire in modo adeguato.
La persona può scoprire di
essere vissuta come una specie di satellite di ruoli e funzioni che esercitava.
Venendo meno questi riferimenti essa rischia di sentirsi sganciata dagli
elementi di valutazione che le davano stabilità e di fluttuare senza più
parametri e mete. Quindi di fronte al venir meno, alla caducità di tante
situazioni esterne che facevano da supporto alla nostra autovalutazione, la
persona ha una triplice scelta: quella di cercare in tutti i modi di non
perdere le fonti di autostima esterne esigendo ruoli che assicurino loro quei
tributi d’onore che hanno l’unico scopo di puntellare la loro vacillante
identità, attaccandosi «a un determinato ufficio o lavoro, impedendo
addirittura la necessaria sostituzione» (J. Vecchi, op. cit.) impaurita com’è
(tale persona) di non aver altre opportunità, altre possibilità per esprimere e
valorizzare la propria identità. Enzo Bianchi in forma più efficace della mia
dice a questo riguardo: «Nella vita religiosa l’età anziana è pesante e
difficile per chi ha confuso l’operare con la vita di radicale sequela del
Signore, per chi ha fatto della propria attività a servizio dei poveri e della
chiesa lo scopo della vita, dimenticando che ciò che costituisce la vita cristiana
e religiosa è l’obbedienza alla volontà del Signore, mentre tutto il resto sono
semplici occasioni per incarnare questa sequela. L’età anziana pesante per chi
non si è familiarizzato con la solitudine ma si è stordito con l’attività, i
rapporti con le persone, magari in nome della condivisione con i poveri. È
pesante anche per chi, malato di protagonismo, non riesce ad accettare
l’inevitabile dipendenza dagli altri» (E. Bianchi, Le parole della
spiritualità, ed. Rizzoli 1999, p. 209-210); o quella di una triste
contemplazione di ciò che sente di aver perso lasciandosi andare a un
nostalgico rimpianto per ciò che si è verificato essere caduco. A questo
riguardo ricordo le parole del capitano Achab nel capolavoro di Melville che a
un certo punto grida: «Mi sento stracco a morte, piegato, ricurvo come se fossi
Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Dio! Dio!
Dio! spezzami il cuore! sfondami il cervello! beffa! beffa! amara beffa dei
capelli grigi; ho forse provato abbastanza gioia da dovervi portare, e sembrare
e sentirmi tanto insopportabilmente vecchio?» (H. Melville, Moby Dick, ed.
Adelphi 1994, p. 557); o quella di continuare il cammino di approfondimento e
radicamento delle proprie motivazioni, crescendo nel rapporto con il proprio
mondo interiore giungendo a una sempre maggiore intimità con sé e con Dio. In
quest’ultimo caso la persona può giungere a quel vertice della spiritualità in
cui sa riconoscere la fonte del proprio valore nello sguardo misericordioso di
Dio. Lo stesso Enzo Bianchi, anche qui con grande efficacia dice: «Ma l’età
anziana può anche essere serenità, testimonianza della fedeltà di Dio e della
sua misericordia (…). L’età anziana è l’ora in cui guardare a tutto il passato
per unificarlo davanti a Dio, è l’ora per assumere uno sguardo contemplativo su
tutto e su tutti, è l’ora della makrothymia, quella capacità di “sentire in
grande”, vedere in grande che è propria di Dio. È l’ora di affidare i sensi di
colpa e i peccati ala misericordia di Dio, senza rivangare i fallimenti e le
cadute; è l’ora di essere vigilanti e in preghiera più che mai per l’arrivo
dello sposo» (E. Bianchi, ibidem).
DOTI
DA SVILUPPARE
Per rendere effettiva
questa terza opportunità di vivere l’età anziana sottolineo alcune doti da
sviluppare e da coltivare fin da giovani (cf. J. Vecchi, op. cit.):
l’adattabilità intesa come
disponibilità a modificare i propri programmi (che spesso fanno riferimento a
una immagine di noi stessi non più reale), di adeguamento alle nuove condizioni
sia fisiche che sociali, di raggiungimento dei risultati desiderati attraverso
modalità nuove e diverse da quelle utilizzate in precedenza;
la creatività intesa come
capacità di integrare le proprie abilità e conoscenze in visioni molto più
ampie e in iniziative particolarmente stimolanti;
la consapevolezza non solo
del permanere, ma del continuo crescere della nostra dignità e del senso della
nostra presenza.
Oltre a queste doti mi
sembra opportuno sottolineare alcuni atteggiamenti che se sono auspicabili per
tutta la durata della vita lo sono in maniera più accentuata nel corso dell’età
anziana:
l’umiltà intesa come «il
coraggio di guardare in faccia la propria verità» (A. Grun, Lacerazioni, ed.
Messaggero 2003, p. 95), un coraggio questo che ci rende modesti e ci preserva
dal «proiettare sugli altri i nostri repressi e rimossi errori» (ibidem); la
mitezza intesa come quell’amichevolezza che evita ogni acida durezza. «Chi è
stato macinato dalla macina della vita non può giudicare duramente gli altri.
Sa che quello che vede negli altri, accadde anche in lui» (ibidem); la
magnanimità, già citata da Bianchi come makrothymia. Si tratta di avere un
cuore grande e immenso, aperto ai più diversi caratteri, un cuore capace di
offrire accoglienza di lasciare spazio a tutti senza escludere o emarginare
nessuno.
IL DIRITTO
ALLA TRISTEZZA
Non dobbiamo però cadere
nel tranello posto da pensiero contemporaneo il quale sembra poter tollerare
solo persone che sprizzano gioia da tutti i pori. Viviamo sotto il giogo
mediatico che postula attraverso i suoi santoni l’esigenza sociale che tutti si
sia felici e contenti. Ci nutrono di pubblicità dove il dovere di essere felice
viene sempre supportato da qualche prodotto capace di ridonare il sorriso là
dove una qualsiasi situazione l’aveva oscurato. Secondo costoro non c’è bimbo
triste o pensieroso che non possa essere distolto dai suoi pensieri e
ricondotto a un’ebete gaiezza da qualche insulsa merendina, né anziani che non
possano essere distolti dalla loro mestizia da qualche tenero formaggino. Una
persona triste viene colpevolizzata e subito
convinta a cacciare tale
sua tristezza con tutti i mezzi che la chimica odierna mette a disposizione.
Per tutti quei sentimenti o emozioni che siano poco meno che euforici la
persona viene subito invitata a sedare tali stati d’animo “inutili” mediante opportune
pasticche capaci di alterare il corso dei nostri pensieri rendendoli più
accettabili a noi stessi e soprattutto agli altri.
L’intolleranza verso la
tristezza è un rischio che viviamo
anche noi nelle nostre
comunità. Credo invece che dobbiamo riaffermare il nostro diritto anche a
essere tristi, a vivere momenti di infelicità, di abbattimento, di sconforto;
momenti in cui il «dolore giunge al colmo e si vorrebbe allontanare il calice
della sofferenza» (Giovanni Paolo II, catechesi del mercoledì 13 marzo 2002) e
sopprimere quella che dentro di noi esplode come una «domanda lacerante» (ib.).
Vi sono momenti della vita in cui dal nostro cuore «un grido d’aiuto viene
lanciato a un cielo apparentemente muto, (e) le mani si levano nella supplica,
(e) il cuore viene meno per la desolazione” (ib.).
Se l’età che avanza ci fa
vivere sentimenti di perdita e di lutto (le tante «piccole morti» che provocano
dolore e sofferenza)
è opportuno poterli vivere
e anche comunicare senza correre il pericolo di sentirci rinfacciare di vivere
sentimenti non evangelici o contrari allo spirito di famiglia. La comunità non
può e non deve divenire come la pista di un circo dove ci esibiamo mostrando
sempre e solo il nostro sorriso migliore esiliando nella terra di nessuno le
nostre tristezze o delegando agli psicofarmaci la gestione di questi nostri
sentimenti. È vita comunitaria quella dove non solo mi è possibile vivere tutta
intera la gamma dei miei sentimenti e delle mie emozioni, ma dove esse trovano
il luogo in cui poter essere verbalizzate e condivise contribuendo a rinnovare
quella speranza che mai può essere espulsa dal cuore di un consacrato.
Il condividere e quindi il
comunicare ha qui un ruolo di determinante importanza. La comunicazione di cui
parliamo e che vediamo come necessaria è quella che si pone come “naturale
emersione” di aspetti propri all’uomo interiore, di quanto si è venuto formando
all’interno della persona. La nostra comunicazione è efficace nella misura in
cui essa rappresenta un distillato dell’esperienza interiore. In caso contrario
siamo nella chiacchiera utile tutt’al più a riempire degli spazi di
imbarazzante silenzio. Solo una comunicazione capace di attingere alle
profondità della propria esperienza è in grado di superare lo sbarramento
creato dall’overdose di informazioni spesso inutili e difficilmente elaborabili
che continuamente ci propina la società mediatica in cui viviamo, quell’oceano
di parole, segni, immagini e suoni che generano in noi un grande senso di
impotenza.
Offro qui di seguito una
specie di cammino a livelli verso una adeguata comunicazione:
un primo livello lo abbiamo
nella comunicazione stereotipata (quella che si articola intorno a domande
come: che tempo farà? Come stai? Come sta la tua famiglia? Dove sei stato?
ecc.). Questo è il livello più basso del desiderio di condivisione. Ognuno qui
protegge se stesso senza offrire alcuna possibilità di incontro.
Un secondo livello ha come
punto centrale e unico la comunicazione dei fatti altrui (ci si racconta di
Tizio e di Caio che hanno fatto questo e quello senza però offrire alcun
commento personale che potrebbe svelare qualcosa di noi).
A un terzo livello comincio
a esprimere le mie idee e i miei giudizi (si comincia qui a rompersi
l’isolamento nel quale mi ero chiuso, accetto di valutare la possibilità di
essere accettato, compreso amato);
Nel quarto livello
assistiamo alla comunicazione dei nostri sentimenti (è a questo livello che la
fraternità si dà come effettiva possibilità. Comincio a consentire all’altro ad
entrare nella realtà che io sto vivendo ora. Siamo partner a pieno titolo di un
gioco che ha come scopo quello di costruire vita fraterna).
Il quinto livello
rappresenta l’apice della comunicazione umana (è l’empatia sorretta dalla
genuinità e dall’accettazione incondizionata. Riesco a mettermi al tuo posto, a
vedere come tu vedi. Si giunge a un sentire comune pur nella distinzione dei
vissuti. Non entrano in rapporto le rispettive facciate, le nostre maschere
artificiali, ma ciò che realmente sentiamo. Ciò che più profondamente comunico
è che tu mi interessi, la tua vita mi interessa, ciò che provi e senti mi
interessa e desidero ascoltarti).
Al settimo livello troviamo
l’apice della comunicazione fraterna (a questo livello si vive la condivisione
dei beni dello spirito. E si giunge a gareggiare nella stima vicendevole. Si
incarnano le parole di Paolo nella lettera ai Romani: “Abbiate gli stessi
sentimenti gli uni verso gli altri…” (Rm, 12,16).
IL DIRITTO
ALLA SOLITUDINE
Spesso ci viene presentata
la solitudine come uno dei sintomi premonitori dell’età anziana. Anche nelle
canzoni o nell’immaginario popolare la persona anziana è una persona sola,
quando non abbandonata, dimenticata. Lo scorrere della vita appare così come un
progressivo essere risucchiati nella solitudine, un processo di perdita dei
contatti che ci lascia mano a mano nel vuoto.
Quello che in tal modo ci
viene presentato è quello che possiamo definire non tanto solitudine quanto
invece isolamento; il processo cioè in cui la persona diviene un’isola senza
più contatti, immersa nel vuoto delle comunicazioni e degli scambi, ospite di
una terra dove solo può «sbocciare l’erba maligna dell’infelicità o compiersi
la morte dell’amore» (G.F. Ravasi, Mattutino, in Avvenire del 15 febbraio 2003,
p. 1). Nell’isolamento si alzano i ponti levatoi e si chiudono le brecce ancora
aperte: murandoci, e imprigionandoci, nel silenzio del cuore e nel deserto
della speranza. Si vive «un’assenza di comunione e di presenza fraterna, che
genera frustrazione e ci fa sentire senza appoggio, malsicuri e in balia degli
avvenimenti» (B. Goya, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB 2002, pp.
124-125).
Contro l’isolamento
dobbiamo impegnarci sia come singoli che come istituzioni. L’isolamento va
evitato per chiunque, tanto più per una persona che sta avviandosi verso le
fasi finali della sua esistenza e che rischia di vedere acutizzati certi suoi
timori sino a renderli pervasivi dell’intera esistenza, spingendo la persona
verso un’insondabile vuoto.
La solitudine invece è una
caratteristica, direi un dono, che va recuperato man mano che avanziamo
nell’età proprio perché: «La vita rimane sana solo quando continuamente rinnova
l’esperienza della solitudine» (R. Guardini, Libertà-grazia-destino, ed.
Morcelliana 1968).
Perché dico recuperato?
Perché il dono di saper stare da soli noi ce l’avevamo nell’infanzia. Il
bambino sa stare da solo, e lo stare da solo lo aiuta a crescere e maturare
suoi specifici rapporti con il mondo, le persone, le cose e anche con il
trascendente. La solitudine del bambino è una nuova placenta che lo aiuta nella
conquista della sua identità.
Questa capacità riappare
verso l’adolescenza per poi eclissarsi per un periodo più o meno lungo, in
alcuni per sempre.
Credo invece che di questa
capacità, anzi di questo dono di saper stare da soli vada fatta una
rivalutazione proprio man mano che l’età avanza e che vengono meno le tante
distrazioni. Infatti: «La capacità di vivere la solitudine come centro
interiore da cui il soggetto prende forza e determinazione, come un trampolino
che permetta uno slancio di tutto l’essere, è una ricchezza per l’individuo
come per la società» (J-F. Six) ed è da questa solitudine che può nascere
quella saggezza che «permette alla persona di elevarsi al di sopra delle cose
senza sminuirle e di osservare la realtà, anche passata, con gli occhi e il
cuore di Dio» (R.A. Martino, Religiose anziane: una risorsa da riscoprire II,
in Consacrazione e Servizio dicembre 2002).
La solitudine di cui parlo
quindi è quella che ci sottrae all’imperante logica del branco, al rumore di
fondo del chiacchiericcio televisivo vano che serve solo a distrarci e a
gettarci in una banale superficialità, agli obblighi rumorosi della vita sociale
quotidiana. È la solitudine che permette di incontrare se stessi, di
ascoltarsi, di penetrare nel segreto della coscienza. «Lo stare da soli
contiene in sé il germe della riflessione, della maturazione, della finezza
spirituale, della stessa contemplazione» (ib). Grazie alla solitudine
acquisiamo la capacità di mantenere una giusta distanza dagli eventi,
rendendoci più sensibili alle cose essenziali. «Questo inoltrarsi nella
solitudine, nello spazio dell’io stesso con se stesso, è dovere, e spesso assai
pesante, poiché l’uomo viene qui in contatto con le potenze e le tensioni del
suo intimo, con le esigenze incalzanti della sua coscienza» (R. Guardini, op.
cit.), ma rinunciano ad affrontare tale fatica solo «coloro che non hanno sete
della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa (la solitudine
ndr) costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore»
(Marie Madeleine Davy). Un gusto, quello della solitudine così intesa, che ci
permette di assaporare più pienamente il senso della nostra originalità e
libertà facendoci scoprire la nostra autentica capacità di amare e aprendoci a
nuove prospettive di creatività.
PER NON
CONCLUDERE
Per non concludere e
lasciare aperta la riflessione vorrei offrirvi una poesia poco nota del grande
scrittore Solzenicyn che ci mostra come un atteggiamento di fede profonda ci
chiama a vivere gli inevitabili lutti e distacchi della vita con la certezza che
esiste un Lui che non solo si preoccupa di noi ma anche ci dà il necessario per
vivere l’ora che stiamo attraversando senza rammaricarci del tanto che ancora
rimane da compiere e che lasciamo come compito ad altri:
Com’è facile vivere con te,
Signore!
Com’è facile credere in te!
Quando il mio intelletto
confuso
si ritira o viene meno,
quando gli uomini più
intelligenti
non vedono al di là di
questa sera
e non sanno che fare
domani,
tu mi concedi la chiara
certezza
che esisti e ti preoccupi
perché non vengano sbarrate
tutte le vie che portano al
bene.
Sulla cresta della gloria
terrena
io mi volto indietro
stupito
a guardare la strada
percorsa
dalla disperazione a questo
punto
donde fu dato a me
comunicare
all’umanità un riflesso dei
tuoi raggi.
Dammi quanto m’è necessario
perché continui a
rifletterli
e per quello che non riesco
a fare
so che tu hai destinato
altri a compierlo.
Fr. Carlo Toninello
1 “Il religioso può vivere
questi momenti come una fortuna unica di lasciarsi penetrare dall’esperienza
pasquale del Signore Gesù fino a desiderare di morire per ‘essere con Cristo’,
in coerenza con la sua opzione di partenza: conoscere Cristo, l’efficacia della
sua resurrezione, la partecipazione ai suoi patimenti, conformandosi a lui
nella morte, con la speranza di giungere anche lui alla resurrezione dai
morti.” - Direttive sulla formazione negli istituti religiosi, Roma 1990, n.
70.