LA VERGINITÀ PER IL REGNO (2)

IL DONO DELLA VERGINITÀ

 

Considerarla come un “dono” significa supporre una preferenza o esclusione di persone? Se è un dono, è a disposizione di tutti. Come intenderlo?

 

Siamo stati tutti formati secondo un’idea molto chiara al riguardo: la verginità è vocazione straordinaria che solo ad alcuni è dato intendere, come una “eccezione sociologica”, che spesso finisce per essere giudicata dai più come scelta molto strana, o addirittura come una causa dell’attuale crisi vocazionale.

Nessun dubbio che tale vocazione, come ogni chiamata, sia qualcosa di speciale e misterioso, ma forse è possibile un’altra interpretazione, che ne metta ancor meglio in evidenza la natura di dono e di dono venuto dall’alto.

 

DONO

PER TUTTI

 

Un carisma, come ben sappiamo, è dono che Dio fa a un credente per il bene di tutti, “per l’edificazione della comunità” (1Cor 14,12). In tal senso il vergine è totalmente libero per dedicarsi interamente al servizio del popolo di Dio e all’annuncio della buona novella. Ma non si tratta solo di questo, d’una utilità comune funzionale, di tempo ed energie; la verginità testimoniata dal celibe per il regno è dono per tutti perché indica in qualche modo la vocazione di tutti. Verginità, infatti, non significa assenza-astinenza di relazioni, ma capacità-qualità di relazioni, a partire da quella che è all’origine della vita umana: la relazione con Dio. Verginità cristiana vuol dire possibilità d’un rapporto immediato (=senza mediazioni) della creatura con il Creatore. Più precisamente la verginità è espressione dell’origine dell’uomo, creato da Dio, e dunque anche della sua destinazione finale, che è Dio stesso. Essa svela quel legame profondo e misterioso che unisce direttamente ogni essere umano a colui che l’ha creato, facendogli cercare e trovare solo in lui il pieno appagamento del suo bisogno d’amore. La prima e ultima sponsalità dell’uomo è con Dio, come una verginità sponsale.

Cerchiamo di capire meglio.

 

Vocazione universale

 

In fondo si potrebbe dire, per quanto possa sembrare paradossale ed eccessivo, che ogni uomo è già vergine e chiamato a diventarlo o a vivere una certa verginità, certo secondo la specificità della sua vocazione, e non nel senso che debba astenersi da una certa relazione, ma perché deve comprendere che nel suo cuore, come in quello dell’altro e d’ogni essere umano, c’è uno spazio che soltanto l’amore di Dio può riempire, o c’è una solitudine insopprimibile che nessuna creatura potrà violare e pretendere di riempire.1

Proprio questo è il mistero dell’essere umano! Il suo cuore è fatto “da Dio” e dunque “per Dio”, possiede una grandezza che gli viene direttamente da colui che l’ha fatto.

 

Dio origine

e termine d’ogni amore

 

E se la verginità è memoria delle origini e profezia del futuro, non può esser ridotta a pura caratteristica d’uno stato vocazionale né significa immediatamente ed esclusivamente una scelta esplicita di vita fatta solo da alcuni, ma ancor prima significa la scoperta che Dio è origine e fine d’ogni amore; che ogniqualvolta un essere ama, lì Dio è presente o è il vero oggetto dell’amore anche se quell’essere non lo sa o l’esclude, perché l’amore è sempre amore di Dio (così come ogni desiderio è alla radice desiderio di Dio), perché Dio è amore, è lui all’inizio e al termine d’esso, e chi ama “è generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7).

Proprio questo è il senso della storia dello studentello universitario, a suo tempo educato nella fede, che ritornò al paese per le vacanze. Il ragazzo aveva imparato qualcosa di Freud. Incontrò sulla piazza il suo parroco. Dopo qualche convenevole l’ex-chierichetto, ormai anche ex-credente, con fare sufficiente gli butta lì la grande scoperta: «La gente che viene in chiesa non viene per fede, ma per sublimazione dell’impulso sessuale. Lo sapeva?» Il vecchio parroco non si scompone; anche se non conosce granché né Freud né il termine “sublimazione”, ma sa qualcosa dei desideri e delle contraddizioni umane. Con molta pacatezza, allora, gli ribatte: «E io sai che ti dico? Che quando suoni alla porta del casino, tu credi di cercare la carne d’una donna: in realtà stai cercando Dio».

 

Quello spazio del cuore

da rispettare

 

Se ciò è vero ogni affetto terreno che voglia rimanere per sempre ed esser intenso ha tutto l’interesse di far posto in qualche modo a Dio e all’amore divino, di lasciare a lui il centro. Che vuol dire che amore divino e umano non sono in conflitto tra loro; anzi l’affetto umano, anche quello più felice, coniugale o paterno-materno o amicale, è tanto più amore quanto più è “verginale”, ovvero è tanto più benevolenza umana quanto più impara a rispettare quello spazio, quel riferimento diretto al Creatore; non pretende saziare definitivamente la sete d’amore dell’altro né esserne saziato, poiché soltanto Dio può rispondere in pienezza alla sete d’amore umana. E se davvero l’uomo vuole amare molto, per sempre e con libertà il suo simile, deve accogliere l’amore di Dio in sé, per lasciarsi amare da lui e amarlo, e non aver così bisogno di caricare la relazione umana di responsabilità eccessive o aspettative irrealistiche (“tu devi appagare il mio bisogno affettivo”), con quel seguito di gelosie, dipendenze, infantilismi, appartenenze corte, fedeltà deboli e quant’altro va a incrinare l’umana relazione priva di riferimento trascendente.

 

LA RESPONSABILITA’

DEL VERGINE

 

Quanto fin qui detto è vero, lo crediamo perché parte d’un disegno antropologico che viene dalla fede, ma sembra troppo ideale e così distante dalla realtà che stiamo vivendo, dalla cultura che respirano i nostri giovani, in cui di vergine sembra rimasto ben poco oltre l’olio d’oliva e certa pura lana. Riconosciamo pure che la verginità, e questa interpretazione della verginità, è una verità debole nella cultura odierna (e certo non solo in quella d’oggi).

Ma dire questo non significa affatto concludere che sia impossibile proporre questa stessa verità, semmai tutto ciò carica di particolare responsabilità la testimonianza e la qualità della testimonianza che il vergine deve dare della sua scelta.

 

Verità debole,

scelta forte

 

Anzi, per esser più precisi, una verità debole può esser creduta o presa in considerazione, oggi come ieri, solo se proclamata in modo “forte”, con una testimonianza che in qualche modo vada all’estremo, e che “dica” il primato di Dio nell’amore umano con una scelta radicale, con la rinuncia all’amore pur desideratissimo d’una creatura che sia tua per sempre. Ecco perché nella chiesa di Dio è importante la scelta verginale, non perché alcuni possano tendere più speditamente alla loro perfezione (attenzione, esiste anche l’egoismo spirituale!), ma per “ricordare” a tutti la vocazione di tutti, per fare memoria del dono e del mistero che è presente nel cuore di ogni vivente, per non dimenticare le possibilità insospettate di questo cuore.

Ma tutto ciò solo a una condizione importantissima e direttamente consequenziale.

 

Testimonianza limpida

e inequivocabile

 

Se davvero la verginità è verità debole che non possiede altra forza al di fuori della testimonianza di chi l’ha scelta, allora è indispensabile che il messaggio sia nitido e senz’alcuna sbavatura, chiaro e senz’alcun compromesso, subito leggibile e percepibile come qualcosa di bello e appagante, di pienamente umano e in funzione dell’umana realizzazione; altrimenti, se il messaggio parte già poco chiaro e poco limpido, con il virus di qualche equivoco contaminante o di qualche ambiguità comportamentale, allora non può certo arrivare a destinazione né trasmettere una verità già debole nella cultura attuale.

Non si tratta, dunque, semplicemente di esser fedeli ai propri voti, magari in vista della propria perfezione, quanto di sentirsi responsabili d’un messaggio (e della verità in esso contenuta) che può esser trasmesso solo attraverso la propria testimonianza, lineare e trasparente, ma che va in ogni caso trasmesso perché riguarda il bene e la verità degli altri. Questa preoccupazione responsabilizzante per il bene altrui è senz’altro più esigente e rigorosa di qualsiasi moralismo o perfezionismo circa il proprio comportamento in materia. Da essa viene quell’attenzione coscienziosa perché ogni gesto, parola, atteggiamento, stile comportamentale, relazione interpersonale o amicale…, testimoni la centralità e unicità dell’amore di Dio nella nostra vita, con la rinuncia che ne segue, o sia capace di raccontare, nell’incerta fragilità dell’amore terreno, la solidità e tenerezza dell’amore dell’Eterno.

 

PER UNA VERIFICA

 

La articoliamo attorno a quattro punti.

 

Dono da condividere

o proprietà privata

 

Anzitutto si tratta di chiederci se abbiamo questa idea di verginità, come dono da condividere, o se ancora preferiamo pensare al voto di castità entro un’ottica finalizzata alla nostra perfezione privata, come cosa esclusivamente nostra. Più in concreto:

 

– abbiamo forse sequestrato l’idea di verginità, rendendola cosa strana e improbabile, persino indecifrabile;

– ce ne siamo sottilmente vantati, rendendola antipatica e supponente;

– l’abbiamo spesso sopportata con poca gioia e scarso amore, rendendola poco umana e ancor meno appetibile, quasi fosse una sventura;

– ce ne siamo vergognati, sia quando non abbiamo saputo dare “le ragioni della nostra speranza”, sia quando ci siamo mimetizzati, troppo preoccupati di apparire come gli altri;

– ci siamo accontentati di difenderla dal mondo tentatore, nascondendola sotterra (cf. Mt 25,25) o in un fazzoletto (?) (cf. Lc 19,20), invece di condividerla.

 

Forse al termine della vita il Signore ci chiederà non solo se abbiamo “osservato” la verginità, ma se l’abbiamo resa contagiosa, fonte di verità per gli altri…

 

Educatori alla verginità

o vergini virtuali

 

È il caso allora di chiederci se in quanto educatori abbiamo saputo offrire ai nostri giovani dei percorsi praticabili di maturazione affettiva nei quali anche la prospettiva verginale riesce a trovare il suo posto; o se, invece, non ne parliamo mai, perché

 

– abbiamo paura di proporla agli altri,

– o non sappiamo trovare le parole adatte e ci sentiamo imbarazzati a parlare di verginità,

– o la riteniamo una battaglia persa in partenza o impari,

– o temiamo di esser considerati non abbastanza moderni e non esser compresi o che qualcuno ci pianti lì,

– o la sussurriamo solo di nascosto e solo a qualcuno.

 

In realtà non c’è nulla di più impuro del silenzio del vergine sulla verginità! E se c’è crisi vocazionale, è determinata dal celibato o dal silenzio su di esso?

L’esser educatori diventa per noi grande sfida e opportunità, ma anche ciò che ci fa subito capire livello e qualità della nostra verginità: se ne siamo innamorati o siamo solo vergini virtuali, dal cuore di plastica.

 

Celibato vivibile

o invivibile

 

Testimoniare la verginità perché anche gli altri ne sentano il fascino e siano vergini, aiuta a vivere meglio la stessa castità con le rinunce che esige. È il solito principio psicologico, secondo il quale

 

– ciò che si fa solo o soprattutto per se stessi (anche se in sé buono) diventa anche molto difficile da vivere  bene e ancor più pesante e complicato;

– mentre quando l’impegno personale è finalizzato al bene altrui (e io mi sento chiamato a vivere la mia verginità per gli altri), quello stesso impegno diventa molto più possibile e vivibile e la rinuncia sopportabile.

 

O, su un piano più elevato, è la conferma della verginità come carisma: solo chi la rispetta nella sua natura di dono ricevuto per il bene e la felicità degli altri, la può vivere serenamente e goderla come una beatitudine, altrimenti è solo una penitenza.

Forse è anche questo che spiega la tensione eccessiva, in alcuni, nel vivere il celibato, sentito come un peso così pesante da spingere questi “affaticati e oppressi” (cf Mt 11,28) a cercare qua e là compensazioni varie. Senza esser mai beati.

 

Sensibili

o incuranti

 

C’è un’altra differenza davvero discriminante tra questi due modi d’intendere la verginità: rivolto all’altro o ripiegato su di sé.

 

– Il primo sta attento agli altri/e e alla loro sensibilità, tiene conto dell’ambiente e della mentalità del posto, non si permette tutte le libertà con la scusa che per lui va tutto bene e tutto è lecito, s’interroga sulle reazioni o attese che il suo stile comportamentale-relazionale suscita nella gente e in particolare in alcune persone, se ne sente in qualche modo responsabile ed è disposto a scrutarsi e riconoscere eventuali sue imprudenze o modi equivoci, soffre se ha creato disagio.

– Il secondo, invece, quello legato alla vecchia idea del celibato come semplice strumento di perfezione personale, darà molto meno rilievo a tutto ciò, per lui è meno importante il versante dell’altro, quel che gli preme è star bene lui dentro di sé e giustificarsi in ogni caso, e di fatto si giustifica, anche quando sembra giocare con i sentimenti altrui, con scuse tanto ripetitive quanto irresponsabili: “non ho mica fatto nulla di male…, è lei che ha il problema, io non sento niente..., sono le altre che sono gelose…e poi non sono mica un pezzo di ghiaccio, ho anch’io la mia umanità…”.

 

Scuse vecchie come il cucco; come la propria verginità che sta perdendo ogni freschezza ed entusiasmo giovanile e non ha più niente da dire e da dare.

 

Amedeo Cencini

 

 

1 Così Ravasi: “anche i coniugi cristiani dovrebbero avere nella loro esistenza matrimoniale un seme di verginità, intesa non come mera astinenza sessuale , ma come desiderio di donazione pura e assoluta per il regno di Dio e la sua giustizia”.