LA VERGINITÀ PER IL REGNO
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IL DONO DELLA VERGINITÀ
Considerarla come un “dono” significa supporre una
preferenza o esclusione di persone? Se è un dono, è a disposizione di tutti.
Come intenderlo?
Siamo stati tutti formati
secondo un’idea molto chiara al riguardo: la verginità è vocazione
straordinaria che solo ad alcuni è dato intendere, come una “eccezione
sociologica”, che spesso finisce per essere giudicata dai più come scelta molto
strana, o addirittura come una causa dell’attuale crisi vocazionale.
Nessun dubbio che tale
vocazione, come ogni chiamata, sia qualcosa di speciale e misterioso, ma forse
è possibile un’altra interpretazione, che ne metta ancor meglio in evidenza la
natura di dono e di dono venuto dall’alto.
DONO
PER TUTTI
Un carisma, come ben
sappiamo, è dono che Dio fa a un credente per il bene di tutti, “per
l’edificazione della comunità” (1Cor 14,12). In tal senso il vergine è
totalmente libero per dedicarsi interamente al servizio del popolo di Dio e
all’annuncio della buona novella. Ma non si tratta solo di questo, d’una
utilità comune funzionale, di tempo ed energie; la verginità testimoniata dal
celibe per il regno è dono per tutti perché indica in qualche modo la vocazione
di tutti. Verginità, infatti, non significa assenza-astinenza di relazioni, ma
capacità-qualità di relazioni, a partire da quella che è all’origine della vita
umana: la relazione con Dio. Verginità cristiana vuol dire possibilità d’un
rapporto immediato (=senza mediazioni) della creatura con il Creatore. Più
precisamente la verginità è espressione dell’origine dell’uomo, creato da Dio,
e dunque anche della sua destinazione finale, che è Dio stesso. Essa svela quel
legame profondo e misterioso che unisce direttamente ogni essere umano a colui
che l’ha creato, facendogli cercare e trovare solo in lui il pieno appagamento
del suo bisogno d’amore. La prima e ultima sponsalità dell’uomo è con Dio, come
una verginità sponsale.
Cerchiamo di capire meglio.
Vocazione universale
In fondo si potrebbe dire,
per quanto possa sembrare paradossale ed eccessivo, che ogni uomo è già vergine
e chiamato a diventarlo o a vivere una certa verginità, certo secondo la
specificità della sua vocazione, e non nel senso che debba astenersi da una
certa relazione, ma perché deve comprendere che nel suo cuore, come in quello
dell’altro e d’ogni essere umano, c’è uno spazio che soltanto l’amore di Dio
può riempire, o c’è una solitudine insopprimibile che nessuna creatura potrà
violare e pretendere di riempire.1
Proprio questo è il mistero
dell’essere umano! Il suo cuore è fatto “da Dio” e dunque “per Dio”, possiede
una grandezza che gli viene direttamente da colui che l’ha fatto.
Dio origine
e termine d’ogni amore
E se la verginità è memoria
delle origini e profezia del futuro, non può esser ridotta a pura
caratteristica d’uno stato vocazionale né significa immediatamente ed esclusivamente
una scelta esplicita di vita fatta solo da alcuni, ma ancor prima significa la
scoperta che Dio è origine e fine d’ogni amore; che ogniqualvolta un essere
ama, lì Dio è presente o è il vero oggetto dell’amore anche se quell’essere non
lo sa o l’esclude, perché l’amore è sempre amore di Dio (così come ogni
desiderio è alla radice desiderio di Dio), perché Dio è amore, è lui all’inizio
e al termine d’esso, e chi ama “è generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7).
Proprio questo è il senso
della storia dello studentello universitario, a suo tempo educato nella fede,
che ritornò al paese per le vacanze. Il ragazzo aveva imparato qualcosa di
Freud. Incontrò sulla piazza il suo parroco. Dopo qualche convenevole
l’ex-chierichetto, ormai anche ex-credente, con fare sufficiente gli butta lì
la grande scoperta: «La gente che viene in chiesa non viene per fede, ma per
sublimazione dell’impulso sessuale. Lo sapeva?» Il vecchio parroco non si
scompone; anche se non conosce granché né Freud né il termine “sublimazione”,
ma sa qualcosa dei desideri e delle contraddizioni umane. Con molta pacatezza,
allora, gli ribatte: «E io sai che ti dico? Che quando suoni alla porta del
casino, tu credi di cercare la carne d’una donna: in realtà stai cercando Dio».
Quello spazio del cuore
da rispettare
Se ciò è vero ogni affetto
terreno che voglia rimanere per sempre ed esser intenso ha tutto l’interesse di
far posto in qualche modo a Dio e all’amore divino, di lasciare a lui il
centro. Che vuol dire che amore divino e umano non sono in conflitto tra loro;
anzi l’affetto umano, anche quello più felice, coniugale o paterno-materno o
amicale, è tanto più amore quanto più è “verginale”, ovvero è tanto più
benevolenza umana quanto più impara a rispettare quello spazio, quel riferimento
diretto al Creatore; non pretende saziare definitivamente la sete d’amore
dell’altro né esserne saziato, poiché soltanto Dio può rispondere in pienezza
alla sete d’amore umana. E se davvero l’uomo vuole amare molto, per sempre e
con libertà il suo simile, deve accogliere l’amore di Dio in sé, per lasciarsi
amare da lui e amarlo, e non aver così bisogno di caricare la relazione umana
di responsabilità eccessive o aspettative irrealistiche (“tu devi appagare il
mio bisogno affettivo”), con quel seguito di gelosie, dipendenze, infantilismi,
appartenenze corte, fedeltà deboli e quant’altro va a incrinare l’umana
relazione priva di riferimento trascendente.
LA RESPONSABILITA’
DEL VERGINE
Quanto fin qui detto è
vero, lo crediamo perché parte d’un disegno antropologico che viene dalla fede,
ma sembra troppo ideale e così distante dalla realtà che stiamo vivendo, dalla
cultura che respirano i nostri giovani, in cui di vergine sembra rimasto ben
poco oltre l’olio d’oliva e certa pura lana. Riconosciamo pure che la
verginità, e questa interpretazione della verginità, è una verità debole nella
cultura odierna (e certo non solo in quella d’oggi).
Ma dire questo non
significa affatto concludere che sia impossibile proporre questa stessa verità,
semmai tutto ciò carica di particolare responsabilità la testimonianza e la
qualità della testimonianza che il vergine deve dare della sua scelta.
Verità debole,
scelta forte
Anzi, per esser più
precisi, una verità debole può esser creduta o presa in considerazione, oggi
come ieri, solo se proclamata in modo “forte”, con una testimonianza che in
qualche modo vada all’estremo, e che “dica” il primato di Dio nell’amore umano
con una scelta radicale, con la rinuncia all’amore pur desideratissimo d’una
creatura che sia tua per sempre. Ecco perché nella chiesa di Dio è importante
la scelta verginale, non perché alcuni possano tendere più speditamente alla
loro perfezione (attenzione, esiste anche l’egoismo spirituale!), ma per
“ricordare” a tutti la vocazione di tutti, per fare memoria del dono e del
mistero che è presente nel cuore di ogni vivente, per non dimenticare le
possibilità insospettate di questo cuore.
Ma tutto ciò solo a una
condizione importantissima e direttamente consequenziale.
Testimonianza limpida
e inequivocabile
Se davvero la verginità è
verità debole che non possiede altra forza al di fuori della testimonianza di
chi l’ha scelta, allora è indispensabile che il messaggio sia nitido e
senz’alcuna sbavatura, chiaro e senz’alcun compromesso, subito leggibile e percepibile
come qualcosa di bello e appagante, di pienamente umano e in funzione
dell’umana realizzazione; altrimenti, se il messaggio parte già poco chiaro e
poco limpido, con il virus di qualche equivoco contaminante o di qualche
ambiguità comportamentale, allora non può certo arrivare a destinazione né
trasmettere una verità già debole nella cultura attuale.
Non si tratta, dunque,
semplicemente di esser fedeli ai propri voti, magari in vista della propria
perfezione, quanto di sentirsi responsabili d’un messaggio (e della verità in
esso contenuta) che può esser trasmesso solo attraverso la propria testimonianza,
lineare e trasparente, ma che va in ogni caso trasmesso perché riguarda il bene
e la verità degli altri. Questa preoccupazione responsabilizzante per il bene
altrui è senz’altro più esigente e rigorosa di qualsiasi moralismo o
perfezionismo circa il proprio comportamento in materia. Da essa viene
quell’attenzione coscienziosa perché ogni gesto, parola, atteggiamento, stile
comportamentale, relazione interpersonale o amicale…, testimoni la centralità e
unicità dell’amore di Dio nella nostra vita, con la rinuncia che ne segue, o
sia capace di raccontare, nell’incerta fragilità dell’amore terreno, la
solidità e tenerezza dell’amore dell’Eterno.
PER UNA VERIFICA
La articoliamo attorno a
quattro punti.
Dono da condividere
o proprietà privata
Anzitutto si tratta di
chiederci se abbiamo questa idea di verginità, come dono da condividere, o se
ancora preferiamo pensare al voto di castità entro un’ottica finalizzata alla
nostra perfezione privata, come cosa esclusivamente nostra. Più in concreto:
– abbiamo forse sequestrato
l’idea di verginità, rendendola cosa strana e improbabile, persino
indecifrabile;
– ce ne siamo sottilmente
vantati, rendendola antipatica e supponente;
– l’abbiamo spesso
sopportata con poca gioia e scarso amore, rendendola poco umana e ancor meno
appetibile, quasi fosse una sventura;
– ce ne siamo vergognati,
sia quando non abbiamo saputo dare “le ragioni della nostra speranza”, sia
quando ci siamo mimetizzati, troppo preoccupati di apparire come gli altri;
– ci siamo accontentati di
difenderla dal mondo tentatore, nascondendola sotterra (cf. Mt 25,25) o in un
fazzoletto (?) (cf. Lc 19,20), invece di condividerla.
Forse al termine della vita
il Signore ci chiederà non solo se abbiamo “osservato” la verginità, ma se
l’abbiamo resa contagiosa, fonte di verità per gli altri…
Educatori alla verginità
o vergini virtuali
È il caso allora di
chiederci se in quanto educatori abbiamo saputo offrire ai nostri giovani dei
percorsi praticabili di maturazione affettiva nei quali anche la prospettiva
verginale riesce a trovare il suo posto; o se, invece, non ne parliamo mai, perché
– abbiamo paura di proporla
agli altri,
– o non sappiamo trovare le
parole adatte e ci sentiamo imbarazzati a parlare di verginità,
– o la riteniamo una
battaglia persa in partenza o impari,
– o temiamo di esser
considerati non abbastanza moderni e non esser compresi o che qualcuno ci
pianti lì,
– o la sussurriamo solo di
nascosto e solo a qualcuno.
In realtà non c’è nulla di
più impuro del silenzio del vergine sulla verginità! E se c’è crisi
vocazionale, è determinata dal celibato o dal silenzio su di esso?
L’esser educatori diventa
per noi grande sfida e opportunità, ma anche ciò che ci fa subito capire
livello e qualità della nostra verginità: se ne siamo innamorati o siamo solo
vergini virtuali, dal cuore di plastica.
Celibato vivibile
o invivibile
Testimoniare la verginità
perché anche gli altri ne sentano il fascino e siano vergini, aiuta a vivere
meglio la stessa castità con le rinunce che esige. È il solito principio
psicologico, secondo il quale
– ciò che si fa solo o
soprattutto per se stessi (anche se in sé buono) diventa anche molto difficile
da vivere bene e ancor più pesante e
complicato;
– mentre quando l’impegno
personale è finalizzato al bene altrui (e io mi sento chiamato a vivere la mia
verginità per gli altri), quello stesso impegno diventa molto più possibile e
vivibile e la rinuncia sopportabile.
O, su un piano più elevato,
è la conferma della verginità come carisma: solo chi la rispetta nella sua
natura di dono ricevuto per il bene e la felicità degli altri, la può vivere
serenamente e goderla come una beatitudine, altrimenti è solo una penitenza.
Forse è anche questo che
spiega la tensione eccessiva, in alcuni, nel vivere il celibato, sentito come
un peso così pesante da spingere questi “affaticati e oppressi” (cf Mt 11,28) a
cercare qua e là compensazioni varie. Senza esser mai beati.
Sensibili
o incuranti
C’è un’altra differenza
davvero discriminante tra questi due modi d’intendere la verginità: rivolto
all’altro o ripiegato su di sé.
– Il primo sta attento agli
altri/e e alla loro sensibilità, tiene conto dell’ambiente e della mentalità
del posto, non si permette tutte le libertà con la scusa che per lui va tutto
bene e tutto è lecito, s’interroga sulle reazioni o attese che il suo stile
comportamentale-relazionale suscita nella gente e in particolare in alcune
persone, se ne sente in qualche modo responsabile ed è disposto a scrutarsi e
riconoscere eventuali sue imprudenze o modi equivoci, soffre se ha creato
disagio.
– Il secondo, invece,
quello legato alla vecchia idea del celibato come semplice strumento di
perfezione personale, darà molto meno rilievo a tutto ciò, per lui è meno
importante il versante dell’altro, quel che gli preme è star bene lui dentro di
sé e giustificarsi in ogni caso, e di fatto si giustifica, anche quando sembra
giocare con i sentimenti altrui, con scuse tanto ripetitive quanto
irresponsabili: “non ho mica fatto nulla di male…, è lei che ha il problema, io
non sento niente..., sono le altre che sono gelose…e poi non sono mica un pezzo
di ghiaccio, ho anch’io la mia umanità…”.
Scuse vecchie come il
cucco; come la propria verginità che sta perdendo ogni freschezza ed entusiasmo
giovanile e non ha più niente da dire e da dare.
Amedeo Cencini
1 Così Ravasi: “anche i
coniugi cristiani dovrebbero avere nella loro esistenza matrimoniale un seme di
verginità, intesa non come mera astinenza sessuale , ma come desiderio di
donazione pura e assoluta per il regno di Dio e la sua giustizia”.