Lo studio nella formazione
monastica
DENTRO UN SERIO CAMMINO
SPIRITUALE
Il monaco deve fare costantemente sintesi tra la propria
vita spirituale vissuta e compresa in Cristo e le sollecitazioni che vengono
dal mondo. Perciò è necessario che lo studio e la formazione si realizzino
entro un cammino di incontro/comunione con Dio.
La prima considerazione da
farsi circa lo studio nella vita monastica deve sgomberare il campo da un
duplice equivoco.
Il primo è quello di
ridurre il cristianesimo e la vita monastica a una semplice «dottrina» da
conoscere attraverso lo studio, magari di autori, classici o contemporanei,
noti per i loro contributi nell’ambito del monachesimo. Potremmo così
descrivere questa riduzione: vita monastica uguale a conoscenza intellettuale
del monachesimo.
UN’ANTROPOLOGIA
UNITARIA
Il secondo, a mio avviso
più diffuso e più pericoloso del primo, consiste nel ridurre il cristianesimo e
la vita monastica a un semplice insieme di atti per lo più spontanei ed emotivi
che traducono un “sentire” immediato e che dovrebbero diventare pratica di
vita, appagandone le istanze. In questa prospettiva la vita monastica viene
ridotta a semplice soddisfazione di emozioni, o realizzazione di ideali
soggettivi ritenuti fondamentali per la propria crescita umana e spirituale.
L’intrinseca unità
dell’uomo non permette che si possa legittimamente separare, nel monaco, la
conoscenza del monachesimo dalla vita monastica concreta. Il punto focale e
sintetico, che unisce le due dimensioni della vita monastica, è dato dalla vita
spirituale. Risulta allora necessaria una costante e profonda crescita nello
spirito che permetta di cogliere e di ravvivare il dono di Dio che è nel cuore
(cf. 2 Tim 1,6). Non solo. Il grande evolversi della società contemporanea
verso situazioni sempre nuove e spesso impreviste e imprevedibili, deve trovare
il monaco preparato ad affrontare la realtà, non di rado complessa, che lo
circonda, sapendo che «è dovere permanente della Chiesa» e quindi anche del
monachesimo «scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del vangelo»
(Gaudium et spes, 4).
Da quanto detto, risultano
evidenti almeno tre motivi che giustificano l’importanza dello studio nella
formazione monastica.
Innanzitutto «le discipline
teologiche» costituiscono un valido aiuto, anzi un vero «alimento della propria
vita spirituale» (Optatam totius, 16). Occorre sempre ricordare che la
spiritualità senza teologia diventa spiritualismo, (nel senso di essere legata
alle emozioni passeggere del soggetto) e la teologia senza spiritualità diventa
ideologia, per cui si può affermare che «tra i dogmi e la nostra vita
spirituale c’è un legame organico. I dogmi sono luci sul cammino della nostra
fede, lo rischiarano e lo rendono più sicuro» (Catechismo della Chiesa Cattolica,
89). La stessa preghiera, che sarà centrata soprattutto nell’ambito
biblico-liturgico e sgorgante dalla lectio divina, è aiutata dalla riflessione
della/sulla fede, ossia dalla teologia.
In secondo luogo, il
contesto esistenziale del “mondo” come quello odierno si presenta
particolarmente multiforme sia sotto il profilo socio-culturale sia sotto
quello etnico-religioso. Lo studio filosofico-teologico facilita nel monaco il
confronto/superamento della cultura del “mondo” con la quale necessariamente
viene a contatto attraverso varie modalità: gli stessi chiamati a entrare in
monastero vengono dal mondo, pur non essendo del mondo; il legame con
molteplici relazioni personali con l’“esterno” continua, anche se viene
ricompreso all’interno della propria vocazione monastica; inoltre, l’ospitalità
diventa ambito in cui alcuni monaci entrano in rapporto più diretto con il
mondo e, infine, lo stesso mondo entra in monastero attraverso i mass media.
In terzo luogo, la
formazione teologica permette di meglio proporre l’annuncio del messaggio
cristiano ogniqualvolta il monaco si trovi in occasione di poterlo fare,
soprattutto nell’ambito dell’ospitalità, autentica pastorale monastica
sollecitata dallo stesso san Benedetto (RB 53).
IL MONACO
UOMO DELLA SINTESI
Il monaco, di fatto, dovrà
costantemente fare sintesi tra la propria vita spirituale vissuta e compresa in
Cristo e le sollecitazioni che gli provengono dal mondo, spesso contrarie alla
prospettiva di fede, ma che non può ignorare. Per realizzare questa sintesi
nella vita, si dovrà porre la formazione intellettuale all’interno di un serio
cammino spirituale, segnato dalla personale esperienza di incontro/comunione
con Dio. Per un monaco la formazione spirituale per essere autentica dovrà
essere fondata nelle priorità cardini della vita monastica: orientamento
cristocentrico vissuto come conversatio all’interno di una communio nella quale
è presente il dono della mediazione (abate, padre spirituale); vita liturgica
il cui vertice è la celebrazione del mistero pasquale nella partecipazione
all’Eucaristia; preghiera personale e contemplatio che discendono dalla lectio
divina sulla Parola. In questo orizzonte di formazione spirituale, molto
opinabili sono le cosiddette doppie appartenenze: monaci con una forte spiritualità
e appartenenza neocatecumenale, carismatica… e che magari ignorano
completamente la spiritualità e la tradizione monastica! Inoltre, poiché il
monaco è l’uomo della sintesi, la doppia appartenenza di certo non la facilità,
nel senso che egli apparterrebbe nello stesso tempo a due communio diverse.
Se il soggetto centrale
della formazione, anche per quella intellettuale, resta sempre la persona in
tutte le sue dimensioni, il principio unificante è la fede, colta nella sua
duplice valenza: atto con il quale rispondere alla domanda con cui Dio
interpella, e contenuto che esprime quella domanda. Nella sua risposta il
monaco impegna tutta la sua persona, per cui il pensare la fede diventa una
componente di questa risposta totale (vocazione), espressione riflessa della
sua ricerca di Dio in cui trovare alimento e sostegno per lo stesso cammino
spirituale. Lo studio, quindi, deve essere aderente alla persona; deve
diventare cioè parte del suo patrimonio di esperienza conoscitiva. Non si
tratta di studiare delle nozioni per ripeterle con la mente, ma di assimilarne
il dinamismo interno, per farle diventare proprie. Questo dato fondamentale
relativo alla metodologia dello studio è ancora più carico di pregnanza quando
riguarda in profondità la propria vita e soprattutto quando si riferisce al
proprio rapporto con il Signore, unico senso della vita del monaco.
L’approfondimento personale, allora, non indica solo un metodo di studio,
quanto piuttosto un essere vitalmente inseriti in Cristo per conoscerlo sempre più
in profondità con tutta la persona, mente, cuore, volontà, affetto.
PER UNO STUDIO
MONASTICO-SAPIENZIALE
Per avvalersi del titolo di
monastico, lo studio dovrebbe avere delle valenze proprie che presuppongono
quanto detto sino ad ora, ma che necessitano di un’integrazione.
Lo studio monastico
dovrebbe maggiormente assicurare il legame inscindibile con la vita spirituale,
nel senso che la vita spirituale richiede lo studio e lo studio rafforza la
vita spirituale.
Dovrebbe rendere evidente
l’importanza dell’abate e della comunità, cardini della vita monastica. Questa
duplice prospettiva non indica uno studio ripetitivo del magistero dell’abate,
oppure interessi identici a quelli della comunità, quanto piuttosto la
sottolineatura del ruolo di guida di maestri nello studio (niente monaci
autodidatti) e della presenza della comunità di fratelli incamminati nello
stesso percorso. Insomma, il maestro e i compagni di studio diventano i primi
referenti con cui confrontarsi nel cammino verso la verità. Al tempo stesso,
però, l’ambito in cui si situa lo studio è dato dall’abate e dalla comunità che
ne esprimono le coordinate esistenziali.
Inoltre, dovrebbe avere una
particolare attenzione alla Regola, intesa come nutrimento spirituale, ma anche
come attenzione a una disciplina in cui collocare il proprio stare nello studio
non in modo arbitrario, ma seguendo un ordine, un orario, una regola.
Esso dovrebbe essere
caratterizzato da una modalità e da un contenuto sapienziale con cui
comprendere, assimilare e vivere la fede cristiana. Questo significa non solo
la particolare sottolineatura all’ambito spirituale in cui situare
l’intelligenza della fede, ma anche la dimensione affettiva e saporosa con la
quale gustare (lat. sapere) la riflessione dalla/sulla fede. Il monaco, in
definitiva, è coinvolto in tutte le sue dimensioni nell’assimilazione personale
e interiore della Rivelazione, la quale si fa storia nella storia del monaco e
della comunità monastica. Sapienziale, allora, significa uno studio che
permetta non solo una riflessione sulla fede, ma anche una contemplazione nella
fede, e questo dovrà essere assimilato e visto nella propria personale
esperienza monastica. Il monaco dovrà abituarsi a fare sempre di più sintesi
tra la sua esperienza di vita concreta in monastero e quanto comprende nel
proprio cuore dalla preghiera e dallo studio. Potremo dire che lo studio
sapienziale permette al monaco di leggere (contemplazione) la propria storia di
salvezza, non solo di viverla. Da questo pensare profondo nel dialogo orante
con l’unico Maestro, il monaco può cogliere l’azione di Dio nella sua storia e
così generare nel suo cuore dapprima la meraviglia (stupore) e poi l’adorazione
e l’amore riconoscente. La dimensione affettiva, allora, non è un semplice
sentimento che poggia su basi psicologiche, ma una realtà teologica che nasce
da un cuore che ha visto e contemplato nella propria esistenza la presenza
operante del Signore. In questa prospettiva, è chiaro che, da un lato uno
studio arido e senza anima proposto da maestri troppo professori e, dall’altro,
uno studio di monaci troppo studenti preoccupati solo degli esami, non hanno
nulla a che vedere con la teologia sapienziale.
Lo studio nell’ambito
monastico nella sua connotazione sapienziale, allora, non può essere relegato
agli anni della formazione iniziale, ma deve essere una dimensione costitutiva
dell’essere monaco, che lo accompagna per tutta la vita, così come per tutta la
vita il monaco è chiamato (vocazione) a riconoscere Dio nella sua storia e a
cercarlo ancora dopo averlo trovato. Per questa dimensione costitutiva
dell’essere monaco, lo studio non può essere riservato ai soli candidati al
sacerdozio, anzi, la stessa divisione tra i candidati alla vita monastica in
destinati al sacerdozio e non destinati al sacerdozio è fortemente debitrice di
una visione clericale in cui sembra sottintendere che il monaco completo è solo
colui che diventa sacerdote. Risulta importante, allora, che tutti i giovani
monaci ricevano la stessa formazione anche sul piano culturale e teologico. È
solo dopo la formazione iniziale (con l’emissione dei voti perpetui) e
teologica, quando il monaco ha ormai acquisito nella personale sintesi
vocazionale la propria identità monastica con profondità ed equilibrio, che
l’abate, in base alle esigenze e alle istanze della comunità, sentito il parere
dei formatori, lo chiamerà e farà discernimento con lui per cogliere la volontà
di Dio sulla sua vocazione monastica e sondarne l’eventuale apertura al
sacerdozio.
Si deve rilevare, comunque,
che nella grande varietà delle provenienze vocazionali dei candidati alla vita
monastica, si riscontrano, talvolta, giovani desiderosi di consacrarsi al
Signore in monastero, ma non sufficientemente equipaggiati delle necessarie
qualità umane, psicologiche e culturali, a cui la vita monastica non può
rinunciare, perché costituiscono la condizione antropologica su cui si potrà
costruire il futuro monaco. Sarà compito prezioso, delicato e insostituibile
degli accompagnatori vocazionali e dei formatori verificare se il giovane potrà
essere in grado di affrontare il cammino che lo condurrà alla piena donazione
di sé al Signore. Nella prospettiva dello studio, inoltre, non deve essere
preso in considerazione il semplice rendimento scolastico, ma la capacità di
fare sintesi tra vita spirituale (interiorità), intelligenza della fede
(comprensione) ed esperienza monastica (storia personale). È dalla circolarità
di queste valenze che si determina il vero rendimento scolastico nello studio.
In questa ottica, allora, anche un giovane non particolarmente incline allo
studio può e deve essere chiamato ad approfondire la personale conoscenza del
mistero di Cristo per farlo calare nella propria esperienza di fede. In taluni
casi, a giudizio dei formatori e dell’abate, si potrà adattare il curriculum
degli studi teologici alle potenzialità del giovane monaco, fermo restando che,
per quanto è possibile, esse devono essere stimolate attraverso un ambiente che
sia un costante invito a sondare le fonti e le implicazioni delle fede.
In definitiva, attraverso
la costante e personale assimilazione del legame tra vita spirituale e studio,
il giovane monaco sarà nelle condizioni per portare a buon compimento la
propria formazione iniziale e porre le basi per quella permanente. È
nell’orizzonte della formazione permanente, e non solo di quella iniziale,
quindi, che si colloca l’importanza dello studio nella vita monastica. Ritengo
un grave errore, purtroppo ancora presente nei monasteri, considerare lo studio
quotidiano come una realtà che non appartiene pienamente alla vita monastica,
in forza di un principio così riassumibile: spiritualità sì, studio no. La
separazione tra studio e spiritualità ha portato e porta all’impoverimento
della vita spirituale, vista solo come esperienza emozionale (riduzione dello
spirituale allo psicologico) o come dovere da compiere (riduzione dello
spirituale al giuridico). In entrambi questi riduzionismi si ha una vita
spirituale molto fragile, che non riesce a diventare il punto focale della vita
monastica, generando con facilità monaci spiritualmente (e anche
psicologicamente) immaturi che difficilmente resistono nel portare la croce.
Roberto Nardin
monaco di Monte Oliveto