IL FORMATORE E LA
SECOLARITÀ CONSACRATA
EDUCARE IL CUORE FORMARE
ALL’ASCOLTO
Il tema della formazione continua a essere al centro di
riflessioni anche all’interno degli istituti secolari. Che cosa tener presente
in un cammino formativo? Su quali aspetti deve vigilare un formatore
nell’incontro con il giovane?
La Conferenza italiana
degli istituti secolari (C.I.I.S.) da alcuni anni sta organizzando un corso per
formatori che ha come obiettivo quello di interrogarsi sul ruolo del formatore
oggi.
Quest’anno il corso si è
tenuto a Roma, dal 5 all’8 dicembre, e ha voluto essere un ulteriore occasione
di incontro, di scambio, di ricerca in preparazione anche al Congresso mondiale
degli istituti secolari che si svolgerà in Polonia dal 17 al 21 luglio 2004.
Più di 50 i formatrici e le formatori convenuti in rappresentanza di oltre una
trentina di istituti italiani, con l’unico desiderio di tracciare un percorso
comune nell’ambito formativo al di là dei diversi carismi e della specificità
di ciascun istituto.
I lavori si sono incentrati
attorno ad alcune importanti domande chiave: come essere formatore in un
istituto secolare? cosa tener presente allorquando parliamo di formazione in un
istituto secolare? quale rapporto instaurare tra formatore e formando/a e come
gestirlo in relazione anche con l’istituzione?
Ci ha guidati e aiutato
nella riflessione il dott. Ernesto Margherini, psicologo e psicoterapeuta, di
Benevento.
COMPITI
DEL FORMATORE
Essere formatori oggi non è
semplice cosa, soprattutto in una realtà come la nostra dove «maestri e modelli
si propongono e impongono in continuazione». Possiamo constatare che molte
volte i giovani corrono dietro ai tanti maestri, che si propongono come tali,
«semplicemente perché hanno bisogno di trovare una risposta a bisogni che
invece vanno risolti in altro modo. Ciò traduce sicuramente un bisogno comune a
tutti: quello di avere qualcuno da seguire, di avere un modello, qualcuno che
in carne e ossa sia lì presente, pronto ad ascoltarli, ad accoglierli, e
“magicamente risolvergli il problema”».
Che cosa deve offrire
allora un formatore a un giovane in formazione in un istituto secolare?
Innanzitutto dei contenuti. Ciò, ha sottolineato il dr Margherini, «non
significa solo e semplicemente fornire contenuti specifici relativi
all’istituto di appartenenza o far passare una determinata spiritualità; ottime
cose, ma che non bastano! Formare oggi significa porre uno sguardo a partire
dal contesto attuale. Spesso ci si trova dinanzi a persone che portano con sé
ferite e spesso carenze, squilibri e inconsistenze. Penso, ad esempio, a come
viene vissuta intimamente ed espressa esteriormente l’affettività,
un’affettività che, come dice Imoda, si esprime naturalmente verso tre
direttrici: dell’avere, del potere, del valere. Avere, potere e valere,
declinano sempre atteggiamenti di chi ad esempio desidera avere sempre elogi;
spera di essere eletto il prima possibile responsabile, capoclasse, dirigente
di partito, ministro; oppure di chi va alla ricerca di applausi ed essere
continuamente ricercato, valere per qualcuno».
Da questo sentire affettivo
nascono inevitabilmente atteggiamenti che devono essere presi in considerazione
e corretti per evitare danni, insoddisfazioni, delusioni, frustrazioni nella
vita consacrata ordinaria. Qui entra in gioco l’abilità del formatore che con
cura, pazienza, con arte, deve maneggiare attentamente le ferite dell’altro che
«in larga parte dipendono da carenze affettive». Maneggiare con cura, che non
vuol dire «consolare, ma bensì illuminare, cioè far presente alla persona la
zona d’ombra» perché impari a gestire in modo maturo e responsabile il suo
mondo interiore, spesso cassa di risonanza di altro. Bisogna educare la persona
ai valori: «valori sempre antichi e sempre nuovi! Valori che hanno una loro
oggettività e non rispondono al “secondo me”: il valore è, non sta alla logica
del “secondo me!”».
Il formatore deve inoltre educare
alla tolleranza del conflitto: il che significa che deve «educare e orientare
la persona alla massima umanità e stimolarla alla massima competenza
professionale secondo le risorse di chi si trova dinanzi. Deve fare in modo che
tale massima umanità e competenza professionale non siano legate al bisogno
dell’avere, del potere, del valere, quanto piuttosto del dare, dell’offrire,
del donare all’altro».
Il formatore di un istituto
secolare – ha proseguito Margherini – deve essere «particolarmente attento a
non formare dei “piccoli-medi borghesi”: occorre formare operai della vigna;
educare a una identità celibataria per il Regno. Occorre educare e formare
persone che siano entusiaste di vivere la vita, di celebrare la vita». Uno dei
rischi più grossi nell’ambito formativo è proprio quello di educare le persone,
che si affidano a noi, «all’imborghesimento rannicchiandoli noi stessi in botti
apparentemente di ferro e confinandoli in spazi e ambiti ristretti. L’impegno
nella secolarità invece ha un ampio respiro, si muove su ampi orizzonti!
Occorre moderare le intemperanze, sollecitare e svegliare gli assopiti o chi è
andato in letargo. Il formatore, attraverso anche le linee guida dell’istituto,
deve tenere sempre in stato di vigilanza i propri membri».
Già nell’esortazione
apostolica Evangelii nuntiandi in riferimento ai laici consacrati si dice: «Il
loro compito primario è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed
evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nella realtà del mondo. Il campo
proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato
della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura,
delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della
comunicazione sociale» (EN 70). Proprio per questa specifica vocazione di
essere a pieno titolo inseriti nel mondo occorre un’attenzione continua e una
lettura costante dei segni dei tempi: il formatore di un istituto secolare non
può dimenticarsi di questo: deve educare e formare il giovane a una lettura
attenta e continua della storia; deve educarlo a inserirsi nella storia «non
come oggetto di abbellimento, come soprammobile, ma piuttosto inserirsi come
elementi che danno vita alla storia stessa e ne determinano (o contribuiscono a
determinare) il percorso». Il rischio a volte è invece quello di essere e di
rimanere delle belle e care persone che «vivono all’interno degli istituti di
appartenenza il sogno di un’esistenza vissuta in un’isoletta felice dove si può
restare indisturbati dalle perturbazioni sino a quando non arriva il ciclone
che smuove le nostre presunte, ma certamente false sicurezze, e con ingenuità
poi alla fine ci domandiamo come possa essere accaduto un evento che magari è
da tempo che fa capolino, ma noi siamo intenti a proteggere le nostre piccole
conquiste borghesi oppure stiamo piacevolmente sonnecchiando o siamo in
letargo». Rischi e pericoli su cui vigilare e dove soprattutto un formatore
deve porre attenzione per aiutare il giovane ad assumersi la responsabilità
della scelta vocazionale a servizio del Regno.
Un altro aspetto importante
è educare all’interdisciplinarietà cioè promuovere nel giovane la capacità di
vedere la realtà su ampi orizzonti: «Occorre creare e determinare delle
interconnessioni, dei punti di collegamento tra di loro», altrimenti si formano
dei settori a se stanti come se la vita fosse naturalmente divisa e separata
nei suoi diversi aspetti; il giovane va educato a questa capacità di guardare
la realtà in tutte le sue componenti.
EDUCARE
SOPRATTUTTO IL CUORE
Altrettanto importante e
significativo per il formatore è «educare i formandi all’ascolto, guidare i
formandi all’educazione del cuore. Educare cioè le persone a esprimere le
proprie emozioni, senza timori, senza preconcetti di giudizi di non accettazione,
di rifiuto». Educare all’ascolto: compito molto arduo in questa nostra realtà
sociale dove prevale il rumore assordante, dove l’ascoltare e l’ascoltarsi
sembra una perdita di tempo. Ogni buon formatore deve impegnarsi a educare il giovane
a un attento cammino di ascolto personale e comunitario: «Ascoltare significa
passare dalla paura a una libertà affettiva e di accettazione di sé. Significa
passare da una posizione egoistica a una relazione dialogica. L’ascolto implica
sempre un rapporto dialogico col sé più profondo, più intimo, più segreto, o
anche col semplice altro da me che diventa il mio interlocutore». È importante
allora aiutare la persona a educare il cuore per una crescita personale; una
crescita che deve porsi sia sul piano umano che in relazione a Dio.
Educare all’ascolto e
educare il cuore dunque due realtà che camminano insieme e che un formatore
deve sempre tener presenti nell’opera educativa e formativa alla vita
consacrata. Spesso arrivano ai nostri istituti giovani con il cuore “congelato,
freddo, arido, ferito, oppure troppo esuberante, eccessivamente oblativo”:
«Siamo legati a mille affetti e cosucce spicciole, di poco conto ma a cui diamo
un grande valore. Spesso perdiamo di vista l’orientamento. L’esperienza di relazione
tra l’uomo e Dio corre il rischio di divenire un optional o tutt’al più un
contorno più o meno gustoso di una ricca pietanza fatta di altri cibi deliziosi
e succulenti che portano prima o poi alla humana fragilitas: crisi vocazionali,
innamoramenti più o meno segreti ne sono l’evidenza». Conseguenza di tutto
questo è che abbiamo un «cuore dilatato per le altre cose e per gli altri e
parimenti abbiamo un cuore congelato, anaffettivo, anestetizzato nei confronti
della nostra famiglia vocazionale». Essere formatore significa porre attenzione
anche a questi aspetti soprattutto all’inizio di un percorso vocazionale.
EDUCARE A ESPRIMERE
LE EMOZIONI
Vale la pena spendere
qualche parola sulla valenza e sull’importanza di educare a esprimere le
proprie emozioni. «Un formatore deve aiutare il formando a riconoscere le
proprie emozioni, accettarle, rispettarle ed esplicitarle». Nonostante le
grandi rivoluzioni epocali, «nella società attuale sembra che ci si trovi
dinanzi a un icerberg quando parliamo di emozioni: siamo confusi e frastornati.
Ci troviamo, da un lato, dinanzi alla ricerca esasperata di emozioni,
dall’altro, ci troviamo dinanzi a un appiattimento emotivo, a un rinchiudersi
in una sorta di conformismo ed efficientismo dove il disagio emotivo si esprime
attraverso la psiche e i disturbi fisici». Chi accompagna un giovane in un
discernimento vocazionale o in una cammino formativo dentro all’istituto deve
fare i conti con questa realtà: a volte arrivano giovani che sono o
«eccessivamente spontanei, o effervescenti, oppure che presentano una rigidità
estrema; giovani o estremamente superficiali oppure estremamente ossessivi,
intransigenti; persone estremamente sensibili o paurosamente anaffettive». La
grande sfida nell’ambito della formazione non è più tanto sui contenuti
spirituali: «la grande sfida oggi sta forse nello stabilire tutto un piano
formativo che parta dalla persona; una persona fatta di cuore, pensieri,
emozioni, di ferite, di bisogni, di consistenze e di inconsistenze, di affetti!
Una persona che porta con sé anche una storia e un progetto di vita» ed è su
questo progetto di vita che dobbiamo costruire e aiutare la persona a prendersi
in mano per crescere verso la piena realizzazione di sé a servizio del Regno.
IL FORMATORE DEVE
USARE IL CUORE
Il formatore non può mai
dimenticare l’obiettivo per cui si è stato chiamato a svolgere questo servizio.
Egli, per primo, deve imparare a mettere in gioco tutta la sua affettività,
superando le immediate attrazioni e simpatie o immediate repulsioni e
antipatie. «Se usassimo il cuore per la nostra crescita spirituale – ha
affermato Margherini – potremmo costruire rapporti significativi; ancora, se
usassimo il cuore passeremmo dalle proprie cose alle cose di Cristo; dalla
logica del confronto alla logica del riconoscimento; dalla logica dell’imporci
a quella del narrarci».
Detto in altri termini,
bisogna creare e stabilire relazioni di intimità, di empatia, di fiducia, di
apertura all’altro, stima e comprensione. Tutto ciò «significa uscire da una logica
di invischiamento nelle relazioni con l’altro e ottenere così un duplice
beneficio, sia per il formando che per il formatore. In questo modo si libera
la persona e sé stessi e si respira aria pura, non viziata». Usare il cuore
dunque per relazionarsi con l’altro in modo maturo e responsabile, senza legare
nessuno a sé, ma aiutare il giovane ad assumersi pienamente e totalmente la
responsabilità del suo cammino di crescita.
Uno dei problemi per il
formatore è che questi riceve dall’alto un incarico. Ma, «un potere legittimato
che gli viene conferito deve essere poi condiviso; deve cioè essere
riconosciuto dagli altri, conferito dagli altri. Rimane comunque vero che,
essendo demandato al formatore l’esecutività del progetto formativo, sarebbe
opportuno che questi, più che essere autoritario, debba invece possedere delle
qualità di autorevolezza e capacità di mediazione e di flessibilità».
Spesso accade che i
“vertici” hanno delle grosse difficoltà nell’individuare, all’interno del
proprio istituto, dei referenti per la formazione e capita che si cerchi fuori
aiuti, per quanto preziosi, con il rischio di delegare ad altri responsabilità
e compiti che competono invece ai membri dell’istituto stesso. Come ha
sottolineato Margherini, «le risorse formative vanno ritrovate all’interno
dell’istituto stesso e vanno formate! E talvolta formatori che siano dottori e
professori potrebbero risultare i meno adeguati se non ci mettono cuore».
Pertanto, essere formatore
oggi continua a essere una responsabilità, un compito, un dono, una sfida: non
basta possedere delle tecniche per quanto utili e preziose; bisogna formarsi a
porre sempre più attenzione-tensione al versante comunicativo-relazionale.
Orielda Tomasi